Il professor Piero Ignazi (http://www.lettera43.it/upload/editor/Imagoeconomica_678800.jpg)
Il professor Piero Ignazi

Piero Ignazi, politologo e docente all’Università di Bologna al Dipartimento di Scienze politiche e sociali. E’ stato uno dei relatori al seminario promosso dall’ANPI nazionale e dall’Istituto Cervi il 9 gennaio a Gattatico sul tema “Per uno Stato pienamente antifascista”.

Professor Ignazi, lei ha insistito molto sulla necessità di un patriottismo costituzionale. Un enzima fondamentale ma poco praticato in Italia, a partire dalla storia della sinistra italiana che, lei sostiene, non ha utilizzato a pieno il “potenziale civico” della Carta Costituzionale nella guida delle masse.

E’ indubbio: nei primi due decenni post bellici la cultura della sinistra comunista italiana, principalmente, era portata a considerare le istituzioni rappresentative classiche come strutture “borghesi”, e prefigurava, almeno nella prospettiva dell’immaginario popolare, un cambio di regime nella struttura dello stato socialista. Ne risulta, fatalmente, la mancanza di una adesione piena e spassionata all’ordinamento costituzionale vigente. Il superamento dell’attuale ordinamento, in senso radicale, dello Stato italiano è indubitabile nell’agenda politica degli anni 50 e 60, un fatto storico assodato. Naturalmente poi la prospettiva è totalmente cambiata.  Ma pur avendo contribuito fattivamente a definirle, la posizione del Pci in quegli anni cruciali proprio per la fondazione del patriottismo costituzionale, è sostanzialmente antitetica alle istituzioni liberal–democratiche espresse dalla Costituzione. La Carta Fondamentale, in sintesi, non è un approdo, ma una tappa sulla via “italiana al socialismo”.

Poi però, lo diceva lei stesso, qualcosa è cambiato nella società, nella politica, nella coscienza della sinistra italiana. Analizziamo questo passaggio.

Il cambiamento è avvenuto a partire dagli anni 70, attraversando tutto quel decennio di forti trasformazioni e tensioni, ma ancora più nettamente negli anni 80. Quando cioè la prospettiva e il riferimento ad una società socialista che aveva come modello l’Unione Sovietica e i Paesi dell’Europa Orientale è venuta totalmente meno. Un riferimento che ha mantenuto una forte presa su intere generazioni di cittadini, di attivisti, di quadri intermedi, in questo caso del Pci. C’è stata di certo una specifica responsabilità da parte della sinistra italiana sul ritardo nell’aderire al patriottismo costituzionale. Non si tratta di un giudizio morale o politico, ma piuttosto di una constatazione storica, perché tale è la storia dei movimenti e della politica italiana. Ma il punto centrale rimane un altro.

E sarebbe?

Che in Italia è mancato, e fin da subito, un vero antifascismo. L’assenza di una strategia e di un’azione istituzionale antifascista negli anni cinquanta, gli anni decisivi. Gli studi sono tutti concordi: in quel decennio, i vertici e la struttura dello Stato, della magistratura, degli organi di polizia, della tecnocrazia sono composti da personale che non ha semplicemente attraversato il fascismo con una blanda adesione, per quieto vivere, come tanti italiani, ma che invece ha attivamente partecipato da posizioni convinte al regime. Qui non è in gioco soltanto la già assodata continuità dello Stato fascista, ma qualcosa di più nella struttura politica del Paese. Il Movimento Sociale rivendicava negli anni 50 di avere 13 rettori che erano stati vicini al regime. Non sorge, dunque, un antifascismo di stato e di fatto, per contrastare una ovvietà: che c’era stata e c’era una società e una Nazione profondamente fascista. Per troppo tempo si è raccontata la favola di un regime di pochi che si impone sulla moltitudine. Il radicamento sociale del germe fascista è ben noto ai contemporanei di allora: gli osservatori e gli intellettuali antifascisti già negli anni 40 mettevamo in guardia nei confronti del fascismo quale fenomeno di massa. Ma nessuno di questi allarmi veniva dai grandi partiti, appunto, di massa. Sia nel mondo cattolico che nel mondo social-comunista è prevalso un atteggiamento semplificatorio della complessità fascista, che ha fatto grandi danni, passando dal fatto che in Italia non si è mai consumata una vera epurazione. Quando sono comparsi quei libelli, francamente ridicoli, di Pansa, si è voluto ignorare volutamente quello che era accaduto in tutta Europa: senza tirare in ballo i Paesi dell’Est Europa dove la guerra ha assunto proporzioni barbariche (prima e dopo), basta osservare il numero dei fucilati in Belgio, in Olanda, dove si è fatta letteralmente pulizia. Certo, se ne è fatta meno per ovvie ragioni in Germania ed in Austria, dove per inciso ancora nell’aprile 1945 c’erano milioni di iscritti al partito nazista. La strada scelta in quei Paesi è quella di una profonda educazione antinazista e democratica. 

L’esponente missino Ciccio Franco, leader dei cosiddetti moti di Reggio Calabria (1970-1971) (da https://it.wikipedia.org/wiki/Moti_di_Reggio)
L’esponente missino Ciccio Franco, leader dei cosiddetti moti di Reggio Calabria (1970-1971) (da https://it.wikipedia.org/wiki/Moti_di_Reggio)

In Italia siamo rimasti, di fatto a metà strada…

 Infatti. Con una retorica ufficiale e una pratica completamente diversa. Ci sono i rapporti dei servizi inglesi durante la Liberazione, che sono chiarissimi; sanno che restituire la potestà alle istituzioni italiane significa far ritornare la medesima classe dirigente. La preoccupazione degli alleati, soprattutto britannici, è totale. In Francia la storia è completamente diversa, e De Gaulle si porta dietro i suoi prefetti, il suo personale nuovo, in una rappresentazione aumentata dell’effettivo ruolo tattico delle forze francesi nella liberazione del Paese. Di qui il lungo braccio di ferro con Churchill. Ma in Italia, un De Gaulle non c’era…

Tornando bruscamente ai giorni nostri e alle sue considerazioni durante il seminario: “il fascismo è morto”, un’affermazione perentoria che in una discussione sull’attualità dell’antifascismo sembra una pietra tombale. Un fenomeno storico, dunque da storicizzare, e una definizione da maneggiare con cura, senza brandirlo come un’arma politica. È un fatto, tuttavia, che in Italia il fascismo sia morto troppo tardi. Lo diceva lei stesso…

 Faccio notare che l’Italia ha avuto il più grande partito neofascista d’Europa. Un fenomeno come il Movimento Sociale Italiano c’era solo nel nostro Paese, ed era il faro per tutti i nostalgici del continente. Dal 1948 sedeva in Parlamento una formazione apertamente, spudoratamente fascista, e ci rimase fino agli anni 90. Poteva accadere solo in Italia, dove eravamo tutti distratti dal fatto di ospitare il più grande partito comunista d’Occidente. Ebbene, lo ripeto, avevamo anche il più grande partito fascista di tutta Europa.

Di qui, appunto, la controdeduzione più preoccupata. Lei ci esorta a non temere la nostalgia, gli schemi del passato, le sigle veterofasciste. Ma l’eccesso di indulgenza, di accondiscendenza complice espresso da tanti italiani verso il fascismo, non è il brodo di coltura perfetto per le nuove minacce alla democrazia, pur sotto altro nome e altra forma? 

Gianni Alemanno alla fine degli anni 80, quando era segretario del Fdg, organizzazione giovanile del Msi (da https://it.wikipedia.org/wiki/Fronte_della_Giovent%C3%B9_%28MSI%29#/media/File:Gianni_Alemanno_FdG.png)
Gianni Alemanno alla fine degli anni 80, quando era segretario del Fdg, organizzazione giovanile del Msi (da https://it.wikipedia.org/wiki/Fronte_della_Giovent%C3%B9_%28MSI%29#/media/File:Gianni_Alemanno_FdG.png)

Comprendo e condivido la preoccupazione, e anche la repulsione che questo lassismo storico civile deve suscitare. Del resto i nostri stadi, e gli stessi esponenti di alcune squadre, non fanno mistero di una inaudita “normalità” nel frequentare da decenni temi, gesti, simboli, parole d’ordine neofasciste. Sdoganati dalla politica, come i saluti romani all’elezione di Alemanno sindaco di Roma. Gli esempi sono tanti. Insisto però sul fatto che le spinte antidemocratiche oggi si muovono su altre piste. Attorno alle simbologie neofasciste è improbabile che si costruiscano movimenti di massa, mentre il pericolo è ben più cogente sui temi dell’immigrazione, dell’intolleranza, della regressione nazionalista o localistica. Come accade in Italia e in tutta Europa, su direzioni incompatibili con la democrazia. Noi rischiamo ancora una volta, distratti dagli spettri delle tragedie novecentesche, di perdere di vista i valori fondamentali della Rivoluzione Francese, minacciate da chi nega la conquista più straordinaria degli ultimi secoli: il concetto di uguaglianza, che definisce la democrazia rispetto a tutto il resto. Fu quello un formidabile scatto evolutivo della civiltà umana.

Siamo tornati alla Rivoluzione Francese, a 220 anni fa. Avremmo forse bisogno di un altro “scatto evolutivo”? Qualcosa di più aggiornato per le sfide di oggi?

 E perché mai? Quando i valori sono universali perché non dovrebbe essere sufficiente applicarli? Nella storia dell’“umanità politica”, in estrema sintesi, sono accadute due cose: la Costituzione ateniese di Clistene e la Rivoluzione Francese. Duemila anni l’una dall’altra, alcune “cosucce” in mezzo, ma la sostanza sta tutta qui. Anche nel confronto con altre culture, altri percorsi di civiltà laici e religiosi, c’è in questo una intrinseca pretesa alla validità universale di queste conquiste. In qualcosa bisogna pur credere, e io credo fortemente in questo, all’universalità dei diritti umani. Di questo è fatta la democrazia che vogliamo difendere oggi.

 Mirco Zanoni, responsabile culturale dell’Istituto Cervi