Francesco Filippi (1981), è storico della mentalità e formatore, co-fondatore dell’associazione Deina, con cui collabora alla programmazione e alla realizzazione di viaggi di memoria e di percorsi formativi in tutta Europa. Co-fondatore e redattore di www.lastoriatutta.org, spazio virtuale nato per aprire nuovi scorci e fronteggiare una storia resa prigioniera e trasformatasi in ancella delle pulsioni del momento, con l’obiettivo di ridefinire l’orizzonte pubblico della storia, ribadendo la natura dinamica e processuale del passato e indagando gli incroci possibili con le altre discipline. Il suo ultimo libro è “Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto” (Bollati Boringhieri 2020); è autore del caso editoriale “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” (Bollati Boringhieri 2019), per oltre un anno ai vertici delle classifiche di vendita.
Il 28 ottobre 2018, come da consolidata consuetudine, centinaia di fascisti di ieri e di oggi invasero Predappio, nel forlivese, per ricordare con una sfilata nera l’anniversario della cosiddetta “marcia su Roma”. C’era come al solito di tutto: figuranti in fez e camicia nera, anziani reduci di battaglie perdute, ragazzini con lo zaino e il panino da gita fuori porta, giovani palestrati e tatuati in maglietta aderente, ovviamente nera.
Una sovrabbondanza di occhiali da sole e teste rasate a reclamare ordine violando le leggi dello Stato, a inneggiare ai fasti di un impero di cartone e alla favola di una gloria irreale; qualche accenno di passo dell’oca e tanti, tanti saluti romani in omaggio alle spoglie del fondatore del fascismo, ancora conservate nella cappella di famiglia nell’anniversario del giorno in cui, nel 1922, le milizie fasciste – ma non Mussolini, che attendeva a Milano, più vicino al confine, l’esito del suo azzardo – provarono a invadere la capitale per conquistare il potere.
Tra questi, quel giorno del 2018, c’è Selene Ticchi, all’epoca militante di Forza Nuova, che passa sorridente tra gli altri camerati sfoggiando una maglietta con impresso un messaggio piuttosto chiaro: l’immagine del cancello principale del campo di concentramento di Auschwitz II, Birkenau – una fabbrica della morte in cui vennero annientate circa un milione e centomila persone – sormontata da una scritta in caratteri Disney che recita “Auschwitzland”. Un campo di sterminio paragonato a un parco divertimenti. Quando dei giornalisti la avvicinano risponde con involontaria ironia “si tratta di black humour”. Senso dell’umorismo nero, appunto; da fascisti.
Tolti i giornalisti, nessuno dei presenti alla manifestazione di Predappio pare abbia da ridire su quella maglietta, ma dopo che il volto sorridente della Ticchi finisce sui principali mezzi d’informazione internazionali il suo partito, Forza Nuova, si sbriga a cacciarla, diffidandola dal continuare a parlare a nome degli ormai ex camerati. Un anno dopo Selene Ticchi viene condannata per violazione della legge Mancino.
Il risvolto più curioso della vicenda è sicuramente il passaggio in cui, una volta posta sotto i riflettori, la dirigenza di Forza Nuova si sia sentita in obbligo di prendere le distanze dalla Ticchi e dal suo messaggio: per i capi del partito di estrema destra non si banalizzano i campi di sterminio.
Eppure la Ticchi con quella maglietta non fa altro che sottolineare di aver compreso la realtà che si andava celebrando e che si continua a celebrare il 28 ottobre di ogni anno a Predappio: l’inizio di un percorso antidemocratico di violenza e sopraffazione in cui le camere a gas non sono un accidente, un errore o un’iperbole, ma la naturale conclusione. La attualmente ex militante e quelli che con lei ogni anno si avviano a commemorare l’avvenimento più luttuoso della storia nazionale probabilmente ne conoscono bene il valore simbolico, gravido di conseguenze.
Il 28 ottobre 1922, scavalcando con la violenza l’iter parlamentare e approfittando della benevola immobilità del sovrano, il fascismo si impossessa del potere che gli elettori italiani non gli hanno concesso attraverso le elezioni, elevando al rango di presidente del Consiglio una persona che da quel giorno in poi lavora senza posa per demolire sistematicamente l’insieme delle garanzie statutarie e degli equilibri tra i poteri dello Stato. Un lavoro che passa attraverso la violenza elevata a forma di governo: il disarmo e poi l’annientamento dell’opposizione parlamentare, la persecuzione di ogni forma di dissenso, prima con spedizioni punitive e omicidi di strada e poi, una volta conquistati, servendosi degli stessi apparati dello Stato. Una lunga persecuzione che non si ferma una volta instaurata la dittatura ma va avanti con caparbietà per tutto il Ventennio. Le violenze, le delazioni, il confino, le condanne e gli omicidi politici dentro e fuori d’Italia proseguono senza soluzione di continuità fino al disastro finale della guerra fascista nel ’43 e perfino dopo, nella repubblica mussoliniana fantoccio dei nazisti.
Una violenza sempre presente perché necessaria per tenere sotto controllo una parte del Paese che non ha ceduto alla retorica del consenso e non si è piegata alla pretesa totalitaria del fascismo italiano; certo dopo i primi anni una parte piccola, troppo piccola per troppo tempo, eppure intollerabile per la teoria del dominio fascista e per questo destinata ad essere annientata.
Dal 28 ottobre 1922 in poi è questo il progetto in atto: fare in modo che il fascismo conquisti il potere e modelli la società italiana così da mantenere questo potere senza limiti di tempo e di efferatezza. L’unico modo per farlo è quello di tentare di applicare un dominio universale sui propri sudditi: permeare, come lo definisce Giovanni Amendola già nel 1923, la vita degli italiani in modo totalitario, per fascistizzarli; purgare dal corpo della nazione chi non si può o non si vuole adeguare con l’allontanamento e l’annientamento: togliere di mezzo i non fascistizzati, ricorda lo stesso Mussolini, “è igiene sociale, profilassi nazionale. Si levano questi individui dalla circolazione come un medico toglie dalla circolazione un infetto [B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 26 maggio 1927].
Questa visione igienica della società è la base di tutta la politica fascista nei confronti dell’opposizione ed è opposizione tutto ciò che non può essere assimilato e omogeneizzato. Per la propaganda fascista ben presto le parole “diverso” e “nemico” diventano praticamente sinonimi.
Un annientamento che verrà portato avanti dai fascisti italiani con le deportazioni e i campi di concentramento in Libia (1928) ben prima della costruzione del primo lager tedesco a Dachau (1933); che vedrà gli italiani fare “igiene” coi gas in Etiopia (1936) ben prima dell’apertura dei cancelli di Auschwitz (1940); che sperimenterà i bombardamenti terroristici sui civili in Spagna (1936-1939) ben prima dei raid nazisti su Londra (1940).
Il fascismo italiano, primo caso di regime totalitario sul continente e per lungo tempo esempio ammirato e copiato dai fascisti di tutto il mondo, porta avanti con sistematicità l’idea che in una società fascistizzata non vi sia posto per nessun tipo di devianza dalla linea e che ogni forma di opposizione o anche solo di diversità debba essere perseguita con ogni mezzo. E dove gli è possibile, cioè in casa propria, nelle colonie, nei Balcani, in Unione Sovietica e infine con maggior violenza dettata dalla fretta nel nord Italia occupato dai nazisti, il fascismo italiano applica alla lettera questo suo comandamento cardine: nessuno ha il diritto di esistere fuori dai confini dettati dal regime.
Per questo sembra paradossale, sia detto senza ironia, l’espulsione da un partito che celebra la marcia su Roma di una militante che inneggia sorridente alle camere a gas: con una linearità forse ingenua la camerata non ha fatto altro che seguire la linea logica di ciò che la marcia su Roma scatenò: l’inizio del tentativo di purificazione totalitaria della società con ogni mezzo. Principio che suggerisce anche la costruzione dei campi di sterminio del centro Europa. Campi di sterminio che il fascismo italiano si impegna ad alimentare fino a quando gli è possibile.
Chi oggi celebra, con camicia nera, saluti romani e paccottiglia varia, la presa del potere del fascismo italiano e l’ascesa al potere del suo fondatore e duce, Benito Mussolini, è bene che sappia che è anche questo che celebra: l’inizio della lunga discesa dell’umanità del 900 verso l’abominio dei campi di concentramento. Una discesa che il fascismo italiano ispira, accompagna e fomenta fino alle sue estreme conseguenze.
Per questo ciò che davvero stona, oggi, non è nemmeno l’obbrobrio di quella maglietta che violenta la memoria delle vittime del totalitarismo fascista, ma il fatto che un Paese democratico, plurale e quindi antifascista permetta ancora che si celebri come un fatto positivo la data di inizio, nel continente, del processo di sterminio dell’uomo sull’uomo.
Francesco Filippi, storico
Pubblicato mercoledì 28 Ottobre 2020
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