Fanno bene le riviste di memorialistica locale e nazionale ad occuparsi di personaggi che hanno dato spessore a quel periodo di vita rappresentato dalla Resistenza italiana. Infatti la memorialistica come “voce che giunge dal passato” merita attenzione e rispetto. Partendo da questi presupposti non poteva non mancare, il profilo del partigiano/finanziare Dario Porcheddu (Cabras 1922/Cagliari 2009). Fortunatamente anche Dario Porcheddu ci ha lasciato una traccia del suo percorso umano e politico, con una significativa opera autobiografica dal significativo titolo “Ho baciato la morte (Diario di un partigiano)”, a cura dell’Unione Autonoma dei Partigiani Sardi, 2004 (la seconda edizione è del 2016, a cura di Franco Boi, Ed. Tema).
All’età di vent’anni Dario Porcheddu veniva arruolato nel Corpo della Guardia di Finanza. La prima destinazione era la città di Roma. Il primo distaccamento militare la caserma “21 Aprile”. Dopo un periodo di addestramento veniva inviato a Trieste e poi successivamente a Susak e Gornji Jelenj. Quest’ultima località si trovava ad una ventina di chilometri da Lubiana. Le prime impressioni di Dario Porcheddu sull’ambiente e le consuetudini della popolazione locale erano indirizzate al fattore climatico, che in certi periodi dell’anno raggiungeva anche venti gradi sottozero. Una situazione irreale per un sardo abituato a un clima mite e soleggiato. Le prime missioni alle quali il finanziere sardo fu destinato erano le perlustrazioni in servizio anticontrabbando e in attività di presidio militare. Infatti la zona “era infestata” dai ribelli che spesso attaccavano il presidio della Guardia di Finanza. La vita militare per Dario “(…) diventava sempre più dura, tagliati fuori com’eravamo dal resto del mondo, senza rifornimenti precisi e senza un minimo di serenità (…)”.
Dopo questa lunga sosta in terra straniera. Iniziava la sua “scorribanda” in varie località dell’ex Jugoslavia. Dario Porcheddu, alla fine, dopo un drammatico e pericoloso viaggio in treno, arrivava in Serbia a Vicegrad, poi a Belgrado e in Montenegro. La destinazione finale era Bijelo Polje, o meglio la caserma che stava al centro della città. Anche in questo contesto strategico-militare erano frequenti le guardie armate e le ispezioni che ogni buon militare della Guardia di Finanza doveva necessariamente svolgere in servizio. Porcheddu, per meglio inserirsi nella realtà della cultura locale decideva di imparare la lingua slava, che gli permise di avere rapporti sociali ed umani con la popolazione del posto, cosa della quale era estremamente orgoglioso e fiero.
Il 25 luglio 1943 cadde il fascismo. A questo proposito scrive: “(…) quello che più contava però era la dissoluzione di un regime che, venuto dal nulla, nel nulla si era disciolto: si viveva nell’attesa del nuovo, con tutte le speranze e i turbamenti che la cosa comportava (…)”.
Verso la fine di luglio Radio Jugoslavia inviava costantemente agli italiani appelli ad aiutare i partigiani slavi nella lotta contro il nazifascismo. Gli eventi politici maturavano. Dai microfoni dell’EIAR venivano trasmessi appelli e notizie sulla progressiva involuzione della situazione politica nazionale. Iniziava il caos militare, sociale, politico e istituzionale. La situazione degenerava. Nella confusione veniva comunicato che tutti i militari della Guardia di Finanza e i carabinieri di stanza in Montenegro dovevano raggiungere Berane. La roccaforte della Resistenza italiana in Jugoslavia diventava così Berane, in Montenegro. La stragrande maggioranza degli italiani non accettava le condizioni imposte dai nazifascisti. Numerosi e violenti i combattimenti, che avevano come protagonisti i finanzieri italiani contro le truppe etniche jugoslave fiancheggiatrici dei nazifascisti. Nel frattempo i tedeschi invadevano il Montenegro. La battaglia continuava “fino alla vittoria finale”. I soldati italiani venivano indirizzati al fronte altrimenti, in caso di un loro diniego, venivano inviati nei campi di concentramento in Polonia. Scrive Porcheddu “(…) Era il momento delle grandi scelte, in un solo giorno bisognava decidere da che parte stare (…)”. La scelta ponderata del finanziere sardo fu quella di unirsi ai partigiani slavi. Una scelta di vita. Da questo frangente iniziano le sue peripezie.
Il giorno di Pasqua del 1944 Dario Porcheddu vide “la morte in faccia”. Infatti, catturato dai nazisti, veniva portato in una forra, assieme ad un gruppo di suoi compagni per la fucilazione. Ma sopravviveva miracolosamente perché, dopo la scarica del plotone di esecuzione, caduto in mezzo ai corpi dei compagni, veniva creduto morto. Scrive a questo riguardo Porcheddu nelle sua autobiografia “(…) Forse fu il terrore a costringermi all’immobilità, forse un istinto di sopravvivenza, restai però come un morto non so quanto tempo intuendo che solo in quel modo avrei potuto farla franca (…)”.
Il sardo continuava a combattere fino al 1945. Il rientro in Italia avveniva nel 1946.
Carattere tenace ed irriducibile: questa dote caratteriale, supportata da una forza morale e civile e da una rigorosa militanza antifascista, diventava la premessa per la costituzione dell’Unione Autonoma Partigiani Sardi (UAPS). Eravamo nel 1960. Questa nobile organizzazione unitaria raccoglieva (e raccoglie) i partigiani, ex combattenti ed ex prigionieri sardi che hanno partecipato alla guerra di Liberazione in Italia e all’estero. Dario Porcheddu per decenni è stato un valente e saggio Presidente regionale e nella sua lunga attività politica e culturale è stato anche l’organizzatore e guida del “Comitato 25 Aprile” ovvero una associazione unitaria della quale fanno parte una dozzina di associazioni democratiche e antifasciste.
Di lui è necessario ricordare le tante presenze nelle scuole, nelle quali teneva appassionate lezioni di storia contemporanea agli studenti di ogni ordine e grado, soffermandosi sui valori della libertà, della pace e dell’impegno militante antifascista. A tal riguardo affermava “i giovani si sappiano rendere degni di questa libertà: questa libertà non ci è stata recata in dono, ma è stata conquistata con tante sofferenze, con enormi sacrifici, con un terribile contributo di sangue”.
Dopo la morte di Dario Porcheddu la Presidenza è stata affidata a Franco Boi, apprezzato dirigente e organizzatore politico e culturale.
Dario Porcheddu oltre alla sua autobiografia, ha pubblicato: I sardi nella Resistenza, 1997 (questo volume ha anche una versione in “limba sarda” dal titolo Sos sardos in Sa Resistenzia, 2001); L’8 settembre 1943, maggio 2007, ed altri ancora.
Dario Porcheddu nella sua lunga vita ha fatto esperienze fondamentali, aveva speranze e certezze per un mondo migliore, quello che lui ardentemente voleva ed auspicava. È stato un combattente fino alla fine. Sarebbe auspicabile che la città di Cagliari, per ricordarlo degnamente e pubblicamente, inserisse il suo nome nella toponomastica cittadina. Forse chiediamo troppo?
Maurizio Orrù, giornalista, Segretario regionale ANPPIA Sardegna
Pubblicato mercoledì 8 Marzo 2017
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