Il Quirinale (Imagoeconomica)

È tornato il tempo del calendario civile che, dal 17 marzo dell’Unità italiana al 25 aprile della Liberazione, al 2 giugno della nascita della Repubblica, segna i tre capitoli fondamentali della narrazione di questo Paese.

Almeno così credevamo. Il momento solenne in cui termina quest’arco temporale è il 2 giugno, l’inizio del processo democratico; ma la Costituzione, garanzia della sicurezza collettiva dei diritti, era nata in un’Italia segnata da fratture. Poi contrasti civili, abrasioni e ipertrofie di aspetti del passato, il tramonto di ideologie e miti nella biografia della nazione hanno reso la nostra storia un insieme di segmenti sparsi in cui l’identità collettiva può sparire.

Anche la Resistenza non era stata un blocco omogeneo e, come ricordava Claudio Pavone, “non tutti gli antifascisti erano socialmente proletari, né tutti erano ideologicamente disposti a far coincidere fascismo e oppressione di classe, ma il fascismo era un fenomeno globale che andava combattuto anche se non se ne riconoscevano le radici o, per lo meno, le componenti di classe”.

Nel lungo dopoguerra, però, emersero altre fratture tra chi aveva scelto e chi aveva rinunciato a scegliere, memorie divise, rimozioni, e una Norimberga negata che non permise di fare i conti con il passato. Ne derivò la legittimazione popolare di un ceto politico che spostò la nuova idea di Stato dal baricentro costituzionale dell’opposizione fascismo/antifascismo a quello popolare di comunismo/anticomunismo.

Per coloro che volevano sbarazzarsi dell’antifascismo la Resistenza era stata comunista; dall’altra parte, l’anticomunismo era percepito come nostalgia del Ventennio, e nello scontro si restrinse l’ampio spazio dell’eredità antifascista.

Nella cornice della Guerra fredda i partiti anticomunisti offuscarono la scelta antifascista del Cln, da cui erano nati, riferendosi a una Costituzione sempre più sbiadita nelle sue radici storiche, e impoverendo la forza unitaria della spinta resistenziale.

Poi il tempo si è ulteriormente caricato di antinomie, e l’ultimo a cadere nella narrazione è stato il senso della storia. Avanzano spavaldamente racconti che frantumano la complessità del passato in una miriade di eventi particolari. Nel 2010 il Giornale titolò “la Resistenza accusata di genocidio” per il ricorso presentato al Tribunale internazionale dell’Aia dal figlio di un milite della Rsi ucciso senza un regolare processo dai partigiani. Una schiera di giornalisti, romanzieri e sceneggiatori inanella ricostruzioni di questo tipo elevandole a spiegazioni di verità finora taciute: il “sangue dei vinti”.

Senza complessità la narrazione diventa semplice e stuzzicante perché si può condensare in slogan (E le foibe?), rimproverando agli storici i loro discorsi difficili che “si sa, nascondono interessi di casta”. Sono narrazioni che affiancano un’altra frattura, quella territoriale che nel tempo ha acquisito un preoccupante vigore. Nel movimento di Liberazione italiano c’erano state profonde differenze da zona a zona, da area ad area, e la narrazione più diffusa è quella che distingue il Nord resistente dal Sud occupato.

Ma non sono i territori a resistere, sono gli uomini. Per donne e uomini della Resistenza, nel Sud e nel Nord, per gli internati nei lager militari, la discriminante che li univa era stata la scelta antinazista e antifascista che dovunque si affiancava a quella di coloro che da sempre avevano combattuto il regime con le idee e con le loro stesse vite.

Internati militari italiani

Come dovunque, nel Sud e nel Nord, c’era l’altra Italia, quella che continuava a sentirsi rappresentata dal regime.

La divisione territoriale prese tutt’altra direzione quando alla fine degli anni 70, dimenticata del tutto la Resistenza, partì dal Nord un crescente movimento antimeridionalista, e nel 1989 un partito che si proponeva l’indipendenza della “Padania”. Fu allora che la discriminante diventò etnica con tutto il suo corredo pseudo-folclorico. Era una forma primitiva di razzismo identitario che alle analisi storico-politiche preferiva gli slogan. Cominciò da lì la semina dell’odio e l’attacco all’unità del Paese.

Il Sud prima fu scosso da questa offensiva, poi la reazione identitaria partì sul piano della narrazione. Cominciò a diffondersi una pubblicistica sull’unità d’Italia e sulla questione meridionale che nel 2010 esplose con la nascita di un filone narrativo sempre più ampio in cui si racconta di un Sud martire del Risorgimento, di un fiabesco Regno delle due Sicilie, di un Piemonte assassino, e che recupera il termine “partigiani” per i briganti, da secoli una delle piaghe del Sud. Si parla anche qui di “sangue dei vinti” e di “genocidio”. Da allora i social continuano incessantemente a essere invasi dai cascami delle due narrazioni, approcci territoriali contro la storia della nazione italiana, che è l’esito di un protagonismo venuto dal basso, segnato dalle diversità, ma alla fine convergente su scelte univoche.

Umberto Terracini firma la Costituzione della Repubblica Italiana

Quella degli sconfitti di tutti i moti e delle battaglie ideali preunitarie, dei siciliani che diedero la spinta per la campagna del 1860, dei Mille di Quarto e dei convogli seguenti scesi da ogni parte d’Italia, dei 25.000 meridionali e settentrionali che vinsero al Volturno, dei deputati del Sud che per salvare l’unità raggiunta chiesero in Parlamento l’esercito contro il brigantaggio che insanguinava le loro terre.

E, più tardi, l’altra scelta, quella su cui conversero da posizioni differenti gli esuli, i condannati e i confinati dei tribunali fascisti, i Martiri di Cefalonia, i napoletani delle Quattro giornate, la Brigata Maiella, i romani di Porta san Paolo, i Gap e le Sap dei territori occupati nei venti mesi, le brigate partigiane del Nord che videro italiani battersi e cadere fino al 25 aprile. Quella che guidò, infine, i padri della Costituzione.

(imagoeconomica)

Solo la condivisione plurima e volontaria di quelle scelte di unità e libertà giustifica il vecchio adagio della Resistenza come secondo Risorgimento, perché nei fatti la complessità della storia non si replica mai. Oggi, per i valori su cui si è fondata, e rifondata, l’unità del Paese, il 17 marzo, il 25 aprile, il 2 giugno non possono essere la commemorazione di un atto di nascita. È, ancora, il tempo di scegliere il futuro e i compagni di strada.