Aldo Tortorella è preoccupato. Al vecchio partigiano e dirigente comunista abbiamo chiesto di ragionare sulla montante violenza fascista che percorre il paese. E “Alessio” – nome di battaglia di Tortorella nei mesi formidabili della Resistenza a Genova e, prima ancora, a Milano – non si sottrae. Anzi. Il suo sguardo si proietta sul Novecento sulle tragedie del “secolo breve”, le sue speranze e le cocenti delusioni, e travalica i confini italiani per guardare con inquietudine quel che è accaduto solo pochi giorni fa in Polonia, l’assassinio in piazza del sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz. Un delitto politico che scuote l’Europa a pochi mesi dal voto per il rinnovo dell’europarlamento. «Quell’omicidio è figlio del pesantissimo clima di odio che permea la società polacca, un clima di cui è certamente responsabile il governo Kaczynski. Temo che l’omicidio di Danzica farà scuola. È ovvio che il killer, un delinquente comune, non è andato lì di sua iniziativa».
Adamowicz vittima di un complotto fascista?
«Sì. Una cosa su cui bisogna essere assolutamente educati è che è vero che la storia non è fatta di complotti, la storia è fatta di grandi questioni di massa. Però i complotti esistono. La storia della Repubblica Italiana, da Portella della Ginestra fino al delitto Moro è anche una storia di complotti per bloccare i processi democratici e favorire avventure autoritarie. Intendiamoci, oggi la violenza politica si manifesta in forme diverse da quelle degli anni Venti e Trenta del Novecento. Non c’è, ancora non c’è, gente disposta ad andare a incendiare le sedi dei giornali della sinistra e le Camere del lavoro, però registro un pericoloso salto di qualità della violenza fascista. A cui occorre reagire in primo luogo con le leggi a disposizione, che vietano la ricostituzione del partito fascista e l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. In secondo luogo va fatta una campagna di opinione fortissima contro l’uso della violenza politica. In Europa e in Italia. È importante che tutti capiscano che la violenza non si rivolge solo verso qualcuno che viene qualificato come antifascista, il militante della sinistra, l’oppositore politico, il giornalista, ma colpisce e ferisce la società intera. La risposta dello Stato di fronte alle violenze deve essere inflessibile e ferma. Se lo Stato venisse percepito come debole si potrebbe innescare una sorta di giustificazione all’autodifesa da parte dei soggetti colpiti da tale violenza: “Lo Stato non mi tutela, allora mi difendo da solo”».
«Sarebbe una sciagura, perché ci porterebbe all’ingovernabilità prima e alla repressione del dissenso poi. Il monopolio della forza da parte dello Stato, sotto il controllo democratico, è uno dei presupposti della tenuta delle società umane. Se questo monopolio viene dimenticato o adoperato a fini di parte, ignorando i principi fondamentali della democrazia costituzionale si va al peggio. Occorre un impegno totale dello Stato contro la virulenza fascista. La sottovalutazione dei fenomeni di violenza da parte delle istituzioni rischia di produrre effetti pericolosi».
L’Europa, lo vediamo con il tragico caso del sindaco di Danzica, è attraversata da un’ondata nera. Del pericolo fascista si è parlato nel corso del convegno internazionale che l’Anpi ha tenuto a dicembre a Roma “Essere antifascisti oggi in Europa”. Da quell’evento, durante cui hai svolto la relazione introduttiva, si è levato un appello per la costruzione di una moderna rete antifascista di dimensione continentale. Non credi che – pur nella consapevolezza delle difficoltà che attraversano le forze progressiste europee – sia una strada da imboccare al più presto?
«Certamente, e l’ho detto in quell’assemblea. Che era una iniziativa dell’Anpi, giustamente ripresa e segnata da una partecipazione assai notevole, indice di una necessità sentita non solo da noi e non solo in Europa. Ha parlato anche Manuela Davila, la rappresentante dei 45 milioni di voti che in Brasile si sono opposti, pur senza successo, alla presidenza di un parafascista che ora comanda in nome del grande capitale. Sta cambiando e in parte è già cambiata, a partire dagli Stati Uniti, la stagione del conservatorismo liberista autore della globalizzazione. Il mercato unico mondiale dei capitali ha favorito i più grossi e le più grandi ricchezze, ma di fronte alle rivolte che si minacciano e in parte avvengono nelle forme più varie, comprese le migrazioni di massa, la tendenza è a buttare a mare il “bon ton”, il “political correct”, a levare il bastone all’interno e a promuovere nuove guerre. Nascono nuove crociate (il percolo dei neri qui e dei messicani là, dei russi o dei cinesi o di entrambi ecc.). Tutto già visto e già patito. Ma per questo è necessario costruire un fronte internazionale per un rinnovato antifascismo, consapevole di ciò che resta dell’armamentario del passato e di ciò che muta. Già la seminagione dell’odio richiama l’uso della violenza».
In uno degli ultimi episodi di violenza fascista, l’aggressione squadrista ai giornalisti de L’Espresso che erano al cimitero del Verano di Roma per seguire la commemorazione dei fatti di Acca Larentia, la risposta del responsabile del Viminale è stata a dir poco elusiva. Non si è voluto cogliere il connotato politico di quella violenza, non è stata nominata la parola fascismo. E parliamo di un ministro, Salvini, che non perde occasione per attingere alla fraseologia mussoliniana.
«Salvini non può non sapere che c’è un sentimento per l’uomo forte. L’uomo forte nella storia italiana del ’900 è quell’essere grottesco e tragico che fu Mussolini. Atteggiandosi a novello duce il leader leghista si propone come “l’uomo del destino” dell’oggi. Non, come qualcuno pensa, per un bisogno psicologico ma per un mero calcolo politico. Calcolo politico vuol dire corrispondere a un sentimento diffuso per l’uomo forte. Caratteristica tipica, questa, dei populismi. Il tema che si pone oggi in Europa e nel mondo, da Trump a Orban, è esattamente quello del rapporto tra il capo e le masse, la distruzione dei partiti (sotto la forma della distruzione delle élite) e lo svuotamento della democrazia rappresentativa, in nome di una tanto vagheggiata quanto fumosa democrazia diretta nelle mani di un uomo solo, al comando di un esercito di mazzieri, o di una trappola digitale, o di entrambi. Noi però sappiamo benissimo che la fine della democrazia rappresentativa vuol dire contemporaneamente la morte della democrazia diretta. Questa avversione verso il Parlamento riguarda sì la Lega, ma anche i Cinque stelle. Hanno conquistato il primo posto nelle elezioni, hanno costituito una maggioranza parlamentare, ma considerano le assemblee legislative esclusivamente come un megafono delle decisioni prese altrove, sulla rete o in qualche segreta stanza. L’episodio della legge di Bilancio su cui i parlamentari sono stati chiamati a esprimersi non solo con il diktat della fiducia (sciagurata pratica anche del centro-sinistra), ma senza nemmeno averla letta è un punto estremo dello svilimento del Parlamento. Non solo. Il precedente cammino della democrazia viene denigrato e si riduce al fatto che i parlamentari avevano delle pensioni troppo alte: insomma, gente che ha rubato il pane del popolo e per cui ora “è finita la pacchia”. Settanta anni di vita democratica, e anche di riforme positive, vengono chiusi in questa caricatura! Ai vecchi e nuovi demagoghi che la usano come una clava dico che la questione morale non si risolve con la diminuzione di stipendi e pensioni, innegabilmente alti, dei parlamentari (i deputati e senatori comunisti, sia detto in parentesi, ne hanno sempre versato buona parte al loro partito), ma, rappresenta, al contrario, quella che dovrebbe essere l’essenza delle moderne democrazie, cioè la fondazione morale della politica e la difesa più alta della partecipazione popolare alla cosa pubblica».
La parola antifascismo per alcuni sarebbe da consegnare agli archivi. Ma è proprio vero che il fascismo non può tornare? A leggere il rosario di aggressioni fasciste che punteggiano la cartina d’Italia verrebbe da dire esattamente il contrario, che siamo cioè nel pieno di una offensiva dell’estrema destra.
«Antifascismo è un parola che viene venduta come una cosa vecchia, che non serve più a niente perché il fascismo non c’è più e non tornerà più. Il fascismo è stato identificato con un regime specifico, Mussolini e il ventennio, mentre invece è anche altro: è un sistema istituzionale ed è un sistema di idee. La caratteristica fondamentale del fascismo è che si tratta di un regime reazionario di massa. E bisogna mettere l’accento sulla parola massa. Vuol dire che nei cervelli delle persone penetrano idee le quali costituiscono un rovesciamento delle idee classiche della democrazia, cioè che il potere al popolo non si esercita attraverso il libero confronto delle idee, ma negando, anche con la forza, il diritto al dissenso organizzato di chi la pensa diversamente da te, o, meglio, di chi non la pensa come il tuo capo. Il fascismo è la rappresentazione di idee del passato, ma le forme in cui queste idee si vanno realizzando sono ovviamente diverse. Nessuno oggi salta nel cerchio di fuoco per rinverdire i fasti di Starace. Per dirla in altri termini, non credo che via sia oggi chi voglia abolire tout court le elezioni, ma modificare il Parlamento per renderlo uno strumento docile nelle mani di chi governa, questo sì. Ed è un processo già in atto da anni».
Dunque, l’estrema destra è venuta alla ribalta ed è uscita allo scoperto perché ha percepito che andava crescendo nel Paese la condivisione alle sue idee. Ma la domanda allora è: cosa faceva la sinistra, dove guardava, a chi parlava mentre tutto questo accadeva?
«Sì, i fascisti saltano fuori quando i loro programmi non vengono contrastati da altre idee e da altre pratiche politiche, sociali ed economiche. Il dramma è che il centrosinistra, in Europa e nel mondo, in questi ultimi trenta anni, anziché combattere i fascismi con la sua visione del mondo, ha cercato di far parte dei gruppi dirigenti i quali propugnavano una politica unicamente favorevole al capitale finanziario. Invece di andare al governo per fare politiche corrispondenti alla sua missione la sinistra si è ritrovata al potere in nome del neoliberismo e a cieca difesa non dell’Europa – che è cosa sacrosanta – ma delle politiche europee che in questi anni hanno colpito i ceti popolari in tutto il Vecchio Continente. Col risultato, ovvio, che sono state accomunate all’odiato establishment. La radice del fascismo, in buona sostanza, sta nel fatto che la sinistra dimentica il suo ruolo. Quando la sinistra, sia quella moderata sia quella che crede di essere estrema, abbandona lo studio della realtà sociale e contemporaneamente dimentica lo studio delle trasformazioni della società e quindi distoglie lo sguardo dalla nascita di nuove ingiustizie, fatalmente il malessere sociale si rivolge da un’altra parte. La sinistra ha sempre pensato che la lotta di classe è quella che fa lei e se non la fa lei non la fa nessuno. È una stupidaggine che Marx non ha mai detto. Queste cui assistiamo altro non sono che forme di una lotta di massa diretta dalla destra anziché dalla sinistra. Naturalmente lotte ingannevoli perché servono a confermare e non a mettere in discussione l’ordine esistente. Nel linguaggio populista non a caso per élite si intende solo quella politica. L’élite economica finanziaria, quella che, vedi gli Usa ma non solo, ha finanziato Trump non ha nulla da temere dai populisti. Almeno non nel breve periodo, come insegna la storia del Novecento. Almeno fino a che il populismo non si risolve in un regime totalitario».
Il carburante per le formazioni di estrema destra e più in generale per la destra italiana è da sempre la paura: alimentare la paura per promettere poi di dare una soluzione a quella paura. Se una volta la paura era quella dei comunisti oggi è quella per l’immigrato, il diverso. Diverso per colore della pelle, per religione, per stili di vita. Tanto basta per non volerlo. “Prima gli italiani” dice Salvini. E non dissimili, a ben vedere, sono le parole che pronunciano i leader delle formazioni di estrema destra, CasaPound e Forza Nuova.
«La paura è uno strumento di dominio permanente. Basta guardare al decreto sicurezza su cui giustamente vi è stata una reazione di forte contrasto da parte di diversi sindaci. Quella legge gettando migliaia di migranti per strada di fatto non fa che aumentare l’area dell’illegalità. Salvini lo sa bene, ma sa anche che è soffiando sulla paura che passerà all’incasso in termini di consensi elettorali. L’immigrazione, da una parte, e la perdita di diritti determinata in Occidente dalla globalizzazione capitalistica, dall’altra, hanno generato una reazione fatale. Nei quartieri una volta operai i giovani senza lavoro o sottopagati, senza prospettive e senza speranze di un futuro migliore, vanno a ingrossare i ranghi della destra estrema. “Io non sono uguale a quello del Pakistan”; “Questi ci vengono a togliere il lavoro”. Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? Sono ragionamenti che arrivano dai quartieri popolari, dalle periferie delle nostre città. Possiamo bollarli come razzisti senza indagare fino in fondo quelle realtà? Io dico di no, dico che così si consegnano quelle persone esattamente alla destra sciovinista e xenofoba. E allora ancora una volta torno a chiedere: dove sta la sinistra? Possibile che si consegnino le coscienze di tanta parte di quello che dovrebbe essere il tuo popolo alla destra estrema? Occorrere cambiare passo: in primo luogo mettendosi alla testa di una campagna mondiale per risollevare davvero e non con la misera elemosina, le condizioni dei Paesi del sud del mondo – una cosa per intenderci come la gloriosa battaglia mondiale per le otto ore – invece di finire al traino dei mai sopiti progetti neocoloniali. E poi bisogna tornare a parlare di lavoro e di diritti sociali».
E invece è accaduto che a un certo punto la sinistra ha smesso di parlare delle condizioni materali.
«Ricordo ancora il manifesto del nuovo Labour, targato Blair: sosteneva che le rivendicazioni del futuro prossimo sarebbero state tutte immateriali, che la classe operaia e lo sfruttamento fossero ormai un ricordo del passato. Peccato che nei sobborghi di Londra proprio in quegli anni c’era gente che ancora era alla prese con il freddo d’inverno e il cibo scarso. Sono insomma convinto che la rinascita fascista ha la sua radice in fenomeni sociali ed economici e sociali di fronte a cui la sinistra non ha avuto nessuna reazione. Se noi non comprendiamo bene che la lotta al fascismo, nelle sue mutevoli forme, si deve fare anzitutto sul terreno della comprensione dei bisogni popolari, della comprensione delle modificazioni che ci sono state in questi bisogni, temo che non faremo il nostro dovere, democratico e nazionale, di sconfiggere il germe fascista».
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra, ha collaborato anche col Venerdì di Repubblica
Pubblicato giovedì 24 Gennaio 2019
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