
Il Proceso de reorganización nacional, come si autodenomina il governo dittatoriale, e il ricorso al terrorismo di Stato che lo caratterizza, erano iniziati ben prima del colpo di Stato militare del 24 marzo 1976 condotto dal generale Jorge Rafael Videla. Infatti, con l’improvvisa morte di Juán Domingo Perón, nel luglio 1974, e l’assunzione del potere da parte della moglie e vicepresidente María Estela Martínez (Isabelita), sempre più condizionata dal ministro José López Rega che capeggia la Triple A (AAA – Alianza anticomunista argentina) e dai militari, si era accelerato il cammino verso l’intervento delle Forze armate e l’instaurazione della dittatura. Destituita la Perón, la Giunta militare composta dal generale Jorge Rafael Videla (Esercito), l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera (Marina) e il brigadiere Orlando Ramón Agosti (Aeronautica), all’indomani della presa del potere, abolisce lo Stato di diritto e si autoafferma come la massima autorità dello Stato, attribuendosi la capacità di stabilire le direttive del governo, designare e sostituire il presidente e tutti gli altri funzionari. La frammentazione politica ed economica nazionale viene compensata, in una certa misura, dall’unità disciplinare dell’apparato militare e dalla sua imposizione sulla società. In un contesto sociale in cui i partiti sono incapaci di progettare una proposta egemonica, le Forze armate assumono il ruolo di nucleo politico-istituzionale proprio dello Stato, della sua conservazione e della sua riproduzione. D’altronde nel 1976 in Argentina non vi è un partito politico che non avesse appoggiato o preso parte diretta in almeno uno dei colpi di Stato militari avvenuti negli anni precedenti.

La repressione attuata dalla dittatura civico-militare (1976-1983) non conosce precedenti per dimensioni e metodologia nella storia argentina. Il ricorso sistematico al sequestro, alla tortura, alla sparizione e all’omicidio ha segnato un prima e un dopo nello sviluppo storico nazionale. Tuttavia, questo dispiegamento repressivo attuato dalla giunta militare non è avvenuto dall’oggi al domani, ma è stato il punto culminante di un processo di accumulazione repressiva che ha attraversato i due decenni precedenti.

Dal 1955 in poi, le dinamiche del conflitto politico interno e l’impatto locale della Guerra fredda avevano favorito l’esercizio della violenza di Stato che, con le Forze armate e le Forze di sicurezza come principali esecutori, avevano incrociato i governi dittatoriali. In un contesto internazionale segnato dall’acuirsi della contesa per l’egemonia mondiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dal sorgere di movimenti di liberazione nazionale e di esperienze di guerriglia nel Terzo Mondo, questo modus operandi è stato il frutto di un convinto (e strumentale) anticomunismo e di una lettura dei conflitti politici in chiave “controinsurrezionale”. In pratica, questa interpretazione della realtà sociale si è espressa in un atteggiamento statuale incline alla crescente persecuzione politica e dal contenuto repressivo verso le diverse forme di mobilitazione emerse in Argentina all’epoca, identificate con il peronismo e con varie correnti della sinistra. Con il suo epicentro negli Anni 60 e 70, la lotta al “nemico interno” ha avuto come protagonista non solo le Forze armate, ma anche diverse amministrazioni civili concentrate con direttive chiare e obiettivi concreti per dare compattezza allo sforzo della “lotta alla sovversione”.

La Giunta militare definisce formalmente il concetto di “sovversione”: “un’azione clandestina o aperta, insidiosa o violenta che mira ad alterare o distruggere i criteri morali e il modo di vivere di un popolo, con lo scopo di impadronirsi del potere e di imporne un nuovo modo basato su una diversa scala di valori”. In questo modo vengono inclusi un’ampia gamma di forme di contestazione politica in vari campi, senza appartenere a una specifica ideologia, ampliando in questo modo notevolmente il campo della minaccia interna. Il termine “sovversivo” comprende tutti coloro che si organizzano, partecipano a un sindacato, svolgono attività politica, esprimono la loro opinione, coltivano l’arte, e così via. E durante gli anni della dittatura viene utilizzato questo termine per riferirsi a tutte quelle persone che si oppongono al “terrorismo di stato”.

A partire dal 24 marzo, la politica di desapareciones della Triple A e il “campo di concentramento-sterminio” smettono di essere una delle forme di repressione per diventare la modalità repressiva ufficiale del potere. Le carceri non sono più il fulcro dell’attività repressiva, che invece inizia a ruotare attorno al sistema di desapareción, ideato, allestito e gestito all’interno dalle Forze armate. Le statistiche sulla violenza nell’ultimo trimestre di quel 1976 parlano chiaro: un omicidio politico ogni 5 ore, una bomba ogni 3 e 15 sequestri al giorno, oltre ai 6.000 prigionieri politici.

Le cifre ufficiali del rapporto Nunca más della Commissione nazionale sulle sparizioni di persone presieduta da Ernesto Sábato calcolano in circa 30.000 i cittadini scomparsi, dissidenti o sospettati tali.

Un genocidio politico che spazza via un’intera generazione di giovani. Dopo quarant’anni dal ritorno della democrazia risuona come monito la riflessione della politologa Pilar Calveiro, sopravvissuta ai campi di concentramento argentini: «la repressione consiste in azioni radicate nella quotidianità della società: è questa che la rende possibile».
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato venerdì 24 Marzo 2023
Stampato il 01/06/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/argentina-24-marzo-1976-anatomia-di-un-golpe/