Chi ha mai sentito parlare dell’affondamento del Nova Scotia? Persino sui motori di ricerca e su youtube, prodighi di spunti per i “non ce n’è coviddi” e baggianate varie, si trovano pochi contributi. Vi sembra roba da trascurare la morte di 670 italiani, annegati nell’Oceano Indiano e divorati dagli squali? Vi sembra giusto che a ricordarli ogni anno ci pensino a Pietermaritzburg, nel lontano Sudafrica? In quale sacrario o chiesa italiana sono iscritti i nomi dei naufraghi, seguendo l’esempio della lapide collocata all’interno della chiesa di Santa Rita da Cascia, ad Adi Quala in Eritrea? Una serie di interrogativi al momento senza risposta.
Il Nova Scotia era un piroscafo britannico, 6796 tonnellate di stazza, che nel 1926 la compagnia di navigazione Johnston Warren Lines Ltd aveva adibito al trasporto passeggeri, un’attività proseguita senza intralci fino al 1941, anno in cui era stato requisito dal governo inglese per adibirlo al trasporto delle truppe impegnate nelle operazioni belliche. In quell’occasione – era il 28 novembre 1942 – aveva a bordo circa 1200 persone, in larga parte prigionieri di guerra italiani oltre ai soldati di guardia, componenti dell’equipaggio, internati civili e pochi passeggeri. C’erano anche alcune centinaia di soldati boeri, parte dei quali feriti nella battaglia di El Alamein (la seconda), terminata 23 giorni prima con una rovinosa sconfitta dell’Asse italo-tedesco capitanata dal feldmaresciallo Rommel. Alle 7:07 il sommergibile tedesco U-Boot 177, su ordine del comandante Robert Gysae, gli lanciò contro tre siluri scambiandolo probabilmente per un incursore nemico o per un cargo mercantile. Fu lo stesso sommergibile, resosi conto dell’errore, a lanciare l’SOS e a salvare due naufraghi. 181 persone saranno recuperate due giorni dopo, dai relitti e zattere di fortuna sui quali si erano rifugiati per salvarsi dagli squali, dal cacciatorpediniere portoghese Alfonso de Albuquerque mentre una nave da guerra inglese, contattata dal comandante portoghese Josè Augusto Guereiro De Brito, proseguirà la sua rotta senza aderire alle operazioni di soccorso.
Tra gli italiani annegati 651 erano prigionieri di guerra, perlopiù reduci della disastrosa avventura fascista dell’Africa Orientale Italiana, catturati dagli inglesi e dalla resistenza locale e diretti a Port Elizabeth in Sudafrica.
Tra questi Domenico Masullo, 41 anni, originario di Sacco in provincia di Salerno, il paese natale del partigiano Nicola Monaco, Medaglia d’Oro della Resistenza. Domenico, lo zio della mia mamma Felicia, era partito volontario per l’Africa il 10 settembre 1935 con la ferma di un anno.
Era un bel personaggio, energico e versatile, che collaborava con l’esattore del paese, lavorava come fabbro, insegnava ai contadini nelle ore serali e faceva opera di volontariato in chiesa, suonando l’organo. Aveva realizzato una statua in argilla della Madonna degli Angeli, che gode localmente di una particolare venerazione.
Era un autodidatta, che aiutava la povera gente e non tollerava le ingiustizie sociali e le vessazioni dei signorotti.
L’Africa aveva rappresentato, per lui figlio di contadini (suo papà Angelo era emigrato in America), l’affrancamento dal bisogno economico, sfuggendo a ogni forma di sfruttamento. Era partito inizialmente per l’Eritrea, congedato due anni dopo, poi richiamato e assegnato come autista all’autoparco di Dessiè in Etiopia. Fu fatto prigioniero dagli inglesi il primo luglio 1941, qualche mese prima si era arreso con l’onore delle armi il Duca Amedeo d’Aosta, che aveva comandato le forze armate nell’avventura imperialista del Duce. Minicuccio, il diminutivo in dialetto saccatàro del suo nome, diventerà da quel momento una sorta di nume tutelare, quando se ne parlava in famiglia le frasi venivano sussurrate.
La moglie Angela e le figlie Felicia e Assunta non riuscirono a ritirare il denaro che aveva depositato in Etiopia, nonostante l’aiuto offerto dal frate cappuccino Isaias Gaitano, che prestava il proprio apostolato in una chiesa locale. La figlia Felicia morirà prematuramente, non riuscendo a superare la mancanza del papà.
A mantenere un lumino acceso sul Nova Scotia, in aggiunta ad alcune ricerche non approdate alle case editrici più titolate, sono stati Antonio e Fiorenzo Zampieri con l’ideazione del sito www.navenovascotia.it, che ha colmato gli spazi informativi istituzionali mancanti.
Lo hanno fatto in memoria del nonno materno Luigi Gino Caldiron, che era direttore di un’agenzia commerciale di Asmara. Del nonno ne parla un sopravvissuto, Carlo Dominione, in un’intervista alla Domenica del Corriere n. 47 del 25 novembre 1962. “Il 28 novembre 1942, alle ore 7.07 il dottor Gino Caldiron e Luigi Butturini erano con me in una cabina comando del piroscafo britannico Nova Scotia che ci portava, prigionieri, nel Sud Africa, quando entrò il cap. Romney, comandante inglese del campo di Dekamerè che veniva trasferito a Fort Victoria, vicino alle famose cascate…Al tramonto saremo a Durban – disse subito il comandante Romney. Date disposizioni perché lo sbarco avvenga nel massimo ordine. Mi raccomando marciate come vi ha insegnato a fare Mussolini… Non terminò la frase; l’esplosione ci scaraventò a terra”.
Le persone interessate potranno ritrovare il resoconto completo dell’intervista e tante altre informazioni in un dossier di 308 pagine, da leggere o scaricare gratuitamente dal sito o direttamente da qui.
Il mio interessamento ha scoperchiato una pentola, probabilmente chiusa da troppo tempo, con tanti messaggi ricevuti da parte di familiari degli scomparsi o di persone in cerca di notizie. Mi ha scritto Fedele Malagnino, per ricordarmi la figura dello zio paterno Antonio, anch’egli deceduto, che “…era in Africa perché trasferitosi anni prima, dove aveva avviato una fiorente azienda agricola vitivinicola… Ogni anno nel Veneto si tiene una mesta cerimonia religiosa in ricordo dei nostri parenti, fratelli italiani sbranati dagli squali.
Il Nova Scotia non doveva essere silurato, issava bandiera della Croce Rossa. Il mio secondo figlio si chiama Antonio”. Tiziana Frega, da Bolzano, mi ricorda il sacrificio del nonno Mino Noferini, trasferito in Eritrea per lavoro. La tragedia “era ricorrente nelle tristezze di guerra di mio padre, il capitano Nicolò Roberto Dapueto in Africa Orientale per quasi 25 anni – mi scrive la figlia Evelina –. Fra i tanti eccezionali eventi ricordava la Nova Scotia come nave destinata al naufragio fin dal distacco dalla banchina, e ad essere l’ultimo letto per oltre 1000 persone. Oltre ai 651 italiani evacuati dal campo di prigionia, vi erano civili, suore di Sant’Anna, maestre, infermiere. Papà chiese al comando di imbarcarsi come coordinatore e responsabile di questi connazionali, ma il Colonnello Smith di stanza a Massaua glielo proibì”. Enrico Fossati mi parla dell’impegno dell’associazione Zonderwater Block ex Pow, che raccoglie i familiari di coloro che furono imprigionati nell’omonimo campo di prigionia, in Sudafrica, un immenso agglomerato in mattoni rossi e legno che ospitò tra l’aprile 1941 e il gennaio 1947 circa 119.000 soldati italiani catturati dagli inglesi nei fronti africani. Nelle sue parole compare, con evidente partecipazione emotiva, il cimitero e il sacrario di Pietermaritz, che raccolgono i resti irriconoscibili di 35 naufraghi della Nova Scotia, dilaniati dagli squali, sospinti a riva dalle maree. L’adiacente chiesa della Madonna delle Grazie, costruita a mano dai prigionieri di guerra italiani, è uno scrigno prezioso che merita di tornare alla luce come la tragedia del Nova Scotia.
Silvio Masullo
Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2020
Stampato il 16/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/nova-scotia-la-tragedia-dimenticata/