Quarant’anni fa, il 23 novembre 1980, alle 19,34, la terra tremò fortissimo in Campania e Basilicata, epicentro in Irpinia. Quasi 3000 i morti e 300mila gli sfollati. Wladimiro Settimelli, allora cronista a l’Unità, subito inviato sui luoghi del disastro, fu tra quanti scavarono a mani nude tra le macerie in attesa dei soccorsi.
Sotto lo schermo televisivo era comparsa la solita striscia informativa che annunciava una scossa di terremoto in Irpinia e a Napoli, ma “senza conseguenze”. Insomma, pochi danni, ma niente morti e feriti. Una cosa da poco, questa era l’impressione. Stavo guardando la Tv con tutta la famiglia. Fuori era un freddo cane e, dopo un po’, eravamo andati tutti a letto.
Verso le due o le tre, ero stato chiamato al telefono dal giornale e dalla segreteria mi avevano avvertito che il compagno Sergi sarebbe passato a prendermi, all’imbocco dell’autostrada, con la sua auto. Dovevamo raggiungere l’Irpinia e, prima di tutto, Potenza e i paesi intorno. C’era stato un terremoto terribile e da laggiù non arrivavano notizie perché le linee telefoniche erano interrotte. Doveva trattarsi di una tragedia e non c’era l’ombra di una notizia certa. Solo voci di crolli con morti e feriti, ma vigili del fuoco, carabinieri e prefettura non erano in grado di fornire particolari.
Di corsa avevo preparato una borsa, avevo afferrato il mio vecchio eskimo sessantottino, caldo e foderato di pelo e mi ero infilato un paio di vecchi stivali. Poi avevo acchiappato al volo la mia “Lettera 22”. Ero uscito nel buio e con la macchina avevo raggiunto il casello di San Cesareo della Roma-Napoli. Dopo pochi minuti era arrivato Sergio Sergi con la sua auto e ci eravamo avviati a tutta velocità. L’auto di Sergio aveva il riscaldamento rotto e subito ero stato assalito dal gelo. Poi avevamo cominciato a chiacchierare e a consultarci. Dove dovevamo andare? Anche lui non lo sapeva bene. Avevamo deciso per Potenza. Fuori era ancora notte, ma già cominciava a uscire qualche sprazzo di luce.
C’erano volute un paio d’ore prima che arrivassimo a imboccare l’autostrada per Potenza. Continuavamo a parlare per tenerci svegli. All’improvviso, a lato della strada, avevamo visto un capannone industriale che pareva crollato. Forse stavano facendo solo dei lavori. Poco dopo, ancora un altro capannone ridotto ad una montagna di macerie. Continuando a marciare a tutto gas, io e il mio compagno di lavoro ci eravamo scambiati qualche parola: «Ma allora è grave davvero. Guarda laggiù, una casa mezza sfasciata». Ancora qualche chilometro e poi Sergi aveva dovuto rallentare e fermarsi di colpo: in mezzo alla strada c’erano dei massi venuti giù da una rupe. Avevamo aggirato gli ostacoli con qualche difficoltà. Dopo qualche chilometro, altri massi sulla carreggiata. Questa volta, ci eravamo fermati ed eravamo scesi dall’auto. Un paio di quei blocchi di pietra erano enormi, coperti di erbacce e fango.
Cominciava ad albeggiare e nel silenzio, forse rimandati in alto dall’eco della montagna, abbiamo sentito delle voci in lontananza. Non si capiva bene da dove venivano e che cosa urlassero, ma facevano accapponare la pelle. A sinistra, giù nella valle, la nebbia spessa e umidiccia avvolgeva ogni cosa. Le voci venivano da sotto quella massa biancastra. Non capivamo. Poi abbiamo sentito con chiarezza che qualcuno chiedeva aiuto. E ancora altre voci indistinte, pianti e grida. Dopo pochi metri un cartello stradale indicava l’uscita per un paese che si chiamava Balvano. Un posto per me totalmente sconosciuto, ma che non dimenticherò mai più.
Tentammo ancora di scendere verso la valle con l’auto, ma alla fine ci avviammo a piedi e, piano piano, arrivammo a quel paese per noi fuori dal mondo.
Camminavamo fra grandi macigni che bloccavano la strada tutta in discesa.
Ed eccolo Balvano, o meglio quel che restava di quell’angolo del Sud. Un asino con una orrenda ferita sulla schiena ci tagliò la strada. Ora stavamo entrando in quello che un tempo doveva essere il corso principale del paese. A destra e a sinistra solo montagne di macerie e in mezzo uomini e donne che scavavano o stavano sdraiati in mezzo alla strada tutti bianchi di calcinacci e polvere, con i vestiti strappati e le mani insanguinate.
Sergio camminava accanto a me in silenzio e insieme scavalcavamo travi, legni, tavoli, tubi che perdevano acqua. Non ci dicevamo più una parola e non sapevamo che fare, se non camminare e camminare in mezzo a tutto quel caos. Ci eravamo fermati per aiutare un uomo ad alzarsi in piedi e un altro a scendere da un mucchio di calcinacci. Pareva tutto un incubo, una cosa assurda. Io almeno, non avevo mai visto cose del genere in tutta la mia vita di cronista. Da alcune stalle, nelle stradine laterali, mucche, asini e cavalli, parevano chiedere aiuto anche loro: le mucche non erano state munte e gli altri animali non avevano avuto da mangiare e muggivano, ragliavano e si agitavano come per chiamare i padroni. La tragedia era immensa, dolorosa, terribile. Sembrava che una enorme martellata avesse colpito in pieno il piccolo paese disperso in mezzo alla valle.
Poi eravamo arrivati a un largo, davanti ad una chiesa tutta crollata. Solo il portone d’ingresso era inspiegabilmente ancora in piedi. Là davanti, sbucati da chissà dove, c’erano due carabinieri coperti di polvere e con le divise ormai bianche e due soldati che parevano ragazzini. A mani nude spostavano panche, macigni, arredi sacri. Con gli occhi sbarrati ci guardavano e uno di loro disse con voce stanchissima: «Qui, venite qui, c’è ancora gente viva sotto le macerie. Aiutateci, dateci una mano». Io e Sergio avevamo subito cominciato a spostare dei blocchi. Tutto pareva assurdo. Poi, uno dei carabinieri era riuscito a tirare fuori da una montagna di calcinacci il corpo di un bambino. Il braccio del piccolo dondolava lentamente.
Tutti i morti riportati alla luce da sotto le macerie, sono terribili: hanno sempre la bocca piena di polvere bianca e anche gli occhi sono spalancati sul nulla e bianchi di calce.
Sergi continuava a scavare e parlava con se stesso. Diceva soltanto: «Minchia papà, minchia papà, minchia papà» e continuava a spostare macerie. Io tiravo via delle tavole, ma tremavo tutto dalla paura e dall’angoscia. Era come un brivido che cacciava ogni razionalità e sensatezza.
Finalmente era arrivata altra gente e tutti avevano cominciato a scavare e recuperare corpi. Io pensavo ad una cosa senza senso: ma Dio mio, quanto pesano questi morti. Su una specie di terrazza ne erano ormai stati sistemati una decina. Mi colpiva il corpo di una povera vecchia vestita di nero che aveva la gonna sollevata e si vedevano le calze spesse di lana, fermate con pezzi di una gomma d’auto. A fianco, un bambino magrissimo, aveva ai piedi, in pieno inverno, i sandali di plastica che la gente mette al mare per non farsi male sugli scogli.
Ormai eravamo in parecchi in giro per il paese a scavare, aiutare i feriti e i sopravvissuti. Era arrivata la sera e qualcuno, in uno spiazzo oltre le case, aveva acceso un gran fuoco. Piano, piano, recuperando sedie e sgabelli, panche e tavole, ci eravamo ritrovati tutti intorno alla grande fiamma per riscaldarci un po’ perché il freddo era terribile. Ogni tanto la terra tremava, ma non ci faceva più paura perché eravamo troppo stanchi per qualsiasi cosa. Non ricordo più se io e Sergi riuscimmo ad appisolarci per un po’ di tempo, seduti l’uno accanto all’altro.
Quando arrivò il giorno vidi in alto, sopra al paese, il vecchio castello. Più sotto, una casa come segata in due: una parte crollata e l’altra rimasta in piedi. Proprio sul bordo della divisione si vedeva un tavolo apparecchiato con piatti bicchieri e bottiglie. La tovaglia si muoveva appena, scossa dal vento. Intanto erano arrivati i primi soccorsi e qualcuno aveva montato una grande tenda sotto la quale un medico e un paio di infermieri medicavano i feriti.
Ho scritto il mio primo servizio sotto quella tenda.
Ora bisognava dettare il “pezzo” a Roma. Benedetti i cellulari e i computer portatili che ancora, nel 1980, non esistevano, ma sarebbero stati la salvezza per noi. In una delle piazze c’era la cabina del telefono pubblico che era crollata, ma l’apparecchio funzionava. Ho messo un gettone ed ho chiamato il giornale. Poi, non so per quale misterioso contatto, quel telefono pubblico è rimasto collegato con il giornale ininterrottamente. Un primo bilancio della tragedia di Balvano? Non era possibile. Una cosa era chiara: quasi tutti i morti erano proprio sotto le macerie della chiesa. Moltissimi bambini e un po’ di anziani.
Erano arrivati altri soldati che, tra una scossa e l’altra, avevano dato inizio alle sepolture. Ancora 48 ore dopo la grande scossa, in una porcilaia, avevamo trovato, sola e terrorizzata, una vecchietta che si era rifugiata in un angolo con una bottiglia di vino e un pezzo di pane in mano. Era ferita ma non se ne era accorta.
Ci guardava con due grandi occhi puntati sull’infinito. Proprio come se non ci vedesse. L’avevamo portata vicino al fuoco e lei si era seduta. Subito, sotto la sua sedia, si era formata una pozza di sangue.
Ora i soccorsi erano arrivati e c’era un gran via vai di soldati, camion militari e ambulanze.
***
Erano ormai passati molti giorni dalla prima scossa e i soldati ci avevano avvertito che sarebbe arrivato, in giornata, Papa Giovanni Paolo II. Tutti quei morti in chiesa lo avevano turbato e scosso. Era stato allestito rapidamente un campo di atterraggio per l’elicottero. Ed eccolo Karol Wojtyla, nel pomeriggio, con la lunga veste bianca e l’aria tesa ed emozionata. Forse non si aspettava tutta quella distruzione. In uno spiazzo, avevano sistemato un tavolino legato con un filo di ferro ad una rete. Il Papa doveva salire su quel tavolino perché tutti lo potessero vedere. Io mi ero sistemato proprio a fianco di quell’improvvisato rialzo. Non c’era un microfono o qualcosa perché tutti potessero sentire la voce del Santo Padre.
Mi era subito venuto a fianco un compagno del posto che avevo conosciuto due giorni prima e mi aveva detto: «Sono quel compagno dell’emigrazione. Ti ricordi di me?». Certo che lo ricordavo. Allora lui aveva aggiunto: «Ho trovato questo amplificatore e un microfono. L’ho attaccato alla corrente, ma non sono in grado di farlo funzionare. Vedi un po’ tu». In quel momento, il Papa stava salendo sul tavolino traballante e, serio serio, mi aveva chiesto: «Pensa che reggerà? Mi sembra molto insicuro». Avevo risposto: «È sicuro, l’hanno fermato bene, può salirci». Intanto armeggiavo con l’amplificatore e il microfono. Non lo facevo più dai tempi delle feste dell’Unità. Intorno si era radunata una gran folla, gente stravolta: molti piangevano, altri urlavano in dialetto chiedendo aiuto, altri ancora pregavano e alzavano le mani verso il cielo.
Tantissimi si erano buttati in ginocchio. In prima fila, piangeva anche il prete della chiesa crollata. Io, ateo e giornalista comunista, alzai il microfono e continuai a reggerlo mentre il Papa cominciava a parlare. Solo per un attimo pensai che se a tutti quei superstiti del terremoto, dava un po’ di pace e faceva bene ascoltare la voce del Papa, era giusto che io reggessi il microfono. Intorno, il dolore della gente continuava ad affiorare in mille modi diversi. Vidi che alcuni fotoreporter scattavano le loro foto, riprendendo Wojtyla e quel signore (ero io) che reggeva il microfono. La sera chiamai il giornale, a Roma, e parlai con Enrico Pasquini, il redattore capo dei grafici e carissimo amico. Lo pregai di fare attenzione a non pubblicare qualche fotografia dove mi si vedesse con quel microfono in mano, mentre aiutavo il Papa. Per pudore, solo per pudore, pensai…
Dimenticavo: il prete della chiesa crollata, quella dove erano morte decine di persone, e che, in prima fila, piangeva alle parole del Pontefice, qualche tempo dopo fu arrestato. In un magazzino aveva nascosto buona parte degli aiuti che erano arrivati dall’Italia intera, per i poveri superstiti della tragedia di Balvano.
Tratto da un libro inedito di Wladimiro Settimelli: “Comunisti miei amatissimi – Storie, battaglie, ricordi (Dagli appunti di un ex cronista dell’Unità)”. Con un ringraziamento alla moglie e alla figlia di Settimelli
Pubblicato lunedì 23 Novembre 2020
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