Jorge Ithurburu nel 2018, nel corso di un dibattito dal tema “regimi e connivenze” organizzato da Rai Radio3 (Twitter)

«È una vittoria importante. Per l’Italia, per la democrazia e per chi in questi lunghi anni ha cercato ostinatamente verità è giustizia» dice a Patria indipendente Jorge Ithurburu, presidente della 24marzo Onlus, l’associazione che da anni assiste i familiari dei desaparecidos italiani in America Latina.

Il 10 luglio Jorge Néstor Troccoli, ex capitano di vascello della marina uruguaiana ha varcato le porte del carcere Fuorni di Salerno. Deve scontare una pena all’ergastolo per 26 omicidi. Quando nella prima metà degli anni 2000 i governi sudamericani iniziarono a istruire i processi contro i militari coinvolti nei crimini perpetrati dai regimi fascisti negli anni Settanta e Ottanta, diversi ufficiali trovarono rifugio in Europa. Come ha fatto Troccoli che, finito sotto inchiesta a Montevideo, nel 2006 (aveva ottenuto la cittadinanza del Belpaese già nel 2002) sale su un areo e cerca il suo buen retiro in Italia – da dove era emigrato il bisnonno – prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia.

La cartina mostra in verde scuro i Paesi che presero parte stabilmente al Plan Condor, mentre in verde chiaro quelli che aderirono solo sporadicamente (wikipedia)

Il torturatore Troccoli

Ad aprire le porte del carcere per Troccoli è intervenuta il 9 luglio la Corte di Cassazione che ha confermato la sentenza di secondo grado e la condanna all’ergastolo di 14 imputati per omicidio volontario pluriaggravato di 23 cittadini italiani (al conteggio delle vittime vanno aggiunti 20 uruguaiani, appartenenti a diversi gruppi di sinistra).

Non è uno qualunque il torturatore in divisa. Troccoli aveva fatto parte del Fusna, il gruppo fucilieri navali che aveva il compito di scovare e catturare anche fuori dai confini nazionali chiunque si opponesse al regime uruguaiano. Nel 1977 era il tramite tra le dittature di Argentina e Uruguay all’interno del Plan Condor, l’operazione – finanziata dagli Usa di Nixon – nata nel 1975 a Santiago del Cile.

Arturo Salerni durante un’audizione parlamentare

«La pronunzia della giustizia italiana sulla vicenda dei desaparecidos e sul patto criminale tra le dittature del Sudamerica negli anni Settanta – costituisce una pagina storica nella battaglia per la condanna dei crimini contro l’umanità e per la tutela dei diritti umani» commenta Arturo Salerni, uno degli avvocati che ha seguito l’intero processo sul Plan Condor. Secondo il legale «ricostruire un pezzo di storia così articolata, con il rapporto tra le dittature sotto l’egida nordamericana, ripercorrere le responsabilità della catena di comando, far rivivere dentro un processo a Roma, a 40 anni di distanza e dall’altra parte dell’oceano, le storie dei desaparecidos e dei loro familiari è stata un’opera importante». Si conclude un percorso durato anni «in cui sono state ricostruite le vicende di sequestri, torture, omicidi, sparizioni di cadaveri, rapimenti di bambini, perpetrati in danno di una intera generazione di oppositori politici e di militanti sociali e sindacali. I familiari delle vittime attendevano giustizia e il fatto che sia arrivata dal nostro Paese è un passaggio di cui essere fieri. Quel che dispiace è che questo processo non ha avuto dalla stampa italiana l’attenzione che meritava».

L’aeroporto Jorge Newberry di Buenos Aires, utilizzato per i voli della morte (wikipedia)

La centrale del terrore: el Plan Condor

Il Plan Condor fu una vera e propria centrale del terrore con l’obiettivo di coordinare su scala continentale la “guerra sporca” contro i movimenti guerriglieri ma più in generale contro gli oppositori dei regimi fascisti latinoamericani. «Studenti, intellettuali, giornalisti, sindacalisti, operai, genitori preoccupati per la sorte dei propri figli: tutti potevano finire schiacciati dalla macchina della repressione – dice Jorge Ithurburu della 24marzo Onlus – A proteggere le persone non bastava nemmeno espatriare. Gli agenti uruguaiani come Troccoli potevano operare nel territorio di altri paesi latinoamericani per ricercare e rapire gli oppositori politici del loro Paese». Sono gli anni degli stadi trasformati in carceri, dei vuelos de la muerte: gli oppositori gettati dagli aerei in mare e nei fiumi.

Il titolo in prima pagina del quotidiano cileno La Segunda del 25 luglio 1975 recita “Sterminati come topi” (wikipedia)

«Bisogna sentirli i numeri e imprimerseli nella memoria», afferma Ithurburu. Perché con la loro crudezza ci dicono molto più di tante parole: già a metà degli anni Settanta le forze repressive del Cono Sud controllavano la regione con un saldo di 4 milioni di esiliati, 50mila omicidi, almeno 30mila desaparecidos, 100mila imprigionati e 1.000 bambini assassinati o scomparsi. La macchina della giustizia «adesso faccia il suo corso. La sentenza deve essere eseguita, perché in questi anni troppi torturatori sono morti placidamente nel loro letto». Per gli altri 13 colpevoli sarà chiesta l’estradizione e dovranno scontare l’ergastolo in Italia o, ove la situazione lo richiedesse, nei loro Paesi d’origine».

La Cassazione è un punto di arrivo ma non chiude certo il capitolo sanguinario delle dittature sudamericane e dei desaparecidos italiani, spiega dal canto suo Salerni: «Quando hai migliaia di persone uccise non c’è mai una fine, ma verità e giustizia come diciamo noi si ricostruiscono tassello dopo tassello nelle aule di giustizia. I responsabili di oggi e di domani devono sapere che quelle pagine non si chiudono».

I volti di alcuni desaparecidos esposti al Parque por la Paz di Santiago de Chile (wikipedia)

Quanto poi alle estradizioni per gli altri militari cui la Cassazione ha confermato l’ergastolo «mi auguro – dice Salerni – che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, si muova rapidamente. So che l’Interpol li ha già cercati in Cile. Chiudere un percorso processuale significa dare esecuzione alla sentenza». Più complessa la situazione per i 10 militari uruguaiani condannati assieme a Troccoli: bisognerà aspettare la fine delle pene che gli sono state comminate nel loro Paese.

24marzo Onlus, come recita il suo statuto, intende contribuire al rispetto dei diritti umani fondamentali, della dignità e del valore della persona, anche mediante tutela giudiziale, e promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in un contesto di libertà dei popoli. Ithurburu ne è il presidente. Vive in Italia dal 1980. Ha seguito dall’inizio il dramma dei desaparecidos, prima nel processo contro i generali argentini Suarez Mason e Santiago Omar Riveros e, come coordinatore del Comitato delle parti civili, ha partecipato al processo contro 5 militari della Esma, la tristemente nota Escuela Superior de Mecánica de la Armada di Buenos Aires durante gli anni del generale Videla. Insomma, è uno che le varie fasi del processo Condor le ha vissute da vicino. E può a ragione sostenere che «non si processava la Storia. Era un processo penale dove sono stati condannati dei criminali che hanno sequestrato, torturato e ucciso decine e decine di persone».

Il giudice Baltasar Garzón (wikipedia)

1998, tutto inizia con il giudice Garzon

Assieme a lui ricostruiamo le fasi cruciali del processo Condor. «Tutto – ricorda Ithurburu – inizia nel 1998, anno in cui il giudice spagnolo Garzon emette il mandato di cattura nei confronti di Augusto Pinochet per la morte e la tortura di alcuni spagnoli durante la dittatura cilena. Tra i morti di origine italiana, piemontese per la precisione, c’è Juan Montiglio. Faceva parte dei Gap, i Gruppi di amici del Presidente, la guardia del corpo che si occupava di garantire la sicurezza di Allende. Erano militanti del partito socialista, persone preparatissime, addestrate a Cuba all’uso delle armi. Montiglio era con Allende l’11 settembre del 1973 quando la Moneda venne assaltata e bombardata dalle forze golpiste. «Dopo la morte del Presidente, gli uomini dei Gap, tra cui Montiglio, furono arrestati e trasferiti nella caserma Tacna dove vennero torturati per essere poi fucilati al poligono di tiro di Pendehue il 13 settembre. I loro corpi martorizzati vennero accatastati in una fossa comune, dove i militari gettarono delle granate per renderli irriconoscibili», racconta Ithurburu.

Il procuratore Capaldo (Imagoeconomica)

Le prime indagini del procuratore Capaldo

Dopo l’azione intrapresa da Garzón si muovono anche i parenti dei desaparecidos di origine italiana – erano milioni i nostri connazionali emigrati in Sudamerica nel corso del 900 – chiedendo alla procura di Roma di avviare un’indagine. Nel giugno 1999 il procuratore Giancarlo Capaldo, che indagava sulle morti di alcuni italo-cileni vittime di Pinochet aprì un’indagine legata ad omicidi e sparizione di italiani avvenuti nell’ambito dell’operazione Condor. Il 10 luglio 2006 Capaldo unificò le diverse inchieste aperte in Italia e alla fine di una complessa indagine emise 146 mandati di arresti contro civili e militari dei regimi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Perù, Paraguay e Uruguay.

Dopo la sentenza di primo grado nel gennaio 2017 (La Voce di New York)

Il processo inizia nel 2015 e si chiude nel gennaio 2017 con una sentenza che vede solo 8 degli imputati condannati e ben 19 assolti. «Quelle 19 assoluzioni furono come un pugno nell’occhio, provammo una delusione enorme», ricorda Ithurburu. «Ritenemmo in particolare grave la decisione su Jorg Néstor Troccoli, assolto per non aver commesso il fatto».

Insomma, le condanne, che pure certificavano da un punto di vista giudiziario l’esistenza del Piano Condor e le responsabilità dei vertici militari e politici che lo avevano sottoscritto e diretto, non potevano che lasciare scontente le associazioni e i familiari delle vittime. Le seconde file, i torturatori (e allora il reato di tortura in Italia non esisteva) come Troccoli uscirono indenni dal processo di primo grado, che aveva sì allargato il concetto di responsabilità penale ai fatti riconducibili al Condor, ma «inspiegabilmente – dice Salerni – aveva ritenuto che per loro ci fosse la prova dei sequestri e delle torture ma mancasse la prova della volontà di uccidere. Un ragionamento che non teneva».

Graffiti sui muri a Buenos Aires (wikipedia)

E che infatti è stato ribaltato in appello l’8 luglio 2019: 14 ergastoli e una provvisionale esecutiva di un milione di euro per la Presidenza del Consiglio dei ministri e di cifre comprese tra i 250mila euro e i 100mila euro per le altre 46 parti civili, tra associazione e parenti delle vittime. E ora il sugello della Cassazione. La battaglia per affermare la responsabilità di chi ha determinato il sequestro, la tortura, l’omicidio e la sparizione dei corpi di decine di migliaia di persone è stata vinta. La condanna di Troccoli per il presidente dell’associazione 24marzo Onlus è uno snodo importante: «può aprire la strada per nuovi processi contro altri militari che risiedono in Europa e che per ora sono sfuggiti alla giustizia del loro Paese».

Il fascicolo dell’Nsa (l’archivio di sicurezza nazionale statunitense) su Jorge Rafael Videla (wikipedia)

I tanti complici delle dittature latinoamericane

Parlare del Piano Condor significa anche parlare dei complici delle dittature sudamericane. Sono stati molti e molto potenti. Certamente gli Usa, che negli anni di Nixon e Kissinger, attraverso la Cia orchestrarono e finanziarono il colpo di stato che porto al rovesciamento di Allende in Cile e sostennero e addestrarono i caudilli sudamericani. Ma nemmeno l’Europa, nemmeno l’Italia, possono assolversi. «Sai su quali velivoli venivano trasportati gli oppositori che venivano lanciati nel sud dell’Atlantico? Erano aerei della Fiat. L’esercito argentino a metà degli anni 70 inviò in Italia i suoi piloti militari perché imparassero a manovrarli» ci racconta Ithurburu.

La Fiat figura tra le grosse aziende multinazionali – assieme alla Mercedes Benz, alla Ford, alla Wolkswagen – che chiusero un occhio sui crimini delle dittature e, in alcuni casi arrivarono a denunciare al regime i delegati sindacali, condannandoli di fatto ai sequestri, alle torture, alla morte. «Alla Mercedes Benz di González Catán (Buenos Aires), un commissario di polizia che già si era macchiato di diversi atti di violenza contro i lavoratori, subito dopo il golpe di Videla del 1976 venne scelto dai vertici della società come capo della sicurezza in fabbrica! 13 operai sono scomparsi durante gli anni del regime militare».

Un fotogramma da “La battaglia di Algeri”, film di Gillo Pontecorvo del 1966

Pieds-noirs e neofascisti

A dare manforte alle dittature sudamericane furono golpisti e militari europei. Come alcuni ufficiali francesi che avevano partecipato alla guerra contro gli algerini. Tornati in Francia dopo la battaglia di Algeri (1957) i pieds-noirs tentarono un colpo di Stato per rovesciare De Gaulle. Cacciati dall’esercito nel 1965, molti offrirono i loro servigi alle dittature sudamericane e cominciarono ad addestrare le forze armate latinoamericane nelle tecniche che avevano sperimentato in Algeria nella seconda metà degli anni 50, quando migliaia di algerini furono sequestrati, torturati e uccisi con le stesse modalità con cui sparirono i desaparecidos in America Latina quindici anni dopo. Nelle caserme argentine negli anni 70 proiettavano con regolare frequenza La battaglia di Algeri, il film di Gillo Pontecorvo che documentava le tecniche usate dai francesi contro la resistenza algerina. Case fatte esplodere, quartieri recintati, rastrellamenti: dovevano fare così anche loro, questo il messaggio dei generali alla Videla. Un altro capitolo che secondo l’avvocato Salerni meriterebbe di essere indagato ancora è quello dei «rapporti tra l’estremismo fascista italiano e i generali latinoamericani. Abbiamo tracce anche dentro al processo della presenza di neofascisti italiani in America Latina e del ruolo di Gelli. Figure come il Venerabile piduista ma anche vari esecutori minori situati al livello della manovalanza fascista, erano in ottime relazioni con la generazione dei carnefici in uniforme ai quali li accomunava il comune impegno contro il comunismo».

Una manifestazione per i desaparecidos nel 2011, a 35 anni dal golpe argentino del 1976 (wikipedia)

Quarantacinque volti a cui dare un nome

In questi anni Jorge Ithurburu e Arturo Salerni hanno avuto l’energia necessaria per il bisogno di dare conforto e giustizia alle famiglie dei desaparecidos che sono state addirittura private della possibilità di sapere dove sono i corpi dei loro congiunti. Sono ancora 45 i desaparecidos italiani cui bisogna dare un nome. E quello che la 24marzo sta cercando di capire è se hanno parenti in Italia. Da tempo è stata avviata una campagna sul sito del consolato argentino per ricercare i familiari delle vittime. Cosa può fare oggi l’Italia?

Il monumento “Tortura nunca mais” dedicato alle vittime delle dittature sudamericane a Recife, in Brasile (wikipedia)

«La domanda – risponde Ithurburu – è come si fa ad avere meno desaparecidos, come si fa a restituire alle vittime l’identità che il regime, nella sua ferocia, gli aveva sottratto. Quando riusciamo a dare un nome a una vittima quella persona non è più un desaparecidos. È uno che è stato ucciso e di cui si può ricostruire la vita e le cause della morte. Cercando i figli e cercando di aiutare le famiglie ad avere le salme dei loro parenti possiamo dare una spiegazione scientifica a quelle morti terribili. Dove e come sono stati uccisi padri e fratelli: questo per le famiglie è importante, aiuta a fare i conti col proprio dolore, a contestualizzare, a ricostruire la verità». Insomma, come sta facendo la Spagna per i suoi desaparecidos, anche il governo italiano dovrebbe prendere contatto con gli antropologi forensi che lavorano all’identificazione dei resti ossei e farsi promotore di una lettera ai possibili familiari dei desaparecidos per invitarli a donare il dna, in modo da incrociarlo con quello delle vittime. «Questa è una cosa concreta che il governo Draghi e le autorità italiane possono fare da subito per aiutare le famiglie dei desaparecidos a conoscere la verità».