I giorni che ci apprestiamo a vivere, condizionati dalle nuove misure anticovid, non ci hanno distratto dal proseguire la riflessione sui tanti fatti efferati di cui si sono resi protagonisti giovani spesso neppure ventenni. Dopo gli interventi, tra gli altri, dello storico e scrittore Carlo Greppi e della psicologa e psicoterapeuta Anna Oliverio Ferraris, vi proponiamo il contributo di Ferdinando Pappalardo, italianista e già docente universitario, presidente del Comitato provinciale Anpi Bari e componente del Comitato nazionale Anpi
Willy, un ragazzo italiano “di seconda generazione” (figlio di immigrati capoverdiani), pestato a morte da quattro (o cinque) energumeni a Colleferro. Maria Paola, travolta con l’auto e uccisa dal fratello ad Acerra. Daniele ed Eleonora, massacrati a Lecce da uno studente che per qualche tempo era stato loro coinquilino.
E ancora, andando un po’ indietro nel tempo: Luca, torturato sadicamente e trucidato da due coetanei in un appartamento del Collatino (ne parla Nicola Lagioia nel suo ultimo libro, La città dei vivi).
C’è qualcosa in comune in questi delitti, che hanno particolarmente scosso l’opinione pubblica, e fra essi e i tanti altri, ugualmente efferati, che si consumano quotidianamente senza assurgere agli onori della cronaca, non soltanto in Italia? Sembrerebbe di no: diversi i profili degli assassini, i contesti, le modalità dell’atto criminale, i moventi (che sarebbe più giusto definire “pretesti”, oppure ‒ per adottare la terminologia del codice penale ‒ “futili motivi”).
La gente comune dice: sono sintomi di un mondo che si sta incattivendo; e in effetti, l’unica somiglianza riconoscibile fra i fatti di sangue appena richiamati è l’esplosione di un odio cieco, di una violenza tanto feroce quanto insensata. Ma occorre indagare le origini della malattia, se si vogliono trovare i mezzi idonei a curarla.
I sociologi le individuano nella marginalità, nella perifericità, nel disagio sociale; gli psicologi, nelle turbe psichiche o negli effetti della diffusa presenza di modelli di comportamento violenti, sia nella vita reale sia nelle fictions sia nei videogames; quelli che credono di saperla lunga, e giudicano astruse le spiegazioni degli studiosi, eccepiscono che odio e violenza hanno da sempre contrassegnato la storia del genere umano in quanto manifestazioni dell’elemento ferino della nostra natura, e che la percezione delle loro reali proporzioni è alterata dal sistema dell’informazione.
Per comprendere il fenomeno, è necessario innanzitutto liberarsi dalla «superstizione della causa ultima» (secondo l’efficace formula di Marc Bloch citata da Carlo Greppi nell’intervento apparso su questo stesso giornale), che induce ad assegnare a ogni singolo reato ‒ oppure alle differenti tipologie di reati ‒ un’unica matrice; e poi evitare l’insidia del determinismo (se a certe cause corrispondessero meccanicamente certi effetti, vivremmo negli universi orrendi descritti in tanti film distopici).
Detto altrimenti, il dilagare dell’odio e della violenza ha molte ragioni, e fra esse ve ne è sicuramente una ‒ non secondaria ‒ di ordine culturale. Ma è necessario intendersi preliminarmente sulla nozione di cultura, che non va identificata con l’erudizione, e neppure soltanto con una somma di conoscenze, di saperi; cultura è anche un complesso di credenze, di usanze, di mentalità, di norme etiche, di sensibilità, di istanze valoriali.
Dunque non esiste la cultura; esistono le culture, talvolta in competizione e persino in conflitto fra loro, talaltra fra loro intrecciate. Per esempio, gli omicidi di Willy e di Maria Paola recano il marchio di una cultura che non è improprio definire fascista: una cultura che, nel primo caso, si manifesta nel disprezzo verso un’etnia considerata inferiore, nel culto e nell’ostentazione della forza fisica, nella volontà di sopraffazione, nella solidarietà del branco; nel secondo caso, nel rifiuto della diversità ‒ declinato nella forma del pregiudizio di genere ‒ e nell’esercizio di un’autorità riveniente da una anacronistica, ottusa concezione patriarcale della famiglia.
I delitti di Colleferro e di Acerra contengono due insegnamenti. Il primo: non bisogna essere affiliati a una organizzazione neofascista e condividerne l’ideologia per comportarsi e agire da fascisti. Il secondo: non è vero che la cultura fascista alligna soprattutto ‒ o addirittura esclusivamente ‒ nelle aree di sofferenza e di degrado sociale.
Eloquente, in proposito, la testimonianza di Stefano F., riportata da Paolo Berizzi nel suo recente L’educazione di un fascista. Stefano «è stato un “soldato fascista”. Ha picchiato, discriminato, ha vissuto di odio e di razzismo. Per anni. Le ha prese e le ha date»; poi è uscito dal gruppo.
Al giornalista che gli chiede come si diventa un militante neofascista, Stefano risponde: «“Ognuno di noi ha una storia e viene da una realtà diversa. La mia è una famiglia tranquilla, persone a posto, lavoratori, gente onesta. Sta storia che si entra nell’estrema destra per problemi familiari, disagio sociale eccetera è una cazzata. Entri perché ti piace. Perché qualcuno ti invita e ti prende bene”». A spingere Stefano fra le braccia dei neofascisti sono stati la solitudine, il complesso d’inferiorità procurato dalla pinguedine, e ‒ per conseguenza ‒ il desiderio di affermare se stesso, di mostrarsi più forte, nonché l’appagante sensazione di sentirsi protetto dalla comunità cui si è scelto di appartenere. Infinite sono dunque le vie che conducono al fascismo, e infiniti i canali attraverso cui il veleno della cultura fascista si introduce nel corpo della società.
Ma imputare l’attuale deflagrazione dell’odio e della violenza unicamente alla tabe del “fascismo eterno” sarebbe un errore. Torna alla mente l’analisi che Pier Paolo Pasolini (il cui acume e la cui lungimiranza non cessano di stupire) fece, sul Corriere della Sera, del tristemente noto delitto del Circeo.
Tra il 29 e il 30 settembre 1975 due giovani amiche vennero attirate con l’inganno da tre «pariolini fascisti» (due dei quali con precedenti penali) in una villa di San Felice Circeo, e lì ripetutamente abusate e torturate; una delle ragazze non sopravvisse alle sevizie, l’altra si salvò per un fortunato concorso di circostanze. Con il suo consueto tono apocalittico e scandalosamente provocatorio, polemizzando con la versione dei fatti e con i commenti apparsi sulla stampa dell’epoca, Pasolini sostenne che quell’episodio estremo di criminalità non andava addebitato soltanto ai suoi autori materiali ma a «un ambiente criminaloide di massa», conseguenza del «genocidio culturale» messo in atto dalla «civiltà dei consumi»: una civiltà che ha «distrutto cinicamente» tutte le culture precedenti e lo stesso «mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene», e dove la ferocia è l’altra faccia «dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà» (il «massacro» è l’apoteosi della «umiliazione della persona», scrisse Calvino).
Pasolini additava nella televisione il mezzo più efficace della “mutazione antropologica” realizzata dal consumismo, che aveva «concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro […], tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore)».
Sono intuizioni folgoranti, che anticipano per alcuni aspetti il celebre saggio dedicato nel 1979 da Christopher Lasch alla “cultura del narcisismo”: la cultura di una società dominata dall’egotismo, popolata da individui che rivendicano come diritto fondamentale e come suprema espressione di libertà l’appagamento dei desideri, che identificano la felicità con l’accesso virtualmente illimitato al godimento dei beni materiali, che antepongono il soddisfacimento del piacere al rispetto delle regole, e non si accorgono di condannarsi a una perenne insoddisfazione (a quanto sembra, la furia omicida dell’assassino di Lecce si è rivolta contro i simboli di una felicità e di un piacere a lui negati).
Una società che ha trasformato i cittadini in consumatori e li ha resi schiavi del feticcio della merce, col risultato di degradare persino il corpo a oggetto e di distruggere la sacralità della persona (peraltro disprezzata anche dalla cultura fascista).
Succede però che il consumismo rovesci paradossalmente l’individualismo in omologazione (analogamente, per i fascisti il conclamato protagonismo del singolo si traduce in spirito gregario), annulli la soggettività nell’adeguamento conformistico alle mode, converta l’affannosa ricerca della distinzione in una inconsapevole ricorsa all’uniformità; e accade soprattutto che l’edonismo e la pulsione narcisistica sfocino nel nichilismo.
Affiorano alla memoria le parole che la Moda pronuncia nel dialogo leopardiano delle Operette morali: «ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte».
L’escalation dell’odio e della violenza non riviene dunque da una legge di natura; è figlia del presente storico, della “struttura” (per dirla sbrigativamente con un termine ormai obsoleto) del mondo contemporaneo, ma anche ‒ in una qualche misura ‒ della micidiale miscela di vecchie e nuove culture, i cui argomenti e i cui linguaggi hanno trovato nei social media un potente veicolo di propagazione.
A quanti non si rassegnano all’attuale stato di cose, non sognano irragionevoli ritorni al passato e non si accontentano della deprecazione moralistica, incombe un duplice compito. Innanzitutto, battersi per una radicale trasformazione dei modi di produzione e di distribuzione della ricchezza: obiettivo raggiungibile a condizione che la politica riprenda il posto di comando, persegua l’interesse generale, ponga rimedio alle disuguaglianze e alle sofferenze sociali, garantisca la sicurezza individuale e collettiva. In secondo luogo, impegnarsi senza timidezze per l’affermazione dei principi, degli ideali, dei valori che hanno rappresentato il lievito del progresso e della civiltà, e che possono concorrere ad arrestare la deriva della disumanizzazione.
Ferdinando Pappalardo, italianista, presidente Comitato provinciale Anpi Bari, componente del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato martedì 27 Ottobre 2020
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