Dal 25 luglio 1943, giorno della deposizione del duce Benito Mussolini, all’8 settembre 1943, giorno della comunicazione pubblica dell’avvenuto armistizio con gli Alleati, trascorsero in totale 45 giorni, durante i quali il nuovo governo italiano venne guidato dal generale Pietro Badoglio.
In quei giorni, le organizzazioni internazionali ebraiche, in vista dell’imminente invasione nazista del nord e centro Italia, fecero pressioni sul governo Badoglio affinché facesse trasferire nel sud Italia tutti gli ebrei che si trovavano nella penisola. Lì sarebbero stati al sicuro. Il governo tuttavia non approvò, anche se ben consapevole del pericolo, e mentre abbandonava gli ebrei in balia dei nazisti, organizzò il trasferimento al sud per se stesso e per la casa reale. Inoltre, nonostante le insistenze delle Unione delle Comunità Israelitiche, il governo Badoglio si rifiutò anche di distruggere le liste del censimento degli ebrei italiani del 1938 aggiornate nel 1942.
Tale scelta venne giustamente definita da Giacomo Debenedetti, nel suo “16 ottobre 1943”, come «criminosa responsabilità». Infatti, proprio grazie a quegli elenchi, i fascisti della Repubblica Sociale Italiana e i nazisti, riuscirono a trovare, catturare e deportare gli ebrei con molta più facilità.
Dopo l’8 settembre la Germania nazista invase il nord e il centro Italia, mentre Benito Mussolini il 15 settembre ricostituì il Partito fascista repubblicano (Pfr), e il 23 dello stesso mese, dalla Germania, annunciò la composizione del governo del nuovo Stato fascista repubblicano, che il 1° dicembre 1943 assumerà il nome di Repubblica Sociale Italiana (Rsi), i cui esponenti e aderenti riceveranno il nomignolo di “repubblichini”. Il 14 novembre 1943, a Verona si svolgerà la prima assemblea nel nuovo partito ricostituito (Pfr), che approverà il “manifesto programmatico”, in cui al punto 7 era stabilito che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».
Il 30 novembre, Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana, dispose con l’ordinanza di polizia n. 5, che tutti gli ebrei appartenenti a qualsiasi nazionalità fossero arrestati e internati «in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati». Prima di questa ordinanza avvennero varie razzie di ebrei in tutta l’Italia occupata, compiute dai nazisti con l’aiuto delle camice nere e dei poliziotti italiani, come a esempio quella del 16 ottobre nel ghetto di Roma.
Subito dopo la suddetta ordinanza di polizia, Filippo Cordova, questore di Venezia, in attesa di precise istruzioni ordinò alla polizia e ai carabinieri, di «diffidare» tutti gli ebrei «facendo loro obbligo di non allontanarsi dalla residenza et di presentarsi ogni giorno all’Ufficio di PS o at Comando Carabinieri», mentre «gli ebrei più influenti et più pericolosi dovranno essere piantonati nelle loro abitazioni». Il 1° dicembre 1943 il Corriere della Sera, così come altri giornali, con il direttore Ermando Amicucci, contribuì in modo vigoroso alla campagna antiebraica tessendo le lodi dell’ordinanza di polizia n. 5. Qualche giorno dopo, il 5 dicembre 1943 alle ore 14, il questore di Venezia, ordinò l’immediato fermo di elementi appartenenti razza ebraica.
Come in molte altre razzie, venne deciso di procedere durante la notte, sia per cogliere di sorpresa le vittime sia per evitare una possibile disapprovazione dell’azione da parte della popolazione. Filippo Cordova utilizzò 1.500 uomini, agenti di pubblica sicurezza, carabinieri e miliziani fascisti, tutti appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana. Questi vennero divisi in 50 squadre per effettuare una vasta retata a Venezia, a Chioggia, al Lido e nelle isole della Laguna. Al fine di far rimanere tutta la popolazione nelle proprie case e per evitare possibili testimoni, venne fatto suonare l’allarme aereo dalle sirene del porto e degli stabilimenti industriali di Marghera. Intorno alla mezzanotte un gruppo di fascisti, accompagnati dai carabinieri e da agenti di pubblica sicurezza, fece saltare la serratura della porta d’ingresso della Casa di riposo israelitica situata in Ghetto Novo.
Lì vennero catturati tutti i ricoverati, a eccezione di nove donne perché troppo difficili da trasportare. Dopo aver portato gli arrestati al Collegio Foscarini, i fascisti tornarono sul luogo dell’arresto depredando le dispense e le bottiglie di vino. Nel corso della notte vennero svolti altri arresti in maniera brutale. L’operazione si concluse dopo l’alba. Gli arrestati vennero trasportati: nel caso degli uomini nelle Carceri di S. Maria Maggiore, se donne alla Casa Penale della Giudecca, invece i minorenni al Centro minorenni, mentre alcuni arrestati vennero trasportati al Collegio Foscarini. La sera seguente, il prefetto di Venezia comunicò al ministero dell’Interno, il successo dell’operazione: «Notte sul sei corrente in Venezia et provincia procedutosi in fermo numero 163 ebrei puri di cui 114 donne et 49 uomini». Nei giorni successivi gli agenti di polizia si recarono agli indirizzi delle case degli ebrei, per sigillarle o destinarle ad altri italiani.
Il 10 dicembre, Tullio Tamburini, capo del Corpo di Polizia della Repubblica Sociale Italiana, comunicò ai capi delle Province che gli ebrei italiani “malati gravi” e ultrasettantenni e “per ora”, gli ebrei italiani aventi un genitore o il coniuge “ariano”, dovevano essere esentati dall’arresto. La comunicazione portò al rilascio di più di 60 ebrei arrestati a Venezia e dintorni.
La settimana successiva alla razzia, tutti gli arrestati furono trasferiti alla Casa di riposo israelitica nel Ghetto Novo che, sorvegliata da agenti di pubblica sicurezza, avrebbe svolto la funzione di campo di transito. Il 28 dicembre, Filippo Cordova annunciò ai commissariati e comando dei carabinieri, che gli ebrei arrestati sarebbero stati trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli di Carpi. Il 31 dicembre, tramite le ferrovie, gli ebrei furono trasferiti nel suddetto campo. Questi vennero raggiunti, il 18 gennaio 1944, da un gruppo di piccolissimi minori, che prima erano impossibilitati a essere trasferiti. I genitori poterono quindi ricongiungersi con i figli, anche se per condividere un triste destino. Il 22 febbraio 1944, da Fossoli partì un convoglio con tutti gli ebrei veneziani, destinazione Auschwitz-Birkenau, da dove solo in 15 fecero ritorno. In quel convoglio, stipati in dodici vagoni-merci, c’erano 649 prigionieri, tra loro anche Primo Levi.
È sbagliato parlare solo di numeri perché dietro a ogni vita c’erano sogni e speranze, ma tanto per avere un’idea possiamo ricordare che in merito alle deportazioni, dall’Italia su 43mila ebrei ne vennero catturati 7.900-8.000 di cui circa 826 fecero ritorno, mentre per quanto riguarda gli arresti: 2.489 vennero compiuti da tedeschi, 312 da italiani e tedeschi e ben 1.898 da italiani, senza considerare tutte le volte che la polizia italiana ha dato supporto ai tedeschi. Questi ultimi numeri sommati chiaramente non raggiungono la cifra di 7.900-8.000, perché si riferiscono a quegli arresti di cui si ha la sicurezza precisa di chi sia la responsabilità.
È bene riproporre i fatti per tutti quelli che ancora dicono che gli italiani, fascisti, non ebbero un ruolo determinante nelle deportazioni. Questo 80° anniversario deve invece ricordarci che l’Italia non ha ancora fatto i conti col fascismo.
Andrea Vitello, storico e scrittore, diplomato allo Yad Vashem. Autore tra l’altro di “Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca”, pubblicato da Le Lettere con la prefazione di Moni Ovadia
Pubblicato mercoledì 6 Dicembre 2023
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