Il Milite Ignoto (militis sine nomine corpus, il soldato senza il nome della sua salma) è, al medesimo tempo, corpo e simbolo. La fisicità rimanda alle spoglie di un Caduto italiano nei combattimenti svoltisi durante la Prima guerra mondiale, la cui identità rimane sconosciuta e non indagabile. Il simbolismo demanda invece alla sua tumulazione pubblica, e agli onori militari e civili attribuitigli nel tempo, giungendo fino a oggi. Il contrasto calcolato è quello che intercorre tra la mancanza di identità del corpo, perduta morendo tra la massa di soldati, impegnati nei convulsi combattimenti di linea e trincea succedutisi sui fronti in cui fu operante l’Italia, e l’onoranza celebrativa, se non apertamente apologetica, che di tale condizione è stata fatta nel corso del tempo dalle autorità dello Stato.
A pensarci bene, c’è una voluta e ricercata contraddizione tra l’anonimato dei resti di un Caduto totalmente sconosciuto, quindi irriconoscibile se non per la sua nazionalità italiana, e l’enfatizzazione che di esso se ne fa come esempio di partecipazione al sacrificio collettivo. Proprio perché la Grande guerra fu anche e soprattutto un conflitto di massa, partecipato da un gigantesco numero di soldati-contadini, perlopiù giovani se non giovanissimi, il simbolismo del Milite Ignoto ne riassume alcuni di quei tratti, essendo tuttavia parte integrante della celebrazione di un’ecatombe collettiva intesa come somma di atti di devozione personali. In altre parole: morti individuali del tutto anonimi, che sono chiamati ora a celebrare un’identità collettiva, quella della nazione italiana.
La proposta di seppellire in un luogo di importanza nazionale, con i massimi onori militari e nella più totale deferenza dei civili, il corpo di un soldato rimasto sconosciuto, costituisce una delle più significative forme di memorialistica collettiva che nel primo dopoguerra presero vigore nei Paesi europei che avevano partecipato al conflitto. Al pari di essa, ma con un impatto forse meno emotivo, si collocano anche i numerosissimi monumenti ai Caduti, le lapidi, le targhe, i cenotafi e tutto l’insieme di luoghi, oggetti e simbolismi che andarono diffondendosi dal 1919 in poi nelle città e nelle località di rilievo sul piano della socialità. In Italia come nel continente. La differenza fondamentale tra questi e il Milite Ignoto, tuttavia, è che i primi ricordano i nomi dei caduti (oppure si riferiscono a una generalità di soggetti facilmente identificabile) mentre il secondo, capovolgendo i criteri della memoria collettiva, rammenta un caduto senza nome.
L’idea in Italia era già stata avanzata nell’estate del 1920, su proposta dell’allora colonnello in congedo (successivamente promosso generale di divisione ma posto in aspettativa) Giulio Douhet, già noto per le sue posizioni non ortodosse rispetto alla conduzione dei combattimenti e antesignano della guerra aerea. L’obiettivo era quello di traslare le spoglie al Pantheon, abbinando la centralità del luogo, la basilica nel centro della Capitale, al ricordo deferente di un combattente anonimo, a volere suggerire che l’identità italiana si fondava sul binomio tra lotta nelle trincee e sacrificio collettivo. Così recitava l’originaria motivazione, avanzata nel luglio di quell’anno: “che la salma di un soldato italiano, che non si sia riusciti a identificare, rimasto ucciso in combattimento, sul campo, venga solennemente trasportata a Roma e collocata al Pantheon – simbolo della grandezza di tutti i soldati d’Italia, segno della riconoscenza dell’Italia verso tutti i suoi figli, altare del sacro culto della Patria”. Segnatamente, il Pantheon è stato, per definizione, il luogo di sepolture illustri, conservando inoltre le tombe dei due primi re dell’Italia sabauda, Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I.
Un elemento polemico accompagnava la proposta medesima, essendo Douhet un militare che aveva fortemente polemizzato contro i criteri di conduzione della guerra da parte degli alti comandi militari italiani, a partire dal “generalissimo” Luigi Cadorna (destituito di fatto dopo la catastrofe di Caporetto nell’autunno del 1917). Per il colonnello, infatti, il Milite Ignoto doveva testimoniare di una vittoria ottenuta non grazie alla guida dei vertici dello Stato italiano ma malgrado essi. Così, infatti, scriveva nell’agosto del 1920: “tutto sopportò e vinse il nostro soldato. Tutto. Dall’ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri che sin dal principio cominciarono a meravigliarsi del suo valore, quasi che gli italiani fossero dei pusillanimi, alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità (il bollettino di guerra che attribuiva falsamente ai reparti italiani la disfatta di Caporetto, ndr). Tutto sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio”.
L’intendimento di Douhet era quello di alimentare una contro-retorica rispetto a quella ufficiale, che invece celebrava il successo italiano come il risultato di una sapiente strategia messa in campo dalle autorità militari e civili. E della quale, in fondo, i soldati del Regio esercito, tra il 1915 e il 1918, sarebbero stati esclusivamente dei passivi esecutori.
A un anno dalla sua prima formulazione, per opera dell’Unione nazionale ufficiali e soldati e della Garibaldi, società dei reduci delle patrie battaglie, la proposta, che rinviava alla “sepoltura della salma di un soldato ignoto” approdò alla Camera dei deputati. Il relatore era Cesare Maria De Vecchi, generale, politico e futuro quadrumviro della marcia su Roma. La commissione parlamentare aveva già identificato nell’Altare della Patria il luogo nel quale tumulare la salma, indicando nel 4 novembre (anniversario della conclusione vittoriosa della guerra) la data per celebrare la ricorrenza a venire. De Vecchi non risparmiò i toni enfatici per perorare l’opportunità di un tale ricordo, quello del “morto che è tutti i morti, che è primo e supremo artefice della nuova storia”. Come ancora: “il disegno di legge che il Parlamento discute è frutto del sentimento italico, dolce ed ardente ad un tempo. Deve essere rivendicata ai nostri uomini d’arme la priorità del proposito di trasportare solennemente a Roma i resti di un caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a loro e a seicentomila fratelli”.
La votazione a scrutinio segreto, che quindi ne seguì nell’agosto del 1921, sia alla Camera che al Senato, senza che avesse corso un adeguato dibattito parlamentare (soprattutto per evitare un confronto con le posizioni antimilitariste), sanzionò l’ampia maggioranza di parlamentari favorevole all’istituzione dell’onoranza al Milite Ignoto. A stretto giro fu quindi istituita una commissione, sotto la supervisione dell’allora ministero della Guerra, che avrebbe dovuto individuare undici salme di caduti al fronte, nel corso dei diversi combattimenti.
I requisiti richiesti erano, oltre all’italianità, la non identificabilità, la plausibile appartenenza alle diverse armi, tra cui la Regia Marina (elemento chiaramente non appurabile con certezza, posto l’anonimato dei resti recuperati e con essi del reparto di coscrizione e incorporazione; obiettivo quindi affidato alle circostanze del caso) e la rappresentatività dei diversi luoghi in cui si era combattuto nel corso dell’intera guerra. Furono pertanto esumati i resti ignoti di undici soldati, da Rovereto, Conegliano, il Monte Grappa, il Monte Ortigara, il Monte Rombon, il Monte San Marco, il Monte Ermada il massiccio del Pasubio, Cortina d’Ampezzo, Castagnevizza, Cortellazzo-Caposile. La sequenza spaziale doveva infatti comprendere Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, il tratto da Castagnevizza al mare. Si trattava sia di cimiteri militari che di luoghi della memoria, in parte non ancora esplorati né censiti.
Il 28 ottobre 1921 (esattamente un anno prima della marcia su Roma) nella basilica di Aquileia furono quindi esposte le bare contenenti gli undici corpi, alla presenza di autorità civili, militari ed ecclesiastiche e di una nutrita delegazione di ex combattenti, mutilati, di madri e vedove. Incaricata di scegliere quale salma sarebbe andata a comporre il Milite Ignoto fu la madre di un Caduto di origine italiana. Quest’ultimo aveva disertato dall’esercito austro-ungarico per farsi volontario in quello italiano, era stato decorato con la Medaglia d’Argento al Valore Militare, era perito nei combattimenti e il suo corpo, seppellito in un cimitero poi bombardato, era andato disperso. La logica dell’intera operazione era chiara: si conoscevano i nomi dei tanti deceduti al fronte ma non li si poteva collegare ai corpi anonimi. La designazione della salma doveva invece costituire una sorta di parziale risarcimento per una tale dissociazione. Una sorta di restituzione di identità rigorosamente fondata – tuttavia – sull’esaltazione del sacrificio del “soldato ignoto”, tale poiché parte di un esercito di massa. A ben guardare, tutto ciò prefigurava non il riconoscimento dello sforzo dei tanti singoli ma l’esaltazione di una subordinazione collettiva.
La “nuova Italia”, non a caso, nasceva anche su questa commistione tra martirio laico, impersonalità e massificazione. A seguito del pronunciamento, nel mentre le altre salme sarebbero poi state inumate ad Aquileia, per la bara prescelta iniziò invece un lungo viaggio, che sarebbe terminato a Roma. La cassa, ornata di simboli militari e motivi patriottici, fu collocata su un carro ferroviario che conteneva un affusto di cannone ed era vergato di un verso dantesco. Il 29 ottobre il convoglio, composto da sedici vagoni di servizio più alcune carrozze per la scorta d’onore, avviò il suo percorso, facendo brevi tappe in ogni stazione che toccava. Nel mentre, la folla presente doveva rispettare il più rigoroso silenzio. Erano completamente interdetti discorsi pubblici, anche per evitare eventuali contestazioni. Il trasporto del feretro era picchettato da rappresentanze di parlamentari (le istituzioni), ex combattenti (l’esercito), mutilati (coloro che avevano sacrificato una parte fisica e psicologica di sé), familiari stretti di sesso femminile dei caduti (gli affetti). Il tutto doveva svolgersi come una gigantesca rappresentazione collettiva, destinata a coinvolgere il maggiore numero possibile di persone. Si trattava di un affresco corale della “madre patria”.
Per la declinante Italia liberale ciò costituì uno dei più significativi momenti di omaggio a quella religione civile, di cui il fascismo si sarebbe poi lestamente impossessato, che faceva coincidere l’appartenenza nazionale con la disposizione al martirio di se stessi. È stato scritto: “il viaggio del treno funebre per le vie dell’Italia vittoriosa – vie che non attraversano il sud della penisola, ma segnano esclusivamente i territori redenti della guerra guerreggiata – e il (successivo) corteo della Nazione per le vie di Roma fanno appello pubblico alle masse nel loro lutto privato – le madri e vedove, gli orfani, i decorati, i mutilati, i combattenti, gli studenti – perché partecipino alla prima messa in scena della ritualità estetica nazionale”.
Le ali di folla, strenuamente deferenti, al limite della venerazione (per dare credito alle cronache di allora), comunque accomunate in un tacitato raccoglimento, molto spesso inginocchiate e impegnate a pregare sottovoce, si alternavano e completavano con il lancio di fiori da parte di donne e ragazzini e alle benedizioni impartite dal clero locale, gesto quest’ultimo ritenuto prezioso non solo in nome della pietas cristiana ma anche come postumo segno di assenso cattolico alle motivazioni della partecipazione alla guerra da parte dell’Italia liberale. Gli ex combattenti e i reparti di truppe presenti rispondevano con il saluto militare. La coralità era evidente e indiscutibile, così come la partecipazione emotiva e la commozione, benché le motivazioni e i moventi dell’omaggio collettivo potessero essere di molto diversi, variando da persona a persona. In molti, infatti, più che un’adesione al motivo patriottico, prevaleva l’umana identificazione con il destino di cui la salma del soldato ignoto era comune suggello.
Infine, il 2 novembre il viaggio terminò a Roma Termini. Ad attendere il feretro che aveva oramai assunto, agli occhi di tanti, un’aura sacrale, vi erano Vittorio Emanuele III e la famiglia reale, i rappresentanti delle istituzioni, le delegazioni degli ex combattenti e dei familiari dei caduti insieme a un nutritissimo drappello di alti ufficiali. Nell’allora piazza Esedra, dove sorge la basilica di Santa Maria degli Angeli, dopo un corteo in cui la bara era sfilata su un altro affusto di cannone – accompagnata a piedi dai decorati della medaglia d’oro, dal re e dalle maggiori cariche dello Stato – fu prima benedetta e poi fatta oggetto di una cerimonia religiosa tenutasi nella basilica medesima. Per due giorni, quindi, posta su un catafalco, venne picchettata dai militari e dagli ex combattenti, seguendo un rigoroso cerimoniale, nel mentre il pubblico le rendeva omaggio.
Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della conclusione della guerra, un lungo corteo riprese il cammino, portando il feretro all’Altare della Patria, dove venne deposto in un sacello nel corso di una cerimonia pubblica. Alla figura del Milite Ignoto fu in seguito attribuita la Medaglia d’Oro sulla base della motivazione: “degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”. Il ministero della Guerra, a riscontro dell’onorificenza, sanzionò “lo sconosciuto, il combattente di tutti gli assalti, l’eroe di tutte le ore, (che) ovunque passò o sostò, prima di morire, confuse insieme il valore e la pietà. Soldato senza nome e senza storia, Egli è la storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”.
Si compiva così una completa traiettoria ideologica dove trincea, combattimento, morte, vittoria, Patria ma anche lavoro divenivano tutte facce di un prisma monolitico, quello che sanciva come unica cittadinanza possibile, e quindi accettabile, quella basata sulla disposizione al sacrificio di sé e di quanto ogni individuo ha di più caro, il suo stesso corpo. Nazione in armi, nazione al lavoro, concordia nazionale e subordinazione a una presunta gerarchia naturale, quella del superiore nei confronti degli inferiori: una miscela che il fascismo, già allora presente sulla scena politica e sociale, si sarebbe incaricato di tradurre in prassi quotidiana, neutralizzando qualsiasi forma di opposizione.
“Con larga influenza delle diffuse retoriche militariste e nazionaliste propagandate dai Fasci di Benito Mussolini, al cadavere del Milite Ignoto viene attribuito il compito di legare il destino delle migliaia di soldati a quello della comunità nazionale in lutto, attraverso la sacralizzazione del sangue. Questa funziona su un doppio registro retorico: innanzitutto, quello della patrilinearità che lega i figli morti al Padre della Patria, Vittorio Emanuele II, di cui il Vittoriano è il monumento celebrativo. In secondo luogo, quello della matrilinearità che passa dal corpo mitico della madrepatria e dal suo ventre fecondo di figli-eroi di guerra. (…) Solo nel rispetto di questa linearità, il sangue versato di lui può, a sua volta, farsi simbolo e materia di gestazione per una discendenza di nuove leve che sappiano in futuro fecondare, nutrire e difendere ancora la Patria”.*
Quindi: “nella tumulazione rituale, la vittima anonima diventa icona mitica della morte patriottica di massa, e quella che si vorrebbe tomba di consolazione del dolore, si fa invece monumento all’autocelebrazione del potere stesso e della sua auto-rappresentazione ad aeternum.(…) Questa espressione coeva e reiterata del mito della Patria in armi, più che pacificare gli animi in lutto, più che conservare memoria del passato comune, congela nel freddo simbolismo marmoreo ogni spirito critico verso quell’evento catastrofico (la guerra, n.d.r.) della storia collettiva”. *
A tutt’oggi, la tomba, sacrario nazionale, è perennemente presidiata a turno da due appartenenti alle forze armate che compongono la guardia d’onore. L’omaggio al Milite Ignoto è uno degli adempimenti cerimoniali attribuiti al Presidente della Repubblica in occasione del 25 aprile (anniversario della Liberazione), del 2 giugno (festa della Repubblica) e del 4 novembre (giornata dell’unità nazionale e delle forze armate). L’avere legato tra di loro tre ricorrenze molto diverse, unificandole in un luogo altamente simbolico come l’Altare della Patria, fortemente connotato sul piano dei significati che intende trasmettere, vuole stabilire una linea di continuità tra sacrificio di sé e unità nazionale. Quasi a lasciare intendere che il tutto (ossia la nazione) non solo ingloba, ma viene sempre e comunque prima della parte (l’individuo).
Questo è il quadro storico e culturale dentro il quale si costruirono, e quindi si inserirono, le celebrazioni al Milite Ignoto. Va aggiunto che da subito si manifestarono due tendenze opposte, la prima della quali contestava la legittimità dell’intera operazione, mentre la seconda ne manipolava le finalità. Nel caso dell’opposizione si espressero le voci dei socialisti, dei repubblicani, degli anarchici, molto più raramente dei popolari, e comunque di quel blocco di forze che disconosceva il tracciato militarista sotteso al memento pubblico, denunciando il fatto che dietro all’omaggio rivolto ai 600.000 soldati Caduti si celasse in realtà l’apologia delle guerre e degli interessi che ruotavano attorno ad esse. All’epoca, il confronto tra le organizzazioni popolari di base (cooperative, sindacati, partiti) e ciò che veniva indicato come un concentrato civile e militare di poteri manifestatosi durante il conflitto mondiale e proseguito nel dopoguerra, era al centro dei dinieghi espressi vivacemente da chi già aveva contestato l’interventismo del 1915, subendo poi gli effetti della repressione sociale praticata negli anni della guerra. Anche gli Arditi del popolo, e parte degli stessi legionari fiumani, si espressero negativamente, sottolineando tuttavia che la loro posizione derivava dal rigetto non del confronto armato in quanto tale ma dal monopolio che le istituzioni dello Stato intendevano in tale modo rafforzare, colonizzando anche il ricordo dei Caduti a proprio esclusivo beneficio.
Di tutt’altra natura era invece la deliberata manipolazione operata dal fascismo a partire dal 1922. Fin dalla sua ascesa al potere, Mussolini si adoperò infatti per assicurare a sé e alla sua parte politica una sorta di monopolio nella raffigurazione della Prima guerra mondiale, declinandone la partecipazione italiana come premessa e, allo stesso tempo, conferma dei fondamenti del fascismo medesimo. Il Milite Ignoto, piegato a un tale obiettivo, perdeva qualsiasi residuo di neutralità, trasformandosi invece in un nodo fondamentale della tela tessuta dal nuovo regime per puntellarsi ideologicamente. Non a caso, infatti, anche quando la dittatura cadde e dopo la lotta di Liberazione subentrò la Repubblica, numerose furono le intemperanze e le violenze neofasciste, tutte indirizzate ad accreditarsi l’esclusività del ricordo dei Caduti della Grande guerra. La partecipazione di delegazioni di partigiani agli eventi commemorativi era contrastata con gesti eclatanti. L’intenzione evidente era quella di stabilire una linea di continuità tra i combattimenti del 1915-’18, il ventennio fascista e i morti della Seconda guerra mondiale, recuperando i peggiori cliché del regime mussoliniano, tutti protesi a un esasperato nazionalismo, connotato da un profondo illiberalismo, dal rigetto della democrazia e da un cieco antisocialismo.
È quindi in un tale quadro di contesto che vanno inserite le iniziative, così come soprattutto gli usi politici, che si accompagnano al centenario della traslazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria. Il discorso sull’“eroismo del sacrificio” è sempre un’arma a doppio taglio che, nell’esaltare la disposizione d’animo del singolo nei confronti degli interessi della comunità, rischia anche di alimentare le peggiori retoriche funerarie, basate sulla distruzione di ogni forma di autonomia personale dinanzi ai poteri costituiti. Si tratta, nel qual caso, del panegirico della subordinazione acritica, quindi dell’elogio di vecchie (e nuove) forme di sudditanza, laddove l’estrema problematicità di quell’evento collettivo che fu la guerra mondiale viene di nuovo occultata dal ritorno di discorsi e raffigurazioni completamente astoriche, prive di qualsiasi riferimento critico sui molti significati di quel passato.
Particolare perplessità suscita poi l’iniziativa promossa dal Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia (ente morale costituito nel 1927), in collaborazione con l’Associazione nazionale comuni italiani (Anci), riguardo al progetto “Milite Ignoto, cittadino d’Italia” per il conferimento della cittadinanza onoraria da parte di tutti i Comuni italiani. L’iniziativa è sostenuta anche dal Consiglio nazionale permanente delle associazioni d’arma (Assoarma). La motivazione recita in tali termini: “così come, cento anni fa, gli sforzi effettuati per fare in modo che quel Soldato, voluto come di nessuno, potesse in realtà essere percepito come di tutti, al punto da trasformarsi nella sublimazione del sacrificio e del valore dei combattenti della prima guerra mondiale e successivamente di tutti i Caduti per la Patria, oggi è giunto il momento in cui, in ogni luogo d’Italia, si possa orgogliosamente riconoscere la paternità di quel Caduto. Sulla base di questo assunto, le Medaglie d’Oro al Valor Militare si sono rivolte all’Anci, in quanto rappresentante della quasi totalità dei Comuni d’Italia, per promuovere, fin dal 2020, il conferimento della cittadinanza onoraria al Milite Ignoto, da parte di ciascuna Civica amministrazione, naturalmente nel rispetto delle norme amministrative in vigore e dell’autonomia dei rispettivi Consigli Comunali”. I Comuni che hanno attualmente conferito la cittadinanza sono 3.042, mentre altri 188 sono in fase di istruzione della pratica.
Le questioni commemorative sono, per loro natura, sempre molto delicate. Poiché legano affetti, emozioni, identificazioni e condivisioni al loro riversamento in ambito pubblico, parlando soprattutto a una società che è giunta molto dopo quei fatti e quei protagonisti che vengono invece chiamati in causa. Come tali, non si debbono prestare a facili strumentalizzazioni politiche. Proprio per questo i dubbi al riguardo sono molteplici. In quanto, al netto delle intenzioni dei promotori, rischiano di ripetere uno schema, puramente ideologico, che continua a contrapporre una non meglio precisata “identità nazionale”, della quale i Caduti sarebbero gli aedi, i vessilliferi, all’internazionalismo dei popoli. Quest’ultimo, per inciso, nulla nega delle storie delle singole comunità ma, ad esse, domanda di fare in modo che non si traducano in strumenti per legittimare atti di aggressione degli uni contro gli altri.
Già si sente nell’aria – invece – una sorta di desiderio di rivalsa che una destra ottusa, alla ricerca di motivi per dare fuoco alle sue polveri, vorrebbe traslare nella colonizzazione e nell’occupazione dei ricordi legati alla Prima guerra mondiale. Ovvero, al ritorno a una memoria selettiva di quel conflitto, completamente acritica e quindi apologetica, in omaggio a una retorica identitaria. Più che il rimando a un’aspirazione bellicista, ovvero a un rigurgito di tardo nazionalismo – all’interno di un’Europa che invece ricorda anche quel passato, ma che è andata molto oltre esso, cercando terreni di condivisione – semmai l’obiettivo è quello di dare di nuovo spessore a un’opposizione di principio a qualsiasi posizione di solidarietà. Non solo tra i popoli europei ma anche all’interno di essi. Sostituendovi alla solidarietà sociale, come già avveniva cento e più anni fa, l’“unione sacra” (il Burgfrieden o Union sacrée), ossia la soppressione di ogni conflitto di politica interna, soprattutto sul piano economico, per dare invece corso alla contrapposizione militare tra le nazionalità limitrofe.
Qualsiasi rimando alla Grande guerra, a partire proprio dal simbolismo del Milite Ignoto, ha un fondamento se ricorda i soldati insieme all’insensata carneficina consumata su tanti campi di battaglia a loro danno. Rammentare la loro morte ha quindi a che fare con l’indagine critica sulle ragioni per cui vennero sacrificati. Nel dispositivo memorialistico sovranista, invece, ritornano i motivi della rivalsa, basati sull’occultamento del senso della guerra, del suo costituire un clamoroso inganno ai danni delle collettività, nel nome di una mitologia delle appartenenze nazionali che serve soprattutto a nascondere gli inconfessabili (ma tangibilissimi) calcoli d’interesse di cui quella stessa area politica è uno strumento. Allora, ossia cento anni fa, come oggi.
Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini
* Le citazioni virgolettate nel testo sono tratte dal sito della Fondazione Feltrinelli “Scuola di cittadinanza europea”
Pubblicato lunedì 1 Novembre 2021
Stampato il 04/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/il-centenario-del-caduto-senza-nome-e-il-memorialismo-sovranista/