Nella vecchia Balena Bianca non è che fosse troppo gradito: lo definivano, ed era un modo per tenerlo ai margini del partito, un indipendente. «Io gli dissi che gli indipendenti non esistono, esiste l’indipendenza», ricorda. Presidente nazionale delle Acli dal 1976 al 1987, senatore della Democrazia cristiana dal 1987 al 1992, Domenico Rosati, classe 1929, è figlio del secolo breve. Ha vissuto da protagonista la temperie del Novecento, i suoi drammi, le sue contrapposizioni asperrime, ma anche le sue conquiste, per tutte lo Statuto dei lavoratori. Ha iniziato a lavorare per le Associazioni cristiane lavoratori italiani fin dagli anni Cinquanta, nel pieno della Guerra Fredda e, da presidente dell’Acli si è speso per caratterizzarla come un movimento della società civile impegnato sui temi della pace, del lavoro e della democrazia e per una riforma della politica. «Mi consideravo un moroteo del dopo Moro» racconta a Patria Indipendente. E prende le mosse proprio da lì, dal delitto Moro – «una partita certamente non giocata solo in Italia, ma calata in pieno nello scacchiere internazionale» – per ragionare sul presente, sull’aggressività della destra e il suo camaleontismo ma anche sulle difficoltà del centrosinistra ad aggregare gli uomini e le donne di questo Paese attorno ad un progetto di cambiamento. Parte da Aldo Moro, Rosati, perché, dice, «con l’omicidio Moro prima, e con la morte di Berlinguer poi, si è persa l’occasione storica che si era presentata al Paese, quella della maturazione di una forza capace di sviluppare una grande evoluzione-rivoluzione che tenesse assieme difesa della classe operaia e difesa della democrazia. L’eredità della solidarietà nazionale e del compromesso storico era basata sua una evoluzione contestuale e sulla convergenza della Dc e del Pci: questa strada non la si volle percorrere, non la si lasciò maturare, ma, al contrario, si prese l’occasione dell’attacco violento del terrorismo per affossare quel processo. E i risultati li abbiamo davanti agli occhi: il senso comune in Italia è senso comune di destra».
Sta dicendo che quella della solidarietà nazionale e del compromesso storico è una occasione persa che ha riverberato e riverbera i suoi effetti sul presente?
Assolutamente sì. La linea democratica – mi permetta questa affermazione pesante – è ancora di minoranza e non è riuscita ad aggregare un consenso sulle posizioni che erano maturate negli anni 70 e 80. È il mio cruccio più grosso. Lo ripeto, noi abbiamo perduto l’occasione unica e importantissima per realizzare intorno alla solidarietà democratica la maturazione di una forza capace di governare la complessità e perseguire l’interesse generale. L’affermarsi, in questi anni, della destra, quella di Salvini e quella di Fratelli d’Italia, la sua penetrazione tra larghi strati popolari, possono essere letti anche come il risultato della sconfitta-rinuncia delle forze democratiche negli anni 70-80.
Le elezioni regionali ci dicono che all’interno della destra italiana si va prefigurando una modificazione dei rapporti di forza. Con quel voto si apre la questione della leadership in quell’area politica?
Guardi, il fatto stesso che immediatamente dopo i risultati elettorali Salvini abbia insistito sul fatto che le leadership «le decidono i cittadini» e che la Lega in ogni caso è il primo partito del centrodestra è il segno di una difficoltà. Salvini sta sulla difensiva. Il leader della Lega presidia, perfino goffamente, le posizioni una volta acquisite e che oggi sono messe in discussione, non dal declinante Berlusconi e da Forza Italia, ma da Giorgia Meloni.
Fino a pochi mesi fa per l’Europa i leader della destra avevano solo parole di disprezzo. “Fuori dall’euro” era il loro mantra. Oggi la narrazione pare cambiata. A settembre Meloni è stata eletta presidente del Partito dei conservatori e riformisti europei, raggruppamento della destra euroscettica che si colloca nel mezzo tra il Ppe e Identità e democrazia, il gruppo estremista al quale aderiscono Lega e Front national di Le Pen. Nella Lega d’altro canto, c’è chi come Giorgetti punta ad alleanza moderate in Europa. Sono spostamenti solo tattici o c’è dell’altro?
Non penso che ci sia un ribaltamento di posizioni a seguito di una ridefinizione della propria collocazione strategica, semmai il riposizionamento può avvenire per il fatto che la destra, e nello specifico la Lega, ha pagato nelle urne i toni esasperati di quest’ultimo anno. Insomma, il centrodestra ha bisogno di riqualificarsi o, meglio, di camuffarsi, sul terreno europeo e nazionale per contendere il terreno alle forze di centrosinistra, parlo del Pd e del M5S, che oramai, pur se tra di loro divise e contrastanti, si vanno attestando sempre di più su una linea politica che definirei centrista.
Se Salvini esce dalle regionali col fiato corto – altro che cappotto annunciato! – e, con una sostanziale inversione ad U, tende ora a cucirsi addosso un vestito moderato, Giorgia Meloni appare, al contrario, corroborata dalla tornata elettorale. Gad Lerner preconizza per lei un futuro da leader del centrodestra, «erede legittima – scrive – della tradizione populista illiberale del Novecento italiano». Il dna post fascista quanto pesa in Fratelli d’Italia?
Sui contenuti e lo stile di Fratelli d’Italia penso non ci sia molto da discutere. La linea è quella di sempre, sovranista e rigorosamente di destra. Le dirò di più. Non mi preoccupano tanto i dirigenti del vecchio Msi che sono affluiti sotto le insegne di FdI. Non è Ignazio La Russa il problema, quanto i tanti giovani che nel nome di Giorgia Meloni si aggregano, si fanno trascinare e offrono apporto e consenso alle posizioni di quel partito. L’errore grave delle forze democratiche è quello di aver trascurato la realtà giovanile, nel senso che è mancato un insegnamento ed una analisi sulla realtà del fascismo. L’educazione alla Costituzione e l’antifascismo devono partire dalla scuola. Ho una figlia che insegna filosofia e non mi stanco di ripetergli quanto sia importante spiegare ai giovani cosa ha significato la dittatura. Il fascismo è violenza incarnata. E invece, vedo che nel Paese c’è una acquiescenza esplicita o tacita nei confronti del fascismo. Quando il regime mussoliniano cadde ci fu un momento di gioia ed entusiasmo, ma poi cominciò a farsi strada questa idea: che il fascismo era una dittatura sopportabile, che aveva bonificato le paludi, che se Mussolini non si fosse imbarcato nella guerra… Insomma le trite menzogne e i luoghi comuni sul fascismo, “che ha fatto anche cose buone”, sono arrivati fino a noi. Viaggiano sui social e danno alimento non solo a CasaPound ma allo stesso partito della Meloni. La verità e che entrambe queste forze si abbeverano alla stessa fonte, esprimono gli stessi concetti sull’Europa, l’immigrazione, l’economia, i diritti civili. Non saprei dire in nome di quali principi la Meloni possa essere accreditata come esponente di una posizione di destra liberale, quando solo qualche anno fa sosteneva di avere «un rapporto sereno con il fascismo», quando molti esponenti di Fratelli d’Italia non perdono occasione per manifestare il loro disprezzo per la democrazia, inneggiare al Duce e insultare – pensiamo alla frasi pronunciate da un dirigente di quel partito contro Liliana Segre – gli avversari politici. Se poi guardiamo alle forze con le quali FdI si è aggregato a livello europeo, ebbene tutto sembrano fuorché liberali, basti ricordare Vox, il partito della destra radicale spagnola, nostalgico del franchismo. Detto questo, sottolineo pure che non credo che la soluzione liberale o liberista sia quella oggi vincente sul piano europeo. Penso, piuttosto, che bisognerebbe rivalutare le ragioni di una economia che sa programmare il futuro. Sul passato bisogna riflettere, sia quando si tratta di fascismo, sia quando parliamo dei guasti prodotti dal liberismo spinto che ci è stato somministrato dopo l’avvento della globalizzazione.
Rosati, il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, spera in una svolta a destra del Ppe. Le sembra possibile?
Non mi pare ci siano gli elementi e poi se ci fosse una svolta nel Ppe il primo “cliente” sarebbe comunque Berlusconi che ne fa parte con grossi titoli anche se con pochi voti.
Sovranismo ed Europa possono essere compatibili.
Si può essere disinvolti e spregiudicati quanto si vuole, ma una cosa è certa: se trionfano i sovranismi muore l’Europa.
Pubblicato lunedì 26 Ottobre 2020
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