La forza della tradizione sta nel suo valore.
È un tesoro, un’energia viva che costituisce la ricchezza.
Antonio Infantino
Antonio Infantino è la voce del Sud più trasgressiva, rivoluzionaria e inedita nel panorama della canzone popolare. Definito il maestro dei maestri, il “Genio di Tricarico”, per alcuni è addirittura “lo sciamano”. Certamente “il personaggio musicale più intenso, complicato e originale che la Basilicata abbia partorito negli ultimi decenni”, scrive Walter de Stradis [De Stradis, W. “Nella testa di Antonio Infantino”, p. 9].
Per la creazione di suoni, ritmi e di una musicalità che prendono spunto dalla tradizione per reinventarla, mescolandola alla musica di altri Paesi, come il Brasile, ed elevandola a sound internazionale. O contaminarla con il free jazz, la musica elettronica, gestuale e performativa, trasformando le sue esibizioni in eventi sorprendenti – collabora, infatti, con i musicisti del Living Theatre, tra i più innovativi nell’ambito dell’improvvisazione musicale.
Quella di Infantino – scrive Sesto Passone – “è una musica immediata, viscerale, a volte ossessiva, a volte rarefatta” [Plastino, G. “La musica folk”, p. 745]. Una musica sconcertante, che lancia provocazioni e si fa anche impegno politico.
Antonio Infantino è la voce di Tricarico, paese della Lucania, a metà strada tra Potenza e Matera, tra colline e campi bruciati dal sole, dove l’agricoltura ha richiamato a un lavoro massacrante schiere di braccianti a schiena curva e misero guadagno. Il paese di Rocco Scotellaro, il sindaco poeta che dava voce ai contadini, amico di famiglia, frequentazione usuale, di pensieri condivisi.
Antonio Infantino è la voce di quei contadini chini sui campi, dei vecchi seduti davanti alle case nell’attesa di un cambiamento, degli operai dell’Italsider, di una popolazione disumanizzata da un lavoro precario, servi sfruttati nelle terre e nelle fabbriche.
“Nelle canzoni di Antonio Infantino c’è sia il ricordo di storie e immagini del Sud di una volta, con richiami a motivi rituali o di lavoro, ma c’è comunque anche l’attualità del sottosviluppo di oggi e delle lotte contro lo sfruttamento che nel Sud è ancora vivo” [Plastino, G. p. 745].
Infantino è la voce antica di quel mondo che sprofonda nelle credenze e nei rituali. Nel tempo lontano della musica come rito di purificazione e di salvezza.
È la musica dei tarantolati, coloro che nella tradizione del Meridione sono stati morsi dalla tarantola durante il lavoro nei campi. Non solo. Tarantolati sono anche quelli che, pur non essendo stati morsi dal ragno, sono stati pervasi da una forza maligna che ha provocato loro uno stato di malessere profondo, di depressione o di agitazione incontrollata. In quelle comunità, allora, musicisti deputati suonano e creano la musica per i tarantolati, una musica che scatena la danza e diventa strumento terapeutico. Che calma e rilassa, o libera del male chi ne soffre, con movimenti sfrenati e ritmi ipnotizzanti. Un male individuale, ma che diventa collettivo, e colpisce l’intera comunità che partecipa all’evento catartico.
“Il ritmo che uso io – spiega Infantino – si chiama “cretico”: le parole e le note creano dei “giochi di suoni” che producono degli armonici, detti anche “terzi suoni”, che hanno un effetto particolare sul corpo umano. Insomma, le persone che vengono ai miei concerti, a un certo punto non possono fare a meno di ballare e saltare come dei grilli” [De Stradis, W. p. 53].
Antonio è parte attiva di questa comunità di Tricarico, in questo mondo costruisce la sua arte, i suoni, le parole. Fino a fare della musica una scuola e dare ai giovani del paese una possibilità per immaginare un diverso orizzonte. Antonio Infantino e i Tarantolati di Tricarico sono la scommessa di una nuova epopea culturale del Meridione che, da quella Lucania remota e sconfitta, diffonde nel mondo una voce di riscatto.
Origini contadine, il padre Peppino, di Tricarico, coltiva la vite e produce vino, la madre Angelina è maestra, ma di famiglia rurale anch’essa. Antonio nasce a Sabaudia, provincia di Latina nell’aprile 1944. Nel 1954 la famiglia si trasferisce a Potenza, città in cui lui resta fino ai diciotto anni. L’interesse per l’architettura lo porta a Firenze dove si laurea nel 1971 con 110 e lode. Proprio nel capoluogo toscano nel 1964 sono esposte le sue installazioni (“Componimenti poetici”) e i suoi disegni, ospitati in diverse mostre a Palazzo Strozzi e nel Padiglione Galleria Numero. Qui, inoltre, collabora con UFO, gruppo storico fiorentino di architettura radicale che si propone di spettacolarizzare l’architettura e trasformarla in evento, in performance, in occupazione di luoghi simbolo, sfidando polizia e istituzioni [Pinto, T. “Lavorare con lentezza”, p. 64]. Realizzerà successivamente allestimenti di arte povera e concettuale, come “Situazione 68”, con Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis.
Ma sono la musica e la poesia che mettono in luce la sua natura anticonvenzionale. È a Milano, al Nebbia Club, e al Folkstudio di Roma che Antonio avvia la sua personale ricerca musicale e la presenta al pubblico dei locali nati per la musica folk e per il cabaret.
“Quando Antonio Infantino si presentò al Folkstudio – racconta Luigi Manconi –, sembrava venisse da un altro mondo, ed era pressappoco così. Un mondo dai forti contrasti, tra luci abbaglianti e ombre scure, pieno di misteri e di sorprese, dove si potevano incontrare i tarantolati”. Coloro che erano toccati da un’esperienza allucinatoria causa di attacchi e crisi di natura psicologica, esorcizzati tramite rituali collettivi di carattere cristiano o pagano che servivano ad allontanare gli spiriti possessori che agitavano il corpo del tarantolato [Manconi, L. “La Musica è leggera”, 2012].
Occorre però far presente che per Infantino il tarantismo non sarà solo questa manifestazione folklorica, intrisa di magia e misticismo; al tarantismo Infantino attribuisce un significato sociale e politico: il tarantolato è il giovane alienato che deve sopravvive in una società disumanizzata, fatta di lavoro precario, di emigrazione forzata, di industrializzazione spregiudicata, di schiavitù. E quindi la tarantola, con il suo veleno di incubi, con il suo morso di angosce è la rappresentazione di quel mondo capitalistico asservito alla legge mortificante del “consuma, produci, crepa”, in cui l’operaio è un ingranaggio microscopico in un sistema votato alla produzione, destinato a disfarlo, dentro la grande fabbrica.
Non solo la fabbrica, perché tanti sono i mali del presente. “La nube di Cernobyl era la taranta – dirà Infantino – la crisi economica è taranta, l’Equitalia, o chi per lei, è taranta: lo stato di malessere che queste creano è taranta” [De Stradis, W. p. 76].
Alla base del pensiero di Infantino ci sono anche gli scritti e le ricerche di Ernesto De Martino in “La Terra del Rimorso”. “Lui – spiega Infantino – vedeva il tarantismo lucano come espressione della “miseria psicologica, dovuto alla condizione sociale e alla povertà: la gente non potendo andare dallo psicanalista, andava dal masciaro”, ovvero una sorta di magico curatore [De Stradis, W. P. 53].
Un documento sulle ricerche di De Martino sul fenomeno della Taranta.
Nel 1967 esce “I denti cariati e la patria”, un quaderno di poesie con introduzione di Fernanda Pivano, edito da Feltrinelli. La scrittrice, giornalista e critica musicale lo annovera tra i protagonisti del beat italiano, citandolo in “Mondo Beat” e in un articolo del Corriere della Sera.
“Fernanda Pivano – racconta Infantino – mi notò al Nebbia Club di Milano […] e mi propose di fare un libro. Mi disse semplicemente: «Scrivi». Mi ospitarono a via Manzoni, vicino alla Scala, e io passai una notte sulla macchina da scrivere” [De Stradis, W. P. 35].
Il primo album nasce in quello stesso anno: “Ho la criniera da leone (perciò attenzione)” è composto da dodici brani originali, prodotti da Nanni Ricordi.
“Si avvicinò una persona – il talent-scout Renato Queirolo, precisa De Stradis nell’intervista a Infantino – e mi chiese se volevo fare un disco […]. Io mi mettevo addosso una tonaca che avevo fatto da me con circuiti elettronici verdi fosforescenti, indossavo una sciarpa come a sbeffeggiare i preti, accendevo delle candele, spegnevo la luce e cominciavo”. Le performance di Infantino colpiscono a tal punto Queirolo che subito decide di presentarlo a Nanni Ricordi. Dopo l’audizione in cui si esibisce nella sua versione de “Il Cantico delle Creature” Ricordi si convince a produrre l’album.
Nell’album ci sono le musiche della tradizione, la storia antica della Lucania, i canti popolari. Infantino li ricerca nelle biblioteche, li studia appassionatamente, ne analizza le melodie, i ritmi e in questo modo fa un attento lavoro di recupero alle radici. “È sciocco pensare che non bisogna considerare le origini – spiega Infantino – perché se non torni alla purezza della sorgente, berrai acqua inquinata. Solo conoscendo la sorgente si può modificare il percorso e rendere l’acqua non più contaminata” [De Stradis, W. p. 41].
Intero album:
L’interesse per la ricerca popolare lo porta anche alla collaborazione con Dario Fo per lo spettacolo “Ci ragiono e Canto 2”, in cui Infantino partecipa ai testi e alle musiche.
Compone e interpreta con il cantautore barese Enzo del Re i brani Avola e Povera Gente, su testi di Dario Fo.
Avola racconta la strage dei braccianti siciliani di Avola, provincia di Siracusa, uccisi dalla polizia durante uno sciopero, il 2 dicembre 1968. Le ragioni dello sciopero stavano nella richiesta di un nuovo contratto di lavoro, ma anche nella protesta contro la compravendita di manodopera a basso costo a opera dei caporali. Dall’altra parte i proprietari terrieri, sostenuti dal ministro dell’Interno Franco Restivo e dal vicequestore di Siracusa. Quel giorno gli ordini sono molto chiari: il fronte degli scioperanti deve essere abbattuto. Un commando di 90 uomini da combattimento viene mandato a fronteggiare i braccianti schierati. È un tiro al bersaglio, una fucilazione mirata a poveri contadini armati solo di pietre. In 25 minuti, due chili di bossoli restano sull’asfalto. Morti: 2, feriti: 48 protestanti e circa 50 agenti. L’Italia intera è sbigottita. Gli agrari sono costretti a firmare un accordo sul contratto di lavoro.
La canzone è una cronaca raggelante dei fatti, senza retorica. Con i lamenti delle moglie, dei figli e un grido prolungato e straziante. Cantarla significa ridare voce a quei lavoratori sfruttati, lottare con quelli che si battono per i propri diritti.
Povera gente è la storia maledetta di quei tanti disperati costretti a emigrare dal sud in cerca di lavoro. Prima a Torino, poi in Svizzera, in Germania, in Belgio dove si salta per aria allo scoppio di una mina durante i lavori in una galleria. Poveri emigranti che muoiono come mosche.
Versione live di Avola e di Povera gente:
Nel 1970 un’esibizione al Folkstudio con lo spettacolo “Carabiniere”, gli dà l’opportunità di affrontare di nuovo quel tema che gli appartiene e che gli appare di grande rilevanza sociale: la storia di una emigrazione forzata dal sud fino al riorno in paese, in Lucania.
Per la “Rassegna di musica popolare italiana” che si tiene al Folkstudio nel 1971 si presenta con lo spettacolo “Il Ballo di San Vito”, raccontando le tradizioni dei tarantolati delle Puglie, uomini e donne che, morsi dalla tarantola, si abbandonano a un trasgressivo e sfrenato Ballo di San Vito.
Qui con Vinicio Capossela.
La musica dei tarantolati domina anche nello spettacolo “Tarantata”, messo in scena al Teatro Instabile di Napoli nel 1972.
Nel 1975 esce l’album “I Tarantolati” (Fonit Cetra/Folkstudio) a nome di Antonio Infantino e il Gruppo di Tricarico, giovani del posto uniti dalla musica folk a cui Infantino assegna uno strumento da suonare, e li incoraggia a dare sfogo alla rabbia, alla ribellione e alla libera creatività: “Per lui – spiega De Stradis – questi giovani diventano una creazione poetica, una via di mezzo tra i ragazzi di borgata di Pasolini e degli spiriti liberi, o meglio degli spiritati” [De Stradis, W. p. 18]. Rappresentazione del mondo contadino di quel sud arretrato e ricco solo della sua storia. A cui intende con forza dare voce.
Tra i brani Cubba cubba, suonato con lo strumento musicale popolare tipico dell’Italia Meridionale, chiamato anche “putipù”, cupo cupo.
Nel 1976, sempre per la Fonit Cetra/Folkstudio esce il seguito dell’ultimo disco. Ha il titolo di “La Morte Bianca – Tarantata dell’Italsider”, firmato da Infantino e Il Gruppo di Tricarico. L’album è una rielaborazione dei temi popolari della Lucania, dei canti di carnevale, della raccolta delle olive, della mietitura, delle danze dei tarantati, della rabbia per le morti ingiuste nelle fabbriche. Suonati con strumenti poveri e il ritmo ossessivo della chitarra battente e delle percussioni.
“Con questa “Tarantata dell’Italsider” – spiegava Infantino in un’intervista su Ciao 2001 del 1977 – dico che la puntura del ragno che fa stare male è ormai nelle fabbriche, nel modo di organizzare la produzione e nei suoi ritmi che creano un profondo male dentro, che fanno andare in “trance” l’operaio, che è quell’operaio pendolare che parte la mattina a notte dal suo paese, si fa duecento chilometri al giorno per arrivare in fabbrica, all’Italsider, nella grande cattedrale nel deserto del nostro sottosviluppo. La stanchezza, i ritmi rodono dentro come la tarantola rodeva la gente nei campi. Ed ecco gli incidenti sul lavoro, le cosiddette morti bianche, inspiegabili ai padroni, ma così chiare per chi vive la realtà della fabbrica” [Infantino in De Stradis, W. p. 21].
Tra i brani c’è La gatta mammona, ripresa di un ritornello popolare che nella rielaborazione di Infantino assume un significato più ampio, di denuncia politica, di ricerca dei colpevoli dei mali e della povertà del Paese. Il tutto si riassume nella domanda: Chi fu? Di chi è la responsabilità?
In questi anni la sua protesta volta al rinnovamento sociale non si attua solo attraverso la musica, ma anche concretamente nei progetti di urbanizzazione realizzati in Brasile. La permanenza in questa terra, inoltre, gli consente di approfondire la musica tradizionale, il cui influsso è ben presente nella sua successiva produzione discografica. “Follie del Divino Spirito Santo” (1977, Fonit Cetra /Folkstudio, con i Tarantolati di Tricarico), risente, infatti, delle atmosfere musicali e culturali carioca.
Iatranta è una tarantella che fonde la ritualità paesana della Lucania con i riti della religiosità brasiliana del candomblè.
In altri brani come Indio o Colpo di sole, Infantino crea un parallelismo tra realtà lontane ma accomunate dalla medesima condizione di subalternità culturale e di emarginazione sociale.
Nel 1977 Infantino riceve il grande riconoscimento di esibirsi insieme al Gruppo dei Tarantolati al Festival Club Tenco ricevendo il Premio per la Canzone d’Autore. In quello sesso anno sconvolge il pubblico della “Tesoreria” di Torino dove allestisce uno spettacolo sorprendente: “Infantino – si racconta su Stampa Sera del 22 luglio – è sceso tra gli spettatori agitando un campanaccio; in centocinquanta, come a un richiamo, sono saliti sul palco, a torso nudo e si sono messi a ballare […]. Infantino non canta: scandisce filastrocche e frasi che inventa sul momento” [De Stradis, W. p. 22].
Lo spettacolo è un ballo al ritmo di strumenti poveri, costruiti con oggetti di scarto: bottiglie vuote, un asse per lavare, un secchio, un bastone, un elastico, pentole e padelle. Appassionato e geniale, Infantino dà vita a un’esibizione in cui la tradizione reinterpretata si avvia verso qualcosa di mai visto e sentito.
Nel 1978 pubblica “La Tarantola va in Brasile” (Poligram/Philips), disco registrato a San Paolo in Brasile, definito dai critici come un capolavoro di musica etnica o world, in cui i ritmi tribali lucani si mescolano a quelli indiavolati del samba brasiliano. La voce femminile è quella della famosa vocal Fafà De Belèm.
Il successo è tale che una famosa scuola di samba di San Paolo, nel 1980 lo nomina Coordinatore artistico. Un titolo e un incarico di grande rilevanza considerando quanto in quegli anni il Samba rappresentasse una realtà educativa e di riscatto sociale per generazioni di giovani ai margini.
“La Tarantola di Basilicata” è uno straordinario film documentario prodotto da Rai 3 che viene realizzato nel 1979 con la regia di Leandro Castellani.
Negli anni successivi continua la collaborazione con Dario Fo, per il quale realizza le musiche dello spettacolo “Arlecchino”, presentato alla Biennale di Venezia, e le scenografie per la messa in scena di “Juan Padan”. Scrive musiche per film, Rai 1 lo ospita nel 1898 nello speciale “Le maschere di Tricarico”, evento da lui ideato.
Partecipa a diversi eventi e conferenze sul Tarantismo e si esibisce attivamente in una lunga serie di concerti sia in Italia che all’estero (Festival Internazionale di Birmingham). Questi saranno raccolti nel disco “Tara ’n trance” (2004). Un disco incredibile dove l’incontro con la musica elettronica trasporta la tradizione verso un immaginario avveniristico e psichedelico. Così sperimentale da interessare il pubblico americano che porta il disco ai primi posti nelle hit parade.
Parte 1
La trasmissione “Tenera è la notte” di Rai 2 manda in onda nel 1995 uno speciale sulle diverse sue installazioni e i “Comportamenti poetici”. Nel 2000 lo spettacolo multimediale da lui creato, “Tara ’n trance” chiude il Carnevale di Venezia.
Festival e grandi eventi se lo contendono: il Carpino Folk Fest, lo Sponz Fest, il Concerto del Primo Maggio.
In tutto il mondo la sua musica risuona grazie all’ “Anthology of Taranta & Tarantella” (Deja-vu Retrò), monumentale raccolta di tutta la sua produzione.
Antonio Infantino è mancato a Firenze, il 30 gennaio 2018.
Probabilmente il più folle degli artisti di cui si possa raccontare, difficile fare paragoni. Perché Infantino è musicista, intellettuale, filosofo, poeta, cantante, architetto, urbanista, creatore di performance e installazioni inserite in mostre prestigiose. A lui si sono ispirati in tanti, da Eugenio Bennato a Peppe Barra, da Teresa De Sio a Giovanna Marini a Vinicio Capossela.
Inventore di una world music lucana che ha scaraventato nel mondo la cultura del tarantismo, la cultura di una terra abbandonata come la Basilicata, nella sua accezione più politica, di vicinanza agli umili e di riscatto sociale.
“Un narratore di sogni, un seminatore di idee e un realizzatore di pensiero”, così lo definisce Angela Marchisella, sindaco di Tricarico nell’ultimo saluto a Infantino con i suonatori di cupa cupa.
Pubblicato venerdì 30 Ottobre 2020
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