Di lui si può dire che è uno di quei personaggi che hanno fatto la storia: combattente in Russia, partigiano, scrittore, ma uno scrittore particolare che ha dato voce a tanti cui è stato negato il diritto di parola, un maestro per molti giovani, un esempio di impegno civile.
Altre volte ho avuto l’opportunità di intervistarlo e sempre resto colpita dalla profondità con cui esamina i fatti accaduti, la sua grande onestà, che si manifesta nella pacata chiarezza con cui giudica i problemi, senza mai svicolare, prendendo posizione. La persona giusta dunque per riflettere sull’8 settembre 1943.
Come è stato il tuo 8 settembre? Dov’eri? Che cosa facevi?
Ero a Cuneo, in convalescenza, reduce dalla Russia. Ero in casa dei miei dall’aprile. Ero malridotto, invecchiato, anche se avevo soltanto 24 anni: avevo una ferita al braccio non ancora rimarginata, mani e piedi congelati, la pleurite. Ero malato anche dentro, dalla Russia ero tornato, ma ero un altro. I mesi tra il ritorno dalla Russia e l’8 settembre, li ho trascorsi, compreso il 25 luglio, in isolamento, se non vedendo i familiari dei dispersi che venivano a cercarmi per sapere, per avere notizie dei loro cari.
L’8 settembre non eri in caserma; ma eri pur sempre un tenente degli Alpini; qual è stata la tua reazione alla notizia dell’armistizio?
Istintivamente ho reagito dicendo a me stesso che non potevo restare assente da un avvenimento del genere e poi si realizzava in un certo senso quello che mi ero messo in testa: combattere contro i tedeschi. Mi sono messo in divisa, ho afferrato le mie tre armi automatiche, che avevo portato (clandestinamente) dalla Russia e mi sono presentato alla caserma del 2° Alpini; alla porta ho incontrato il capitano Romiti che mi ha consigliato di tornarmene a casa, perché «qui non c’è nessuna intenzione di sparare sui tedeschi». Ma io sono entrato e mi sono fermato anche la notte con un gruppo di sottotenenti di complemento con cui ho subito legato. Ero convinto che da un momento all’altro sarebbero arrivati i tedeschi; il giorno dopo era tutto come prima, salvo l’aiola che circondava il monumento ai Caduti, situato proprio di fronte alla caserma: era stata riempita dei vasi di gerani del colonnello Boccolari, comandante del II Reggimento Alpini che, in quel caos, dove soldati e ufficiali erano allo sbando, non trovò di meglio che mettere in salvo i suoi fiori. Questo dà la misura dell’incapacità o della mancanza di volontà di gran parte dei comandanti di gestire la situazione. In caserma era un manicomio, sono uscito e ho cercato un mio compagno, Pietro Bellino (che morirà da partigiano), anche lui ferito di guerra, anche lui sconvolto, angosciato come me per il caos.
Ma in una città come Cuneo, terra di truppe, di comandi, ci sarà pur stato qualche comandante capace di prendere in mano la situazione, ci saranno state le condizioni per organizzare…
Ti sbagli, non c’era più un generale, un colonnello, soltanto soldati, tanti soldati, saranno arrivati almeno in cinquantamila: la IV Armata, in fuga dalla Francia, si era riversata nel Cuneese, colonne che transitavano e la sola parola d’ordine era “tutti a casa”. Così i soldati si liberavano delle armi, c’erano più fucili nei prati in quei giorni che margherite; si liberavano delle divise e la gente delle nostre valli, generosa, li rivestiva, pensando che altri avrebbero fatto lo stesso per i loro figli. Invece i soldati che erano in caserma, dal “colonnello dei gerani” furono divisi in due gruppi, quelli più vicini li ha mandati a casa, gli altri li ha mandati sulla montagna pensando che tutto sarebbe finito presto e anche loro avrebbero potuto far ritorno alle loro case. Io e il mio amico Piero in giro per Cuneo disperati. La notte del 10 siamo andati a casa di un nostro ex colonnello che godeva fama di essere un gran soldato, gli abbiamo chiesto di andare in caserma a mettere un po’ d’ordine. Aveva bevuto, ci ha detto: «Toglietevi dai coglioni, pidocchi, tutti pidocchi». Noi siamo scesi di corsa per le scale e nell’atrio ci siamo abbracciati e messi a piangere.
Ma i tedeschi a Cuneo non c’erano? La loro presenza costringeva a una scelta.
No, non c’erano tedeschi, li aspettavamo e infatti sono arrivati il 12 a mezzogiorno. Io sono andato a vederli, pensa che fissazione la mia, volevo rendermi conto che erano proprio come quelli della Russia, che avevo imparato a odiare. Sono andato in piazza e c’erano due autoblinde con i tedeschi in calzoncini corti, scamiciati, sembravano turisti. Li ho guardati bene, a dieci metri di distanza, poi sono corso a casa, ho smontato le mie armi automatiche, le ho messe nello zaino; pesavano, ero ancora malato, la pleurite mi toglieva le forze, ma sono scappato in campagna, nella periferia di Cuneo. Lì ho incontrato altri che aspettavano come me, che volevano trovare un minimo di organizzazione, di solidarietà. Sono riuscito a mettere insieme un gruppo quasi tutto di ufficiali: nei primi giorni abbiamo cominciato a raccogliere armi, a organizzare i gruppi degli sbandati. Ho suggerito di chiamare la nostra banda “1ª Compagnia Rivendicazione Caduti”, nel ricordo dei morti di Russia.
Dunque la tua scelta di campo non viene da idee antifasciste già consolidate, come poteva essere quella di Duccio Galimberti. Mi sembra di capire, e questo del resto emerge anche da alcuni dei tuoi libri, che sulla tua scelta ha soprattutto influito il massacro di Russia.
Io ero un militare, avevo fatto due anni di Accademia a Modena e sono come due anni in seminario: lasciano il segno. Ora non ero più monarchico, non credevo più nei gradi. Ero stato fascista e avevo dovuto capire tutto da solo quando ormai era troppo tardi. Sì, si può dire che la mia scelta partigiana l’avevo in un certo senso maturata sul fronte russo, anche se con il ritorno in Italia tutto mi era riapparso confuso: i lunghi giorni che subito dopo la Russia ho passato nel campo contumaciale di Udine non mi hanno certo aiutato a chiarire le idee. Eravamo tutti malati, congelati e stanchi dentro, da non poterne più. I responsabili del campo non volevano che parlassimo male dei tedeschi e bene dei russi: pretendevano che dimenticassimo tutto.
Avevo una sola difesa: chiudermi in me stesso. Poi è arrivato l’8 settembre e tutto è tornato chiaro, come nei giorni della ritirata, come sul fronte russo, quindi il mio odio contro i tedeschi, il mio disprezzo per i fascisti. A proposito dei fascisti voglio essere chiaro e giusto: i battaglioni “M” che erano andati sul fronte russo a combattere, molti dei quali erano morti, meritavano rispetto perché avevano fatto la loro parte; io l’avevo con gli imboscati, con i gerarchi che per anni avevano gridato “viva la guerra” e quando è arrivata si sono nascosti.
La mia rabbia contro i tedeschi veniva dalla carneficina sul fronte russo, dove anziché essere solidali, nella ritirata, si liberavano di noi in modo brutale. I responsabili di tutto però, oltre a Mussolini, erano anche il re e Badoglio, tutti avevano messo il nostro Paese in uno stato di confusione assoluta, di disastro totale.
Come ti spieghi la scelta di andare in montagna di tutti quei soldati, delusi, dopo anni di guerra, di rischi?
Avevano il terrore di essere arruolati dai tedeschi o di essere inquadrati dai fascisti. Che ci fossero tanti giovani che sceglievano ancora di rischiare la vita, mi sembrava che avesse del miracoloso: hanno dato la carica anche a me quei ragazzi e hanno riscattato lo sfascio, la vergogna dell’autorità costituita.
Ma torniamo alla tua scelta: la montagna, il partigianato, però con una banda tua, senza legami con le altre che si andavano costituendo e che avevano caratteristiche più politiche che militari.
Avevo una gran diffidenza nei confronti della politica: ci aveva fregato Mussolini, ci aveva fregato il re, e adesso? No, dovevo capire bene, vivevo nella paura di sbagliare. Il mio retroterra culturale era modesto, non mi bastavano più i discorsi, le belle parole. Poi ho avuto la fortuna di incontrare Livio Bianco, anche Galimberti, ma Livio viveva con noi, lo incontravo spesso e piano piano ho capito che la politica era importante, così il 7 febbraio, a Valloriate, chiedevo a Livio di accogliermi nella banda “Italia Libera” (di Giustizia e Libertà). Livio Bianco mi dava garanzie di serietà, era per le cose ben fatte e io non volevo improvvisazioni, non avevo dimenticato i massacri del fronte russo e consideravo la vita di ogni uomo importante come la vita di tutta la banda. Con Livio riuscii finalmente a parlare, ma soprattutto lo ascoltavo parlare di Piero Gobetti, di Carlo Rosselli e scoprii un mondo.
Dall’8 settembre al 25 aprile, lunghi mesi di lotte, di sacrifici, ma anche di entusiasmi, di speranze in qualcosa di nuovo, di serio, di pulito. A sessant’anni da allora, ci troviamo in pieno revisionismo, in una paurosa restaurazione, con tanti fascisti. Come è potuto accadere, dove abbiamo sbagliato?
Siamo stati troppo buoni. E poi molti problemi di allora sono rimasti irrisolti. Si è costruita la democrazia su fondazioni fasciste. E ci sono stati anni di carenze politiche, di continui compromessi. I fascisti che avevano cominciato subito ad alzare la testa, si stanno riprendendo l’ennesima rivincita. Ci sono stati anni di silenzi, anche la sinistra sembrava non voler fare riferimento alla Resistenza. A forza di compromessi, di aggiustamenti si arriva a confondere le acque a vantaggio dei peggiori. E allora può anche accadere che un uomo come Violante pronunci, al suo insediamento come presidente della Camera, un infelice discorso sui “ragazzi di Salò”. Non vorrei essere pessimista, ma certe volte la situazione di oggi mi ricorda l’8 settembre: l’irresponsabilità di chi governa, la capacità di minimizzare nelle situazioni difficili.
E questo mi mette a disagio, mi turba, anche se so che non bisogna scoraggiarsi, qualcosa di buono, di imprevisto può sempre accadere, come l’8 settembre, quando tutti quei giovani sono andati in montagna e, diventati partigiani, hanno ridato dignità all’Italia di fronte al mondo.
Sulla porta di casa di Nuto Revelli, nonostante i tentativi di cancellarlo, è ancora visibile “MSI”, uno sfregio fatto dai fascisti alla fine degli anni Settanta, lo stesso periodo in cui, mentre passeggiava sotto i portici di Cuneo, fu aggredito da un gruppo di missini perché si era rifiutato di prendere un manifestino di propaganda fascista. Il prefetto a cui si era rivolto per denunciare il fatto gli rispose che se fosse rimasto in casa non gli sarebbe accaduto! Del resto quel prefetto non avrebbe potuto comportarsi diversamente, dal momento che tra gli assalitori c’era pure suo figlio. Ovviamente Revelli non si è mai chiuso in casa, ma ha continuato a tenere lezioni di antifascismo, a incontrare i giovani per aiutarli a capire. In occasione dei suoi ottant’anni, l’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, pubblicò un volume, a cura di Michele Calandri e Mario Cordero, in cui si ripercorre la vita di Nuto: «Una vita spesa a combattere l’Italia delle amnesie, dei vuoti di memoria, delle rimozioni. L’Italia che preferisce la retorica alla responsabilità verso la sua storia. L’Italia che celebra e dimentica».
Da Patria indipendente n. 8 del 21 settembre 2003
Pubblicato venerdì 8 Settembre 2017
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