La parte restaurata della Caserma Piave di Palmanova divenuta Museo della Resistenza

Dei 543 partigiani imprigionati nella caserma Piave di Palmanova, in provincia di Udine, ne uscirono vivi solo 312. Tra l’autunno 1944 e l’aprile 1945 le sue pareti costituirono uno dei più importanti – e feroci – centri di repressione antipartigiana, istituito dai nazisti con lo scopo di debellare le attività della Resistenza della Bassa Friulana, situata nell’Adriatisches Küstenland, la Zona di operazioni Litorale adriatico, che sotto diretta amministrazione del Reich includeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, sottratte formalmente al controllo della RSI. Che restò comunque complice attiva di ogni efferatezza compiuta dai nazisti.

La Zona d’operazioni del Litorale adriatico

Perché Palmanova? Ce lo spiega Flavio Fabbroni, ricercatore storico e componente del Comitato Provinciale dell’Anpi di Udine, nell’ancora attualissimo Quaderno N.14 edito dal Comitato regionale dell’associazione dal titolo “La Caserma Piave di Palmanova”, con una ricostruzione dei fatti accurata e rigorosa supportata dai documenti stilati nel corso dei processi che nel dopoguerra giudicarono quei gravissimi reati commessi da sadici aguzzini esaltati, usando la violenza come mezzo di lotta politica.

“Siamo abituati a collegare la Resistenza alla montagna e così in generale viene rappresentata da fotografie, canzoni o rappresentazioni cinematografiche – scrive Fabbroni –. Ma la montagna in Italia e quella friulana in particolare non erano in grado neppure in tempo di pace di sostenere i loro abitanti, che dipendevano dagli scambi con la pianura e in particolare dall’emigrazione. Figuriamoci in guerra, con l’emigrazione interrotta e gli scambi sempre più difficoltosi e con le migliaia di giovani che si erano dati alla macchia tra colline e montagne”.

“Civili rastrellati e brutalmente interrogati in una cascina”, quadro a tempera di Angiolino Filiputti, il cosiddetto “cantastorie per immagini” della seconda guerra mondiale, della Resistenza, e dei fatti avvenuti nella Bassa Friulana

Per sopravvivere, ogni formazione partigiana aveva quindi bisogno dei servizi della intendenza, una rete di decine di comitati di zona che assicuravano armi e viveri alle brigate di montagna, con raccolte di ingenti somme di denaro arrivate anche quegli industriali che sposavano la causa della Resistenza. Il trasporto dei rifornimenti veniva scortato da squadre di gappisti che ne garantivano la consegna.

Il centro di repressione antipartigiana di Palmanova aveva pertanto lo scopo primario di distruggere la rete di sostegno, colpendo il movimento di Liberazione nei suoi punti nevralgici. Questo avvenne in due modi: mediante lo spionaggio di fascisti travestiti da partigiani, che avrebbe permesso azioni dirette e rastrellamenti. E soprattutto attraverso “torture raccapriccianti inferte con feroci percosse date su ogni parte del corpo servendosi dei più svariati mezzi come bastoni, spranghe di ferro, cinghie, nervi di bue, filo di ferro spinato, scarpe chiodate, pugni ricoperti di guanti ferrati, ustioni prodotte da sigarette accese, tizzoni ardenti, polvere pirica, conficcamento di aghi sotto le unghie (…), cagionando mediante fucilazione, impiccagione o in altro modo la morte”, come precisa la sentenza  del 5 ottobre 1946 della Corte speciale d’Assise di Udine,  riportata nel Quaderno.

Angiolino Filiputti, torture nella caserma Piave di Palmanova

La sevizia più comune consisteva nel legare i polsi della vittima, di solito nuda, con una corda, dopo averle fatto mettere le mani dietro la schiena e sospenderla con la stessa corda a un grosso gancio infisso nel muro, lasciandola lì per ore, spesso percuotendola e gettandole addosso secchi di acqua gelida o bollente. Un supplizio che provocava la slogatura delle spalle e spesso anche la perdita di lucidità.

A questo si aggiungeva la somministrazione di bevande salate o di urina e la famigerata “morte per tentata fuga”, formula ipocrita per mascherare l’esito di sevizie fatali o l’eliminazione dopo l’interrogatorio. Ne risultano 113.

Nella zona della Bassa Friulana operavano due intendenze: la Osoppo – di estrazione cattolica, che il 4 settembre 1944 si costituì in Brigata – e la Montes dal nome di battaglia del comandante Silvio Marcuzzi, che emergeva per capacità organizzativa e dimensioni, la più grande del suo genere nel Nord Italia.

La prima non sopravviverà all’arresto del comandante Eugenio Morra e del collaboratore Carlo Dessì, nel novembre 1944. All’interno della caserma di Palmanova – formalmente sottoposta all’autorità tedesca ma organizzata e guidata di fatto da militari fascisti – i due combattenti, a differenza degli altri, saranno trattati con rispetto e trasferiti nelle carceri di Udine. “La polizia tedesca del carcere, però, la pensava diversamente, e i due comandanti, come molti altri trasferiti da Palmanova, furono deportati in Germania”, chiosa lo storico.

Filiputti, “Morte di Montes”

La seconda formazione, invece, continuerà a operare, benché privata del suo capo, per cui fu prevista una sorte diversa e altrettanto feroce. Silvio Marcuzzi Montes, Medaglia d’Oro della Resistenza, viene arrestato in seguito alle informazioni ottenute da un giovane partigiano sotto tortura nelle cosiddette celle del paradiso, come le chiamavano. Marcuzzi morirà dopo tre giorni di continui supplizi senza lasciarsi sfuggire una sola informazione. Quanto fu crudelmente torturato ce lo fa capire la testimonianza di un altro partigiano riportata nel testo, che dà voce a quanti videro e sopravvissero: “Da dove mi trovavo sentivo Montes urlare come i cani, chiamava nomi strani e cantava. Poi fu la sua fine perché non lo udii più”.

Perché alle due intendenze fu riservata una disparità di trattamento così marcata? “Il comportamento dei nazifascisti di Palmanova fu estremamente duro nei confronti dei partigiani comunisti come i garibaldini della Montes e i gappisti in generale per precise ragioni – spiega Fabbroni nel Quaderno –. Per l’anticomunismo che era nel dna sia del nazismo che del fascismo e anche per la speranza presente in molti repubblichini che ci potesse essere sul finire della guerra un’alleanza tra fascisti e partigiani moderati in funzione anticomunista e antislava per la difesa del confine orientale”.

Tra i personaggi chiave di queste atroci vicende – che l’autore elenca uno per uno, riportando le deposizioni dei crimini da loro commessi – è Odorico Borsatti, al comando di un gruppo a cavallo di SS volontarie italiane e tedesche che aderì in toto all’ideologia nazifascista, “al concetto di superiorità della razza eletta, al disprezzo degli avversari, sottouomini che non meritavano di vivere” scrive Fabbroni. Sarà Borsatti ad arrestare Montes e sarà lui a catturare uno dei partigiani friulani più ricercati, il comandante Gap di battaglione Ilario Tonelli Martelli, che, per sua fortuna, sarà subito trasferito nelle carceri di Udine dalla polizia tedesca, “irritata per come Borsatti aveva gestito la sorte di Montes che avrebbero voluto interrogare”.

Martelli verrà liberato dalle carceri di Udine nel corso della leggendaria azione messa a segno dalla formazione gappista dei Diavoli Rossi di Gelindo Citossi il Mancino.  Tra le mura di Palmanova verrà torturato anche un componente dei Diavoli Rossi: Antonio Fedrigo Lampo, arrestato, seviziato e fucilato dai tedeschi per rappresaglia il 22 marzo 1945, in via Pradati a Cervignano, insieme ad altri tre partigiani; Idilio Cappelletto, di Chiarano (TV) ma residente a Monfalcone; Derno Paravano Milo di Torsa di Pocenia e al milanese Giorgio De Santi Milan.

Odorico Borsatti verrà arrestato nel 1945 come prigioniero di guerra, affidato ai carabinieri e messo a disposizione del Cnl provinciale che aveva dato vita al Tribunale del Popolo.

Imputati per le violenze alla caserma Piave di Palmanova

Verrà condannato alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena per aver prestato servizio allo Stato germanico in guerra contro quello italiano e per l’omicidio di quattro persone, tra cui Silvio Marcuzzi Montes.

Filiputti, rastrellati portati alla caserma di Palmanova

“La Caserma Piave di Palmanova” racconta ancora dei saccheggi, delle altre bande che seguirono Borsatti, dei processi del dopoguerra, della ricerca dei cadaveri che le famiglie chiedevano per dare loro degna sepoltura, in una densa e allo stesso tempo agevole narrazione, divenendo “una testimonianza che abbina memoria a cultura storica non solo per noi ma soprattutto per i giovani verso i quali abbiamo un debito di precisa informazione affinché comprendano il valore partigiano della storia d’Italia” scriveva nella prefazione il compianto Federico Vincenti (Udine 1922-Udine, Croce di Guerra al Valor Militare) allora presidente del Comitato regionale Anpi.

Quella stessa memoria che oggi viene coltivata in quella caserma divenuta Museo della Resistenza, dove trovarono la morte uomini liberi e generosi e dove si coltiva la coscienza delle origini della democrazia.