È tanto bella da poter essere una top model. Un sorriso che risalta sulla pelle ambrata, gli occhi luminosi e intelligenti che bucano lo screen dai profili social. Caratteristiche talmente oggettive da essere sottolineate da gran parte della stampa. Soprattutto della destra, come fossero una colpa. Già, perché quel volto non è di una ragazza qualunque: è di Sirin Ghribi, donna, ventitreenne, italiana di seconda generazione, nata a Faenza da genitori tunisini, eletta qualche settimana fa presidente della sezione Anpi di Castel Bolognese, nel ravennate, dove quasi ogni luogo racconta di Resistenza. Laureata in economia e management all’università di Bologna, è fra i più giovani presidenti a livello nazionale. Forse scelta a bersaglio di un fuoco di parole per colpire l’associazione dei partigiani tutta? Che, secondo chi si diletta nel generare pattume mediatico, tra i suoi misfatti dovrebbe annoverare l’avere tante adesioni in particolare tra le nuove generazioni, il promuovere iniziative partecipate, essere un presidio di democrazia. Ma con Sirin quella stampa non ha fatto i conti, lo si capisce subito.
Avevo saputo di commenti sgradevoli sui social, ma credo soffermarsi e dare peso ai post sia una perdita di tempo. Ho capito che la vicenda diveniva seria quando ho letto articoli molto poco rispettosi su alcuni quotidiani e settimanali. La mia reazione? Sorrido, ricordando a me stessa di vivere nel 2020. Nel nostro Paese si parla tanto di integrazione, invece sembra proprio che su questo tema siano al palo. Credo che tanto livore sia dovuto semplicemente al fatto che l’Anpi ha colpito nel segno, perché sa rappresentare pienamente l’Italia di oggi e quella di domani. La destra, probabilmente, è contraria all’integrazione ed eleggere presidente di una sezione dei partigiani “una straniera”, come mi definiscono quelle testate giornalistiche, non va giù. Dimostra che stanno perdendo la battaglia contro il riconoscimento dei diritti; che il fascismo non è scomparso e i partigiani non sono affatto figure del passato. Voglio dire che, secondo me, tanta aggressività rende palese, semplicemente, che noi, l’Anpi, stiamo vincendo. E loro non ci stanno.
Si sente una partigiana Sirin? e che vuol dire essere partigiani oggi?
Mi piace molto la storia e sui libri si legge che i partigiani sono coloro che hanno combattuto il fascismo. Dal mio punto di vista, hanno anche risollevato l’Italia ridotta in macerie dalla guerra fascista. Credo pure che il fascismo non è solo quello storico di Mussolini e Hitler e purtroppo non è finito con il secondo conflitto mondiale, per un lungo periodo è stato sottaciuto e protetto. In realtà sono solo cambiati i nomi, ma la sostanza resta la medesima. Il fascismo 2.0 per esempio è chi alimenta la paura per i migranti, per noi “stranieri”, utilizzandola come strumento di propaganda politica. È fascismo questo, per me. Ogni giorno dobbiamo convivere anche se non vogliamo, con ideologie e atteggiamenti fascisti, per questo possiamo considerarci, anche noi, partigiani. Perché partigiano oggi è chi lotta per i propri diritti, e sta dalla parte del più debole e di chi ha difficoltà. Pure l’italiano medio in questo momento soffre. Durante il lockdown sono stata una volontaria della Confraternita della Misericordia a Castel Bolognese e posso affermare che il 90 per cento delle famiglie a cui portavamo aiuti di prima necessità erano italiane. Quindi a fare la differenza non è il colore della pelle, siamo tutti fragili in un’epoca estremamente complicata.
Sei stata vittima di razzismo?
Altroché, anche di bullismo. La prima frase razzista mi è stata rivolta quando ero in prima elementare. I bambini sono terribili e i più possono essere molto crudeli, non è una novità, non fu piacevole però sentirmi dire che “puzzavo” perché ero tunisina. In seguito, quando frequentavo le scuole medie mi hanno rotto “accidentalmente” un polso; mi hanno insultata sui social, arrivando ad esporre mie fotografie in giro per la città. Un giorno poi, avevo ormai diciassette anni, sono stata minacciata di morte con dei messaggi sul cellulare: “Spero che ti ammazzino”, “ti investano con una macchina”, “ti succeda qualcosa”. Mio padre voleva che denunciassi subito ai carabinieri, invece ho scelto un’altra strada, il dialogo, una modalità pacifica. Non volevo né creare troppi problemi, né sporcare la fedina penale degli autori delle intimidazioni. Eravamo durante le vacanze di Natale e ho aspettato la riapertura della scuola. Ero rappresentante di classe, perché nonostante mi prendessero in giro, i miei compagni sapevano di poter contare su di me. Chiamai il preside, la vicepreside, la rappresentante d’istituto, feci sentire gli audio e leggere i messaggi. Il preside sussultò, incredulo al fatto di essere riuscita a resistere per ben due settimane, ammise che al mio posto avrebbe avuto ben altra reazione.
E come andò a finire?
Chi mi era ostile, capì che ero determinatissima ad andare avanti e si fermò. Però continuavo a essere isolata, considerata quasi un corpo estraneo dalla classe e da tutta la scuola per il mio aspetto fisico, ero molto grossa all’epoca. Quando decisi di candidarmi a rappresentante di istituto, sostenuta – sembrava – dai miei compagni di classe, è stata una disfatta. Ho ricevuto insulti da tutti, dai bambini fino agli studenti dell’ultimo anno e i miei compagni si sono sfilati l’uno dopo l’altro, lasciandomi sola. Tornata a casa in lacrime, mia madre suggerì di mettermi a dieta. Devo ringraziare i miei genitori, mi sono stati accanto facendomi capire che potevo trasformare la mia debolezza in un punto di forza. Ebbene, quando sono divenuta una persona nota, lo dico tra virgolette, con l’elezione a presidente della sezione Anpi, proprio le stesse persone che allora si affannavano a insultarmi sono state le prime a chiedermi l’amicizia sui social. Confesso: è stata una grandissima soddisfazione, una rivincita, perché ho combattuto anni per i diritti, per avere un’idea pulita di noi, perché mi sono impegnata e ho camminato sulle mie gambe.
Quindi esiste una questione di violenza giovanile nel nostro Paese.
Parlerei piuttosto di violenza trasversale di ogni generazione, dai bambini agli anziani. Con varie sfumature, certo, ma esiste. I social contribuiscono parecchio. Senza dimenticare il bisogno assurdo ma generale di omologazione, di sentirsi nella corrente confortante della maggioranza, si sentono forti di riflesso, seguendo l’uomo che ritengono forte. Insisto, non bisogna assolutamente sentirsi vittime; l’unico segreto è trasformare la propria fragilità o diversità in un punto di forza.
L’Italia è un Paese xenofobo?
Il razzismo c’è ancora anche nei confronti dei meridionali, italianissimi. E non credo sia una questione di cultura, perché i più spietati sono proprio i più giovani: ripetono quanto i genitori dicono in casa, ascoltano i politici in tv, li seguono sui social. Non credo infatti sia casuale la scelta di utilizzare i social per veicolare la propaganda. Sono frequentati soprattutto dalle nuove generazioni, cellule in formazione da plasmare a proprio piacimento.
Ma se non basta la cultura, quali strumenti adottare per contrastare il razzismo?
Bisogna rendere evidente che la realtà è l’opposto, che i cosiddetti stranieri e tutti i migranti sono una ricchezza, grazie a loro in Italia possiamo avere una marcia in più; possiamo allargare gli orizzonti, usufruire di visioni differenti. Non è semplice, mi rendo conto, tuttavia bisogna continuare a impegnarsi, senza retrocedere. La mia storia lo insegna, credo.
La legge sullo ius soli è da tempo nei cassetti del parlamento, perché secondo Sirin non si riesce ad approvare?
Temo che dovremo aspettare a lungo prima di vedere varata quella legge. Fa comodo parlarne, dà visibilità. Un gioco che però va bene per un po’ ma non bisogna esagerare: votare a favore potrebbe sottrarre consensi alle formazioni politiche che l’hanno proposta. Non vogliono prendersi la responsabilità. Non si pensa ai tanti miei coetanei arrivati qui da bambini, addirittura da neonati, e che alla maggiore età non riescono ad avere la cittadinanza, e così per loro studiare e lavorare diviene un continuo superare ostacoli. Noi “stranieri” nasciamo o cresciamo qui in Italia, e siamo anche il frutto di un ambiente, di una terra, che però non abbiamo il diritto di considerare nostra.
Prima di iscriverti all’Anpi facevi parte delle Sardine.
Ho cominciato per curiosità ad osservare Santori, chiedendomi se stava facendo bene o meno. Così ho capito che per combattere fascismo e razzismo dovevo fare qualcosa di concreto, ho cominciato a frequentare quei ragazzi e le loro manifestazioni e mi son trovata bene. Le Sardine sono un movimento pacifico che contesta le opposizioni, e chi la pensa diversamente.
Le Sardine si organizzano in alcuni specifici, determinati momenti, ma grazie alle Sardine ho scoperto l’Anpi. Mio padre è un sindacalista della Fiom e mi portava alle manifestazioni, mi spiegava, mia madre se fosse rimasta in Tunisia sarebbe un avvocato, ed entrambi mi hanno trasmesso la passione per l’impegno. E devo molto anche a un’anziana cuoca, maestra di alcuni corsi di cucina che ho frequentato. Mi ha trasmesso tanti racconti sulla Resistenza locale mentre a scuola non c’era mai stata l’occasione di ascoltare testimonianze dirette dei partigiani. Mi son documentata, ho studiato.
Un amore folgorante per l’Anpi?
Con l’Anpi so di non essere più sola a combattere le mie guerre. Ho constatato che tramite le iniziative, le manifestazioni culturali, gli incontri, i rapporti tra persone diverse, l’associazione è attiva sempre. Lucio Borghesi dell’Anpi di Castel Bolognese mi aveva ha invitato a partecipare, ho collaborato ad esempio per la realizzazione della statua della Staffetta partigiana che finalmente è in piazza, e poi ho preso la tessera, ma di mia iniziativa, nessuno me lo ha chiesto. Quando è arrivata la proposta di essere la presidente di una sezione che conta molti giovani ho sentito la responsabilità dell’incarico. E non mi pareva possibile di essere stata eletta. Infatti ho premesso che chiederò l’aiuto di tutti, sarà un lavoro di squadra. Noi giovani abbiamo l’occasione di dimostrare quanto valiamo e non va sprecata.
L’Anpi è un sapiente equilibrio tra generazioni, che fare per aprire ancor di più ai giovani?
Ho un fratello più piccolo di dieci anni, è una distanza siderale dalla generazione a cui appartengo, i suoi coetanei non hanno il minimo interesse per l’impegno civile. Credo che la strada per coinvolgerli, sia stimolare la loro curiosità. Creando e eventi anche via social per sollecitarli, e invitarli a documentarsi da soli, così da renderli reali costruttori e protagonisti del loro futuro.
Pubblicato sabato 24 Ottobre 2020
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