Succede talvolta che, nel grande teatro della storia, sia la periferia a ospitare eventi che inaugurano una nuova fase e sembrano persino anticiparne i caratteri e le dinamiche. È quanto accadde a Bari fra la fine di luglio e gli inizi di settembre del 1943.
Il 28 luglio, a due giorni appena dalla destituzione e dall’arresto di Mussolini, e dall’insediamento del governo Badoglio, un corteo di circa duecento persone, formato per la gran parte da insegnanti e studenti, si avviò in direzione del carcere per festeggiare i detenuti politici (fra cui Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Tommaso Fiore) di cui era stata annunciata la scarcerazione. In via Niccolò dell’Arca, che congiunge i giardini di piazza Umberto al piazzale della stazione ferroviaria, e dove era ubicata la federazione provinciale del partito fascista, i manifestanti trovarono la strada sbarrata da un reparto misto di soldati dell’esercito e di carabinieri. Alla richiesta che venissero rimossi i simboli del regime ancora in mostra sulla parete dell’edificio occupato dal PNF, i militari aprirono proditoriamente il fuoco sul corteo (stando ad alcune testimonianze, spararono anche i fascisti dalle finestre della loro sede), lasciando sul terreno 20 morti (ma il numero non è stato mai determinato con certezza), tra cui Graziano, il figlio più giovane di Tommaso Fiore, e 38 feriti. Veniva così data esecuzione, letterale e spietata, alle disposizioni contenute nella famigerata circolare emanata due giorni prima dal gen. Mario Roatta, nominato capo di Stato maggiore dell’esercito dal governo Badoglio. Nella circolare si ingiungeva alle forze armate di reprimere duramente «qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo», di muovere contro coloro che non rispettassero le prescrizioni dell’autorità militare «in formazione di combattimento», usando le armi (all’occorrenza, addirittura «mortai et artiglieria») a distanza e «senza preavviso di sorta», ossia senza fare ricorso a «sistemi antidiluviani quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni et la persuasione». In esecuzione di tali draconiani ordini, nella stessa giornata del 28 luglio un distaccamento di bersaglieri fece fuoco a Reggio Emilia sugli operai delle Officine Meccaniche Reggiane che reclamavano la fine della guerra, provocando 9 vittime.
Gli eccidi di Bari e di Reggio Emilia furono causati dall’intento di rassicurare i tedeschi ‒ allarmati dalla inattesa defenestrazione di Mussolini ‒ sulla volontà dell’Italia di continuare la guerra al loro fianco; ma, soprattutto, furono conseguenza della grottesca pretesa di dissociare le sorti del regime da quelle della monarchia, erigendo quest’ultima a supremo garante della continuità dello Stato e delle sue istituzioni. A guerra conclusa Fabrizio Canfora, esponente di spicco dell’antifascismo barese, che aveva preso parte al corteo e che era rimasto ferito dai colpi esplosi dalla truppa, scrisse: «La monarchia voleva, rimuovendo Mussolini, scagionarsi dalle proprie responsabilità e, come fosse stato un suo innocente errore, riprendere la strada di venti e più anni prima e rinserrare il Paese nella sua ossatura statale paternalistica e conservatrice». Di fatto, però, le stragi del 28 luglio infersero un ulteriore colpo alla credibilità e all’autorevolezza della corona, e suscitarono nell’opinione pubblica democratica la desolante impressione che il fascismo durasse oltre e senza Mussolini. In quella tragica giornata vanno forse anche rinvenuti i prodromi di un tema ancora vivo nel dibattito storiografico e nel discorso pubblico: ovvero, i limiti della defascistizzazione e l’insufficiente cesura fra il ventennio e l’età repubblicana.
L’eccidio di via dell’Arca non suscitò reazioni apprezzabili nella cittadinanza barese, e ciò per diverse ragioni. Il comportamento brutale dei militari italiani generò un clima di paura, ma diffuse anche confusione e sgomento: il volto del nuovo governo non appariva dissimile da quello mostrato dal regime, e la tanto attesa libertà si rivelava una chimera. Inoltre, le autorità di pubblica sicurezza fecero di tutto per occultare la gravità dell’accaduto: molti manifestanti furono denunciati e arrestati; i feriti furono piantonati negli ospedali, i morti seppelliti frettolosamente, nottetempo; la censura impedì che gli organi d’informazione dessero notizia dei fatti. Ma la passività della popolazione mise anche a nudo le debolezze dell’opposizione antifascista, largamente minoritaria e per di più circoscritta agli ambienti intellettuali più avvertiti della città (com’è attestato dalla composizione stessa del corteo).
Eppure, a distanza di appena settanta giorni una reazione ci fu, ampia e in buona misura spontanea. Nella mattinata del 9 settembre, poche ore dopo la proclamazione dell’armistizio, le truppe della guarnigione tedesca di stanza a Bari tentarono di impadronirsi di alcune installazioni di preminente interesse logistico, dalle poste all’emittente radiofonica al porto, per sabotarle. Dappertutto i tedeschi incontrarono l’imprevista, accanita resistenza di civili e militari; ma gli scontri più furibondi si svolsero nello scalo marittimo, dove portuali, fanti, marinai, finanzieri e genieri, sotto il comando del generale Nicola Bellomo (che fu ferito nel corso dei combattimenti), tennero testa con successo ai reparti del Reich. L’episodio più singolare di quelle ore ebbe luogo presso l’arco che immette dal lungomare alla basilica di san Nicola. Lì un gruppo di adolescenti, acquattati sul tratto della muraglia che sovrasta il passaggio, scagliò alcune bombe a mano ‒ fornite loro dai militari ‒ su un convoglio di mezzi corazzati della divisione “Goering” che si apprestava a entrare nella città vecchia; uno di loro, Michele Romito, centrò con due granate un autoblindo, incendiandolo e sventando il piano dei tedeschi. Gli scontri cessarono allorché il comando germanico, preoccupato dalla rapida avanzata dell’esercito inglese (che infatti entrò in Bari due giorni dopo), negoziò la ritirata dalla città in cambio della cessazione delle ostilità da parte degli italiani.
Quei ragazzi furono spinti a un’azione tanto rischiosa dalla voce secondo cui i soldati della Wermacht avevano in animo di far saltare in aria la basilica del santo patrono della città; in realtà i tedeschi intendevano compiere una manovra di aggiramento per attaccare da un altro lato i militari e i civili italiani asserragliati nel porto. Pure l’equivoco conferisce una qualche plausibilità alle congetture che si possono formulare in merito alle ragioni dell’insorgenza popolare: se la resistenza dei militari è spiegabile come una dimostrazione di lealtà verso la monarchia e il governo legittimo del Paese, quella della popolazione civile fu probabilmente provocata dal rifiuto di una guerra insensata e disastrosa, dalla rivolta contro l’aggressione di un esercito straniero, da un sentimento antitedesco che affondava la sue radici in un passato remoto e che l’alleanza fra Mussolini e Hitler non aveva cancellato, dall’orgogliosa affermazione dell’appartenenza a una comunità e dall’attaccamento ai suoi simboli identitari.
La “difesa del porto” (con questa sineddoche gli eventi del 9 settembre 1943 si sono trasmessi alla memoria storica della città), sebbene non abbia trovato adeguata considerazione nella letteratura storiografica, non soltanto segna il primo atto della Resistenza armata nel Mezzogiorno, ma presenta due tratti che diverranno propri della lotta di Liberazione: la dimensione popolare e il carattere di guerra patriottica. Di ciò sono consapevoli le istituzioni e gli antifascisti di Bari, che infatti celebrano regolarmente le due ricorrenze (28 luglio e 9 settembre) per rendere omaggio a quanti si sacrificarono per riconquistare le libertà democratiche, e per ribadire la fedeltà agli ideali e ai valori della Costituzione repubblicana.
Ferdinando Pappalardo, italianista, presidente Comitato provinciale Anpi Bari e componente Comitato nazionale Anpi
Pubblicato martedì 28 Luglio 2020
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