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La mia periferia non ha filtri Instagram adatti. La mia periferia non è chic, l’area in questione è stretta tra sterpaglie e quartieri dormitorio ma “concepiti all’inglese con i mattoncini”. La città è una brutta persona, non ti dà confidenza, non ti invita ad entrare eppure non ti giudica.

Roma ti lascia lì al sole, con alberi fioriti dai colori lilla e bianchi e un silenzio innaturale.

Anche a Roma est parchi chiusi per emergenza coronavirus (Foto Imagoeconomica)

Ha un respiro lieve e il cinguettio di pappagalli verdi venuti da chissà dove, e le cornacchie e i piccioni che si posano sui cornicioni come cecchini. Il profumo non c’è ma nemmeno la puzza è più quella conosciuta.

Più pulita di sempre Roma, non c’è più traffico ed è facile dai balconi – senza neppure un drone con immagini in hd – mappare i crateri e le buche che ci sono sempre stati (almeno da quattro giunte capitoline a questa parte) ma ora paiono scenografie dismesse di un tempo andato.

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A Roma est la vita scorre tranquilla, il piccolo parco prospiciente il mercato coperto ha i sigilli della polizia municipale. Renatino, l’ex tossico del quartiere, gira con due dobermann al guinzaglio, con la museruola (lui e i cagnoni) e dice alla signora Adele affacciata dal balcone che lui “ha l’autocertificazione per uscire”.

Più avanti, alla rotatoria che immette su una delle strade principali dell’urbe, si scorge la prima fila dal tabaccaio e poi quella “dar bengalino” che vende frutta e verdura. La fila è disciplinata e intanto da lontano arriva una sorta di ululato ma sono le dieci del mattino e sembra tutto uno scherzo.

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Dopo la fila di persone al piccolo supermercato di quartiere, accanto alla farmacia, ecco Ahmed che prima vendeva accendini e cianfrusaglie e ora tende la mano e basta. Ha la mascherina ma dietro quel piccolo filtro di un verde leggero sorride, lo si vede dagli occhi. Un sorriso bonario: ha trovato posto al sole e aspetta. Un lunedì al sole come tanti altri anche per un’altra giovane donna che chiede abitualmente qualcosa all’ingresso del mercato. Ora mangia e si guarda intorno, con la mascherina abbassata.

Non so nulla delle loro vite, ma li incontro spesso. I loro volti mi restano impressi, sono le anime silenziose del quartiere, un impasto visuale di film neorealisti ma con i colori e la giovinezza, anche se con i segni sul volto delle lunghe ore al sole o al freddo.

A Roma erano, e sono ancora, moltissimi i negozi alimentari di prossimità gestiti da cittadini stranieri. In passato, spesso sono stati obiettivo di blitz razzisti (da https://st.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2017/10/ED-img11595921-1-675×275.jpg)

Ci sono molti anziani, chi da solo va a comprare qualcosa e fa quattro chiacchiere con Iqbal che Cesarone, “er vecchio fascista di zona”, ha ribattezzato Ciro. Cesarone va spesso a fare spesa da Iqbal e prima della pandemia – con altri signori della stessa età nel lunghi pomeriggi estivi o primaverili – beveva una birra in piedi, portandosi i bicchieri da casa. C’è stato il momento, molti anni fa, che parlava male dei romeni. Ora, dall’orazione rivolta a un interlocutore al piano alto di un palazzo, Cesarone dice che la colpa di tutto è dei cinesi, lui l’ha sempre sostenuto: “ci hanno infettati tutti, certo che mo’ ce regalano le mascherine”. “Ma il problema vero è la borsa nera, come na’ vorta – continua Cesarone – perché ce’ stanno i fagiolini a otto euro, se ne stann’a approfittà”, fine dell’arringa. Poi un po’ sconsolato dice che sarà lunga e se ne ritorna a casa.

Roma, mercato rionale (foto Imagoeconomica)

All’interno del mercato, il solito banco di frutta e verdura gestito da italiani questa volta è in mano al loro garzone-aiutante straniero, anche lui bengalese, dai modi gentili e con un ottimo italiano, che in tempi di quarantena fa il lavoro tutto da solo e appena chiude le serrande, mi dice, si deve occupare anche delle consegne ai loro clienti più fragili e soli, tappati in casa da settimane. Poi quando finisce tutto, nel tardo pomeriggio, lo vedi in attesa di un autobus per rincasare, di quelli che vanno verso altre estreme periferie della Capitale.

Anche il meccanico storico di quartiere tiene aperta l’officina ma lui non si vede più, gestisce tutto il suo alter ego straniero. Parla a due metri di distanza con i clienti e poi con l’aria seria apre il cofano della prima auto e scompare dietro al pezzo di carrozzeria che riflette il suo blu luminoso al sole.

Roma est. Palazzo Selam dove vivono circa 600 rifugiati e dove qualche giorno fa si è recato l’elemosiniere del Papa, padre Konrad Krajeski. Purtroppo anche lì è arrivato il coronavirus e si teme per la salute di tutti gli ospiti (foto Imagoeconomica)

Qualche auto passa in lontananza mentre nella suddetta via con i crateri continua il suo abituale giro un ragazzo in bicicletta con una cassettina gialla di plastica attaccata con una fune al retro del sellino. In mano ha un uncino e inizia in silenzio la sua quotidiana perlustrazione dei cassonetti. Lui non ha la mascherina.

Nessuno soffre come i poveri, diceva Bukowski. Sarebbe utile ricordarcelo tra qualche tempo, finita la quarantena.

Antonella De Biasi, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)