Sette ragazzi, cinque brevi racconti e una necessità: esercitare attivamente la memoria democratica. Questo è l’obiettivo del testo proposto in occasione della Settimana della Memoria, organizzata dall’Istituto comprensivo “Berardi Nitti” di Melfi (PZ). Un testo scritto da Giulio Francesco Festa, che compare anche tra gli interpreti; una pièce che racchiude la forza della testimonianza e la straordinarietà di molte storie quotidiane. Perché non è possibile ascrivere il dovere civico a una specifica data, ma è indispensabile impegnarsi, giorno dopo giorno, per mantenere vive le testimonianze e i valori fondativi della democrazia. Pubblichiamo, di seguito, l’introduzione di Anna Martino, presidente della sezione Anpi di Melfi e il testo integrale scritto da Giulio Francesco Festa.
Anna Martino – presidente sezione Anpi di Melfi
L’Istituto comprensivo “Berardi Nitti” a indirizzo musicale di Melfi da anni celebra la Settimana della Memoria. Si tratta di un appuntamento atteso e importante, di carattere storico e soprattutto civico. Gli alunni di questo istituto hanno avuto il privilegio, nel corso degli anni, di ascoltare le voci di alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento. Sono stati presenti ai toccanti racconti di Piero Terracina, Enrico Modigliani, Lello Dell’Ariccia. Hanno partecipato a importanti incontri con studiosi di storia contemporanea come il professore Fabrizio Nocera e Michele Strazza. Hanno avuto il privilegio di ascoltare alcune delle musiche scritte nei campi di concentramento, recuperate ed eseguite, nell’auditorium della scuola, dal maestro Francesco Lotoro che, da 32 anni, cerca incessantemente in tutto il mondo la musica composta all’interno dei luoghi di detenzione per deportati e sterminio. Lo stesso privilegio è stato offerto anche agli alunni degli istituti d’istruzione superiore di Melfi, replicando gli incontri nell’aula consiliare del Comune. Questi appuntamenti, sottolinea la dirigente scolastica, dott.ssa Maria Filomena Guidi, seguono un preciso Percorso della Memoria, che partono dagli incontri con i sopravvissuti, seguono letture guidate, ascolti di musiche, visione di filmati, per giungere anche a viaggi d’istruzione nei luoghi dove ci sono tracce, mausolei e cimeli che ricordano le vittime dell’eccidio, come le Fosse Ardeatine e il museo di via Tasso a Roma. Anche quest’anno il Giorno della Memoria, celebrato e organizzato dall’I.C. “Berardi Nitti” di Melfi, ha visto la partecipazione della locale sezione Anpi.
“Sconfessate la menzogna. Diventate candele della Memoria” – sono le parole della senatrice Liliana Segre, richiamate ai ragazzi per offrire, come docente e presidente della sezione Anpi di Melfi, il mio contributo sull’importanza di far conoscere ai ragazzi la memoria, anche quella che parla di dolore e di distruzione. Conoscenza che ci deve aiutare a discernere e ad arginare atteggiamenti di intolleranza di cui oggi siamo troppo spesso spettatori. Toccante e fortemente educativa è stato l’incontro con Gianni Polgar, sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. La testimonianza è stata preceduta dalla lettura di un emozionante racconto scritto proprio dallo studente Giulio Festa e interpretato insieme ai coetanei Elisa Araneo, Rachele Fundone, Armando Mastromartino, Alice Nuccitelli, Wanda Savella e Mariangela Antoniello, tutti iscritti alla locale sezione Anpi.
Un ragazzo, una ragazza, un Giusto, una mamma e un tranviere sono le storie raccontate, non solo dai sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche da uomini e donne coraggiosi che hanno rischiato la propria vita per mettere in salvo quella altrui. Alcune si intrecciano a partire da quel tragico 16 ottobre 1943, data della deportazione degli ebrei romani.
A conclusione della giornata commemorativa, la dirigente scolastica Guidi ha sottolineato l’importanza della consolidata collaborazione tra l’Istituzione scolastica e l’Anpi, ricordando l’apprezzabile lavoro svolto sul territorio e nella comunità, sottolineandone l’importante il ruolo nella formazione delle nuove generazioni, affinché i ragazzi di oggi siano i “custodi della memoria” nel futuro e possano mantenere vivo lo spirito del 27 gennaio, uno degli appuntamenti più importanti nel tessuto sociale della comunità.
Anna Martino – presidente sezione Anpi di Melfi
Le storie della memoria
Cinque racconti in forma di dialogo
di Giulio Francesco Festa
Protagonisti
Narratore, Alice Nuccitelli
Il ragazzo (Piero Terracina) Giulio Francesco Festa
La ragazza (Settimia Spizzichino) Wanda Savella
Il Giusto (Ferdinando Natoni) Armando Mastromartino
La Mamma (donna ignota – Mario Mieli) Elisa Araneo
Il tramviere (ignoto – Emanuele Di Porto) Mariangela Antoniello
Narratore conclusivo Rachele Fundone
NARRATORE: È il 16 ottobre del ’43, il sole non è ancora sorto. Fuori comincia a fare freddo, ma tutto sembra tranquillo. Finalmente il caos delle scorse settimane sembra essere svanito, poco più in là il ghetto sembra tornato alla normalità. Qualche settimana fa, degli uomini in uniforme hanno bussato alle porte dei miei amici che abitano nel ghetto. Temevo che avessero scoperto le nostre malefatte e che volessero punirci. Mamma e papà hanno cominciato a cercare tutti gli oggetti di valore che avevamo in casa. Li ho visti uscire con una piccola valigia: dentro c’erano tanti piccoli oggetti, perfino l’anello che papà le aveva regalato. Io non capivo, ma avevo percepito che qualcosa di brutto stava accadendo. Pochi giorni dopo, la mamma sembrava più tranquilla ed io sarei potuto tornare a giocare con i miei vicini di casa – in segreto però – ai bambini con la “stella gialla” è proibito giocare. Tutto ad un tratto, nel silenzio dell’alba, sento dei rumori assordanti provenire dal ghetto. Mi alzo in fretta dal letto, corro verso la finestra e vedo gli stessi uomini in uniforme. Solo che questa volta, sono molti di più. È ancora presto, ma siamo tutti svegli: nel ghetto c’è una gran confusione, gente che corre dappertutto. Nella folla intravedo anche qualcuno dei miei amici con la stella gialla – non riuscivo a capire cosa stesse accadendo, ma in cuor mio sapevo che non avrei più rivisto molti dei miei amici. Ma voglio che anche voi ascoltiate le loro storie, affinché, tramite le parole di un ragazzo, di una ragazza, di un Giusto, di una mamma e di un tranviere, possiate anche voi comprendere la tragedia iniziata quel 16 ottobre del ’43.
IL RAGAZZO: quel giorno fu l’inizio di un viaggio senza ritorno per me ed i miei 7 familiari. Tenevo per mano mia sorella mentre mio padre cercava di capire cosa stesse per accaderci. Di sicuro nessuno immaginava che quella sarebbe stata l’ultima volta qui a Roma. Per tutti loro, tranne me. Ci caricarono su delle camionette e ci abbandonarono in cella. Noi, dei ragazzini innocenti in carcere. Pochi giorni dopo ci portarono in stazione: nella confusione, i soldati tedeschi ci fecero salire su dei carri bestiame a suon di manganellate. Fu un viaggio interminabile verso un luogo senza nome. Senza acqua né cibo, senza null’altro se non noi stessi. Quando le porte furono riaperte, sprofondammo di nuovo nel caos. Ci divisero in due grandi file, gli uomini separati con la forza dalle donne, gli anziani sempre più deboli ed i bambini confusi. Fu l’ultima volta che vidi la mia famiglia. Restai ad Auschwitz fino al 27 gennaio del 1945, sperando di rivedere i miei cari. Ma se n’erano andati da innocenti, portati via dal vento e dalla barbarie di uomini senz’anima.
LA RAGAZZA: ci avevano colte di sorpresa, eravamo del tutto impreparate… Ma come si può essere pronti quando il terrore bussa alla porta? Non capimmo molto, comprendemmo solo che il tempo era poco e che bisognava sbrigarsi. Io, mia mamma, le mie sorelle, la mia nipotina. Quattro donne e una bambina portate via nel buio della notte. Ci condussero in una cella fredda, con tante altre persone. Pochi giorni dopo ci stiparono su dei vagoni, senza spazio per respirare o sedersi. Il viaggio fu estenuante. Dopo diversi giorni in treno, da una piccola feritoia intravvidi una scritta: Auschwitz. Chi mai ne aveva sentito parlare? Chi poteva pensare di trovarsi a migliaia di chilometri da casa? Anch’io fui messa in fila. Eravamo molte, ma soltanto a 47 donne fu concesso di vivere un giorno in più. Tra queste, vi ero anch’io. Il resto della mia famiglia non c’era più, fui l’unica a salvarsi dalle camere a gas. Sono rimasta ad Auschwitz fino al 1945. Ho visto le mie compagne venire e andare, come fossero pezzi di un puzzle che veniva composto e scomposto a piacimento dei carnefici. Ho creduto che la terra fosse cioccolata, ho assaporato un filo d’erba come si fa con la migliore delle delizie. Mi sono aggrappata alla vita, l’ho fatto per quelle donne che, invece, erano ora sparse nel vento. E per questo sono tornata: l’unica sopravvissuta tra quelle donne partite assieme a me.
IL GIUSTO: Mi chiamo Ferdinando ed ero un convinto fascista. Il 16 ottobre 1943 mi trovavo a casa quando, verso le 6 del mattino, i nazisti bussarono alla porta del nostro stabile e cominciarono a setacciare il palazzo. Io, svegliato dalle urla, aprii la porta di casa e mi ritrovai davanti Mirella e Marina, le figlie del Limentani, un ebreo del piano di sopra. I Limentani non mi erano mai stati simpatici, sapevo, però, che i nazisti fossero lì per loro. Ero fascista, un fascista convinto, ma non potevo lasciar sole quelle due ragazze. Le feci entrare e le nascosi nella camera dei miei figli. I nazisti bussarono anche alla mia porta e, nonostante fossi in uniforme anch’io, non mi credettero. Fu così che, nella speranza di salvare quelle due giovani donne, inscenai una protesta a voce alta. I tedeschi mi portarono via, ma lasciarono lì le due giovani. Poche ore dopo, Mirella e Marina riuscirono a nascondersi assieme ai loro genitori e a scampare al rastrellamento. La famiglia Limentani, dopo la fine della guerra, ogni 16 ottobre, veniva nella mia casa per portarmi un pacco pieno di doni, in memoria di quel gesto che li aveva salvati da morte certa. Era il 1994, e da fascista, grazie alla segnalazione di Mirella, divenni un giusto tra le nazioni, l’onorificenza concessa dallo Yad Vashem a chi ha salvato la vita agli ebrei durante la Shoah. Io, che portavo con orgoglio la camicia nera, non mi ero da subito reso conto della barbarie di quegli uomini. Quelle due giovani ragazze erano ora due donne anziane, scampate alla morte grazie a me che, per la prima volta, avevo fatto la cosa giusta.
LA MAMMA: Ero uscita presto, la mattina del 16 ottobre. Ero andata al mercato ma al ritorno avevo deciso di accorciare il tragitto, avevo comprato davvero molta roba. Stavo per attraversare il ghetto, quando notai una confusione incredibile. Rimasi scioccata da quello spettacolo dell’orrore. Nella folla intravvidi un giovane uomo che teneva in braccio un bellissimo bambino. Stava per salire sulla camionetta dei tedeschi e stavo per perderlo di vista quando, all’improvviso, un’altra donna mi afferrò e mi sussurrò velocemente: “Sono ebrea, non posso avvicinarmi ai soldati, ma se riesci a prendere quel neonato, me ne prenderò cura io. Sono sua zia”. Mi avvicinai di corsa alla camionetta e cercai in tutti i modi di convincere i tedeschi che quel bambino fosse mio figlio. Non so come, non so perché, ma mi credettero. Presi in braccio quel neonato e mi allontanai in fretta. Non ero sua madre, ma, proprio come fa una madre, avevo donato la vita a quel bambino. Lo avevo sottratto a morte certa. Lo consegnai alla donna che diceva di essere sua zia e scappai. Di me non si seppe mai nulla, nemmeno il nome. E quel bambino, sopravvissuto agli orrori della guerra, non mi trovò mai, ma grazie a me trovò la vita.
IL TRANVIERE: come ogni mattina mi trovavo a bordo del tram su cui lavoravo. Roma non era più la stessa ormai: c’erano soldati tedeschi ovunque. Quella mattina, proprio mentre accendevamo il motore, mi resi conto che a bordo, steso sui sedili posteriori, vi era un bambino. Era ancora in pigiama e tremava dal freddo e dalla paura. Lo scossi leggermente per svegliarlo e il suo sguardo fu subito pieno di terrore. Pensava che fossi un tedesco, pensava che volessi portarlo via. Dopo essersi tranquillizzato, mi raccontò cosa aveva vissuto poco prima. All’alba sua mamma lo aveva svegliato a causa dei rumori provenienti dalla piazza del ghetto. Era convinta che i tedeschi fossero lì per portare via gli uomini ed era corsa in strada a cercare suo marito. Aveva ordinato al bambino di restare in casa, ma poco dopo, il bambino, spaventato, aveva cercato di raggiungere sua madre ed era stato catturato assieme a lei. Fu così che la mamma, mentre transitavano in piazza Monte Savello, in un ultimo gesto disperato, spinse il bambino dalla camionetta. Il bambino aveva iniziato a correre e si era rifugiato nel mio tram. Da quel giorno iniziammo a prenderci cura di lui. Fu una staffetta di solidarietà tra me e i miei colleghi a tenere in salvo il bambino per le prime settimane. Viaggiava con noi, gli davamo del cibo e dei vestiti, nessuno lo notava. Fu grazie a questo lungo viaggio in tram che ebbe salva la vita.
CONCLUSIONE: il ragazzo, la ragazza, il giusto, la mamma e il tranviere non sono personaggi di fantasia. Le loro storie sono tristemente intrecciate a partire da quel 16 ottobre 1943, data della deportazione degli ebrei romani verso il campo di sterminio di Auschwitz. Il ragazzo, Piero Terracina, sopravvisse agli orrori del campo e fu l’unico della sua famiglia a fare ritorno a Roma. Piero si è spento nel 2019, dopo aver dedicato la sua intera vita alla memoria dell’olocausto. La ragazza è Settimia Spizzichino, ebrea romana, unica donna di quel convoglio partito da Roma a essere tornata viva. Ha dedicato la sua vita alla memoria delle sue compagne di prigionia e ai giorni spesi ad Auschwitz. Si è spenta nel 2000. Il Giusto è Ferdinando Natoni. Appartenente alla milizia fascista, il giovane Ferdinando non esitò a salvare la vita dei propri vicini di casa, mettendo a rischio la sua stessa vita e quella dei propri familiari. Riconosciuto Giusto tra le nazioni, Ferdinando si è spento nel 2000. Della mamma non si seppe mai il nome, ma il sopravvissuto Mario Mieli l’ha cercata per anni, senza mai trovarla. Grazie a quella donna misteriosa, passata di lì per caso, il piccolo Mario è sopravvissuto. Anche il nome del tranviere è ignoto, ma la storia è quella di Emanuele Di Porto, scampato alla deportazione grazie alla lucidità di sua madre, morta ad Auschwitz a soli 37 anni, e alla solidarietà dei tranvieri romani. Queste cinque storie ci ricordano come, anche nell’orrore dell’Olocausto, c’è chi ha avuto il coraggio di ergersi a difesa dei più deboli, c’è chi è sopravvissuto grazie alla propria forza d’animo, c’è chi è tornato a casa per raccontare la storia delle proprie compagne di prigionia, affinché mai si dimentichi ciò che è stato. Oggi ricordiamo i milioni di vite spezzate, le voci perse nel vento, i sorrisi svaniti e i destini infranti. Oggi ricordiamo, affinché ciò che è stato non sia più. Perché chi dimentica il passato, è destinato a ripeterlo.
Giulio Francesco Festa
Pubblicato lunedì 15 Febbraio 2021
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