Fuori dai circuiti turistici generati da Matera capitale della cultura, ci sono luoghi rurali dove le memorie diventano contemporaneità che sanno di grano, di acqua e di fuoco.
Impetuosa, forte, potente, leggera, calma o sacra. Ce n’è per tutti i gusti in Basilicata, sinonimo di acqua, che rappresenta il 30 per cento delle risorse idriche nazionali, celebrate sullo stemma istituzionale della Regione attraverso i suoi fiumi principali: Basento, Bradano, Sinni e Agri.
Il menu idrico lucano offre una vasta gamma di scenari: dai torrenti animati dagli sport acquatici, ai ruscelli che danno vita a scorci fiabeschi dove «le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo» scriveva il poeta Leonardo Sinisgalli.
Ai laghi, come il Sirino dalle acque verdi e circondato da alberi secolari alle falde dell’omonimo monte. E più su, il Laudemio, bacino di origine glaciale noto come il più meridionale d’Italia, consente di assaporare questa fetta di Sud in verticale, trovandosi a poca distanza dagli oltre 2000 metri del monte del Papa, massima cima del gruppo del monte Sirino.
Ben 14 dighe – tra artificiali e naturali – arricchiscono questo immenso patrimonio idrico. Come il bacino di Monte Cotugno, il più grande d’Europa in terra battuta, nel comune di Senise (Pt), che trasforma il Sinni in un lago: qui la mole di acqua quasi cozza con il paesaggio arido dei calanchi che la circonda. Dalla diga del Pertusillo, invece, si snoda una parte dell’acquedotto che disseta la vicina Puglia. I romani avevano ben colto questa disponibilità, come dimostrano molti resti di acquedotti, tra cui quello che da Montemilone (Pz) arrivava alla cittadina pugliese di Canosa.
Acque sorgentizie zampillano da ogni dove: secondo un censimento della Regione, risultano essere oltre 550 attive e autorizzate. Gran parte dei Comuni ne vanta almeno una di natura terapeutica, come l’acqua sulfurea di Latronico (Pz) che viene in parte erogata da una fontana pubblica e in parte convogliata in uno stabilimento termale. O come la sorgente Copone – rimedio per litiasi e ipertensione arteriosa – nel comune di Marsicovetere (Pz), che sgorga dalle viscere del monte Volturino dagli ampi pascoli popolati da mandrie di cavalli e bovini che, come su tutti i monti della regione, migrano d’estate, facendo della transumanza un patrimonio culturale immateriale riconosciuto dall’Unesco. O ancora, le numerose fontanelle disseminate sul territorio del vulcano Vulture, che offrono acque dalla naturale effervescenza, divenute anche oggetto di distribuzione di un importante marchio multinazionale.
Il Vulture offre altro stupore all’interno dei suoi crateri con i laghi color cobalto di Monticchio su cui si riflette il bianco dell’abbazia di san Michele Arcangelo, edificata sull’ipogeo in cui è tutt’ora presente una fonte dove si praticavano culti pagani prima e dove in seguito i monaci basiliani venerarono il taumaturgo e protettore delle acque curative. Altra suggestiva grotta del culto dell’Arcangelo si trova all’interno dell’abbazia di Sant’Angelo, nel comune di San Chirico Raparo (Pz), dove lo scorrere perenne dell’acqua ha creato sculture di stalattiti e stalagmiti, oltre le quali si conserva un affresco del Santo guerriero e comandante dell’esercito celeste vegliato da una cospicua colonia di pipistrelli.
Il culto delle fonti è attestato su tutto il territorio lucano: i reperti archeologici dei santuari di San Chirico Nuovo, Armento, Vaglio di Basilicata, Chiaromonte e Timmari dimostrano che tra il IV e il II secolo a.C. vi era una presenza importante di culti femminili legati all’acqua e alla fertilità. Un rito che persiste ancora e lo si può vivere in altre vesti ogni 8 settembre, quando la Madonna del santuario di Santa Maria d’Anglona, splendida testimonianza dell’architettura bizantina nel comune di Tursi (Mt), viene portata in processione per benedire gli uomini e i campi circostanti. Secondo gli antropologi, la figura di Maria ha sostituito quella di Demetra, dea greca dei raccolti e delle messi, il cui santuario è a pochi chilometri di distanza, a Policoro, l’antica Herakleia della Magna Grecia. Durante la processione di Santa Maria d’Anglona vengono infatti venduti cestini di frutta in segno di buon auspicio dalla forma molto simile a quelle dei ritrovamenti archeologici dell’area sacra di Herakleia, mentre le donne ricevono in dono spighe di grano, simbolo di una fertilità che incarna le nostre radici.
Ci sono poi sorgenti divenute sacre al mercato economico, come quella dei boschi di Tramutola (Pz) da cui fin dall’antichità sgorgano acqua e petrolio in maniera incessante. Siamo in Val d’Agri, da dove si estrae l’8 per cento di idrocarburi del fabbisogno nazionale attraverso gli impianti del Centro Olio situati nel comune di Viggiano, simbolo di sacro e profano perché anche sede del santuario della Madonna Nera, protettrice delle genti lucane e venerata da pellegrini che qui si recano anche da fuori regione. L’oro zecchino e la cascata di coralli e perle che ricoprono interamente la sua statua ne fanno un altro eccezionale lascito bizantino.
Anche il mare rappresenta un bene importante, soprattutto dal punto di vista turistico. Se riuscite a non esser risucchiati dalle spire della pensione completa e dell’animazione dei villaggi turistici, esplorate le coste di sabbia finissima del mar Ionio, dove nel VII secolo a. C. fiorì la colonia più antica della Magna Grecia: Metapontum, in greco tra due fiumi, alla foce del Bradano e del Basento.
Nel parco archeologico, tra il colonnato del tempio detto Tavole Palatine, basta alzare lo sguardo per vedere l’orizzonte diviso tra mare e cielo. A poca distanza e in tempi recenti, una nuova colonia ha scelto le coste di Marina di Pisticci (Mt) come luogo di nidificazione, destando un generale entusiasmo: la tartaruga marina.
Attraversando la regione da sud-est a sud-ovest, sarete accolti dalle spiagge di sabbia nera di Maratea (Pz), sovrastate dall’imponenza del Cristo Redentore: 21 metri di altezza che lo rendono il terzo al mondo dopo quello di Rio de Janeiro e di Lisbona. Ai suoi piedi le gradazioni cromatiche del mar Tirreno tolgono il fiato quasi con lo stesso impeto delle folate di vento che su questa altura si alternano in tutte le stagioni.
Una ricchezza che a sua volta ne ha generato un’altra, quella verde, che ancora a sua volta ha originato l’antico Lucania, terra di boschi, parte dei quali dichiarata patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, come la Faggeta Vetusta di oltre 500 anni, nel parco nazionale del Pollino.
Una terra di boschi dove l’albero continua ad avere una valenza importante nei riti arborei che prevedono il matrimonio di due cime di imponenti tronchi portati a spalla in paese (Accettura, Castelmezzano, Castelsaraceno, Oliveto Lucano, Pietrapertosa, Rotonda, Terranova del Pollino, Viggianello) auspicando fertilità per quel settore agricolo che riveste un ruolo significativo all’interno dell’economia regionale e dove si tramandano anche riti propiziatori attraverso il fuoco.
Grandi falò all’inizio dell’anno agricolo, un tempo dedicati a Marte, simbolo di rinascita legato al fuoco e al sole, rischiarano le notti della vigilia di Sant’Antonio Abate e di San Giuseppe di borghi che sembrano immobili da secoli: Castelluccio Inferiore, Filiano, Gallicchio, Marsicovetere, Montalbano Ionico, Montescaglioso, Rotondella, Ruoti, Trivigno e un lungo elenco di comuni che conservano ancora i tratti spontanei di questa tradizione.
Fuochi di sbarramento si rievocano invece a Pignola (Pz), a maggio, attraverso la festa della Uglia, un baldacchino di stoffa dalla tipica forma di guglia su cui è dipinta l’effigie della Madonna degli Angeli – unico elemento religioso – portato a spalla da uomini che, supportati da vino e musica, hanno l’arduo compito di saltare i fuochi di ginestre posti all’ingresso di ogni rione con i quali la popolazione tentò di ostacolare il passo al nemico invasore, probabilmente arabi di cui molti centri conservano le tracce.
La stessa indole rigenerativa dell’acqua e del fuoco ha guidato la popolazione lucana a battersi per instaurare un nuovo ordine sociale.
Nel 1799 diverse località presero parte ai moti rivoluzionari che costituirono la Repubblica napoletana, issando nelle piazze l’albero della libertà, simbolo degli ideali della Rivoluzione francese. Uno dei protagonisti della Repubblica partenopea fu Francesco Mario Pagano, nato a Brienza (Pz).
Finirà giustiziato, come molti altri, dopo diversi fallimenti da parte di intellettuali e monarchi europei nel tentativo di dissuadere re Ferdinando IV di Borbone dalla condanna a cui lo aveva destinato. Il parco letterario che racchiude i luoghi della sua biografia, include i ruderi della casa dove nacque, sovrastati dall’imponente castello Caracciolo, emblema di quella monarchia contro cui si batté fino alla morte. Napoli e Basilicata faranno ancora parte della stessa cronaca nel 1878, quando Giovanni Passannante di Savoia di Lucania (Pz), tentò di ferire re Umberto I come gesto di protesta contro le condizioni di miseria in cui la monarchia aveva ridotto il Sud.
Tacciato di essere un anarchico, Passannante fu prima imprigionato e torturato in una cella sotto il livello del mare dell’isola d’Elba, poi segregato in un manicomio dove morì. Ma questo non bastò. I suoi familiari vennero internati fino alla loro morte, colpevoli di avere lo stesso sangue di un assassino di tal specie e il suo paese di origine, Salvia, per deferenza alla monarchia, cambiò immediatamente nome in Savoia di Lucania. Dopo la sua morte, gli verrà negata anche la sepoltura e il suo cranio esposto nel museo Criminologico di Roma, dove una targa lo definirà criminale abituale. Ma Passannante non uccise mai nessuno. La sua vicenda ebbe finalmente epilogo nel 2007, con la traslazione dei resti nella sua Salvia.
Oggi la sua gigantografia impera su una facciata del centro della cittadina e alcuni locali pubblici portano fieramente il suo nome, mentre un acceso dibattito continua ad infervorare gli animi intorno alla questione del ripristino del toponimo originale.
Sui muri di Savoia di Lucania – e delle vicine Satriano e Sant’Angelo Le Fratte – scorre la storia della civiltà contadina che, in un passato non troppo distante, vivacizzava i vicoli di questi borghi dai balconi in ferro battuto utilizzati come essiccatoio per i peperoni cruschi, diventando ricche pinacoteche a cielo aperto del territorio.
Nelle stesse carceri dell’isola d’Elba fu imprigionato un altro lucano che diede non poco filo da torcere ai Savoia ai tempi dell’unità d’Italia: Carmine Crocco, il Generalissimo, capo leggendario del brigantaggio di questa terra e non solo (sconfinava in Puglia e in Campania). Le sue gesta e quelle della sua banda – che superò i duemila soldati – sono raccolte nel Museo del Brigantaggio di Rionero in Vulture (Pz), suo paese d’origine. Il suo volto è l’icona locale più rappresentata su t-shirt, bandiere e muri. Spesso si trova anche nelle grandi città, importata dai giovani che si spostano per studio o per lavoro. Di eguale vitalità sono i suoi scritti perché interpretati da una delle più interessanti esperienze di valorizzazione della memoria storica e delle radici culturali del mondo rurale: nelle notti d’estate, nel Parco della Grancìa di Brindisi di Montagna (Pz), uno spettacolo teatrale ricostruisce il contesto storico dell’epopea del Generalissimo, animato da trecento figuranti in una suggestiva scenografia creata dal connubio vegetazione-arte.
Mentre la storiografia continua a dibattere se definire il fenomeno del brigantaggio criminalità o resistenza filoborbonica, a queste latitudini ha assunto carattere leggendario e non c’è rupe, fossa, fontana, grotta o tratturo che non sia dedicato ai briganti, entrati a far parte anche dei modi di dire, come ad Avigliano (Pz). «Ti faccio fare la fine di Ninco Nanco» è una minaccia forte e chiara, in riferimento a Nicola Summa, detto Ninco Nanco, luogotente di Carmine Crocco, ucciso dall’esercito sabaudo e appeso nella piazza del paese come monito per chi aveva scelto di opporsi ai Savoia.
Il fuoco dei tumulti segnerà anche il periodo fascista. San Mauro Forte (Mt) fu teatro del cosiddetto sciopero del ’40 compiuto dai contadini in protesta contro il podestà a causa di cartelle esattoriali dalle cifre esorbitanti – ed errate – nell’accertamento dei contributi agricoli. Ne conseguirono arresti, feriti e morti per i quali nessuno mai pagò. Lungo quelle stesse strade ingentilite dai palazzi baronali dei latifondisti che quei braccianti sfruttavano, ancora oggi, all’imbrunire del giorno di Sant’Antonio Abate, gruppi di uomini, coperti da pastrani e cappelli adornati da spighe di grano, suonano a ritmo cadenzato grandi campanacci per attirare i favori di Madre Natura nei confronti del mondo agro-pastorale.
Nota è l’insurrezione contro il nazifascismo di Matera, prima città del Mezzogiorno ad essersi opposta alle truppe di occupazione tedesche. Era il 21 settembre 1943 e Napoli l’avrebbe seguita pochi giorni dopo. Ne parla anche lo scrittore Carlo Levi in Tre ore di Matera. Un primato che è stato riconosciuto nel 2016 con il conferimento alla città della Medaglia d’Oro al Valor Civile dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
«Erano solo una nube questi tedeschi» scriveva Rocco Scotellaro, sindaco di Tricarico (Mt) e poeta della libertà di quei lavoratori di una terra martoriata dal latifondo e dall’emigrazione, fuori dall’agenda politica nazionale. Scotellaro strinse legami con Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, entrambi confinati in Basilicata, regione che ebbe il triste privilegio di diventare un ideale campo di punizione, priva com’era di una rete di comunicazioni e di servizi. Entrambi antifascisti furono legati al mondo dei contadini del Sud: mentre l’economista Rossi Doria ne analizzò le cause dell’arretratezza, prima da giovane studioso in Val d’Agri con Eugenio Azimonti, affermato esperto di quella realtà, poi come principale promotore politico della riforma agraria degli anni Cinquanta, l’intellettuale Levi ne denunciò miseria e malattie endemiche con il romanzo Cristo si è fermato a Eboli (1945). Oggi Aliano (Mt), borgo a precipizio sui calanchi «su cui le case stavano come liberate nell’aria» dove Levi fu confinato è un parco letterario a lui dedicato. Un luogo che lo scrittore subì ma che alla fine della sua vita scelse, chiedendo di esservi sepolto. Di fronte alla sua tomba, la maestosità delle vette del Pollino si erge silenziosa.
Molti altri civili furono internati nel campo di lavoro di Campo Agricolo, nel comune di Pisticci (Mt). Tra il 1939 e il 1943 da qui transitarono diverse centinaia di antifascisti, destinati a prestare le loro braccia agli interventi di bonifica della zona. Furono confinati operai, artigiani, insegnanti, giornalisti, esponenti dell’arte e della politica a cui oggi è intestata la topografia del campo, come piazza Umberto Terracini, firmatario della Costituzione, su cui spicca un serbatoio che presenta ancora il precetto, scrostato, Credere, obbedire, combattere.
Maschito (Pz) ci parla ancora di fascismo perché fu una delle prime Repubbliche libere, nata da una sommossa popolare nel 1943. Percorrere i suoi vicoli dalla toponomastica bilingue ci rammenta che siamo in Arberia, l’area a nord della regione di cui fanno parte anche i comuni di Ginestra e Barile, popolata dalla minoranza etnica degli arbëreshë dal XV secolo, quando fuggirono dalle persecuzioni religiose dei turchi ottomani alla conquista dell’Albania e dei territori dell’impero bizantino.
Via Scutari, piazza Albania o via Giorgio Castriota Scanderbeg – eroe della resistenza albanese contro i turchi – sono continui rimandi alle origini di questa popolazione che conserva intatte le sue tradizioni culturali e linguistiche.
E poi giù, nella valle del Sarmento ai confini con la Calabria, i due comuni che costituiscono l’altra parte dell’Arberia regionale ci conducono ancora nel grano e nel fuoco. I vicoli quieti di San Paolo Albanese (Pz) si animano nel giorno di San Rocco con la danza del falcetto, una pantomima intorno a diverse strutture di grano che risale a pratiche pre-cristiane e con la quale i contadini riproducono la mietitura in un rituale di esorcismo delle forze avverse della natura: le bestie del grano.
A San Costantino Albanese si celebra un particolare rito del fuoco in onore della Madonna della Stella, a maggio, con l’accensione di pupazzi antropomorfi di cartapesta a grandezza naturale, i Nusazit. Una tradizione che non ha eguali in Italia e che si rifà a ritualità messicane su cui gli studiosi si interrogano ancora. Cinque secoli di costumi e lingua albanesi quasi inalterati che si sono fusi a quelli lucani e messicani nei festeggiamenti di una Madonna bizantina, formano un melting pot culturale che lascia interdetti di fronte ad affermazioni sull’italianità perduta.
Pubblicato venerdì 30 Ottobre 2020
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