Secondo l’art. 133 del codice di procedura penale polacco “è punibile con una reclusione fino a tre anni chi offende pubblicamente la nazione”. In questa fattispecie rientrerebbe il lavoro di analisi storica della giovane ricercatrice Katarzyna Markusz che ha gettato una luce inquietante sulle responsabilità di diversi suoi connazionali nell’omicidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

La studiosa Katarzyna Markusz

Le ricerche della giovane studiosa si inseriscono in un largo filone di studi sull’antisemitismo di alcuni settori della società polacca tra le due guerre mondiali contrastante con l’immagine di “nazione dei giusti” propagandata dal governo in carica. La vicenda di Markusz, convocata in un commissariato di polizia e sottoposta a indagine giudiziaria per avere pubblicato i risultati del suo lavoro scientifico che offenderebbero la nazione, costituisce una testimonianza del clima di intolleranza che si respira in Polonia e un’ulteriore prova del rischio di svolta autoritaria nel Paese più grande dell’Europa centro-orientale.

Una foto da giovane di Tomasz Greniuch, nominato di recente direttore ad interim della sezione di Breslavia dell’Istituto della memoria nazionale. Alle polemiche dopo la pubblicazione dell’immagine su “Gazeta Wyborcza”,  Greniuch ha replicato “Non sono mai stato nazista, mi scuso ancora per il gesto irresponsabile di diversi anni fa e lo considero un errore”

Uno dei risvolti di questa svolta è l’indirizzo impresso alla politica della storia e, segnatamente, l’affermarsi di quello che Ulrich Beck ha definito “nazionalismo metodologico” tradottosi in alcune realtà nell’accertamento dal punto di vista giudiziario delle tesi sostenute sul piano storico secondo principi di fatto contrari al pluralismo e alla libertà di espressione. Per i sostenitori del nazionalismo metodologico, il criterio di obiettività della ricerca storica risiede, in ultima analisi, nel riferimento alla nazione quale – per parafrasare Luca Scuccimarra – l’a priori del senso della propria vita e della propria identità, sia collettiva sia individuale.

Conferenza di Teheran, 28 novembre 1943: Josef Stalin, Franklin Roosevelt e Winston Churchill

Il terreno privilegiato del nazionalismo metodologico è la storia del Novecento, illustrata secondo canoni storiografici esplicitamente contrapposti alla “storiografia occidentale” e a quelle correnti che sottovaluterebbero alcuni fatti o acquisizioni sul piano dell’indagine storica perché incoerenti con il racconto delle potenze vincitrici il secondo conflitto bellico mondiale.

Il nazionalismo metodologico costituisce, sotto questo profilo, un filone del nazionalpopulismo che contrappone le élites occidentali, in questo caso il mondo dell’accademia e le correnti storiografiche europee più accreditate, alla nazione portatrice di una visione del passato differente dalla narrazione che si definisce dominante.

Il piano della ricerca storiografica viene subordinato a quello della costruzione del consenso politico, ad esempio in base alla “cultura delle celebrazioni pubbliche”, assunta quasi a religione civile, rispetto ad alcune date o avvenimenti collegati alla salvaguardia dell’interesse nazionale sul versante della definizione dei rapporti con gli altri Paesi, di eventuali riparazioni di guerra e, in generale, del proprio peso politico rispetto agli equilibri internazionali consolidati. Anche i criteri per l’assegnazione dei riconoscimenti e delle onorificenze per meriti scientifici, grazie ai quali sovente sbocciano importanti carriere politiche, rispecchiano la sovrapposizione del piano politico a quello della ricerca storica per cui a soffrirne, per ovvie ragioni, è certamente il secondo.

A caratterizzare altresì il nazionalismo metodologico, sul lato della ricerca storica come su altri terreni di carattere scientifico, è la distinzione tra una “verità nazionale” e quella propagandata da altre nazioni in linea di principio concorrenti e incompatibili con la prima. Il dibattito storiografico diventa in questa maniera la propaggine di una lotta politica che non ammette compromessi, ma solo la definizione dei vincitori e degli sconfitti.

La rivendicazione di punti di vista differenti e l’apertura a nuove interpretazioni storiografiche da condizioni di sviluppo per il sapere sulla storia divengono occasioni per affermare l’interesse della propria nazione, la propria particolare verità nei confronti delle altre.

Il pregiudizio nazionalista inficia in questo modo la separazione tra scienza e politica, tra “verità per sé” e “verità ufficiale”. Il dissentire da quest’ultima, o comunque dall’interpretazione o dottrina maggiormente remunerativa sul piano politico per sé e per il proprio gruppo di appartenenza, costituisce, sotto questo profilo, un errore sul piano politico e un atto antinazionale.

Tre sono i temi della storia del Novecento su cui sembra maggiormente svilupparsi il nazionalismo metodologico in Polonia: l’equiparazione tra nazismo e comunismo, in particolare in relazione a una ipotizzata, comune volontà, antecedente al 1939, di Hitler e Stalin di cancellare la Polonia dalla cartina geografica e dividersi il suo territorio; il ruolo delle potenze vincitrici il secondo conflitto mondiale, che non avrebbero tenuto conto delle rivendicazioni del governo polacco in esilio nella definizione dei confini dell’Europa centro-orientale negli accordi successivi alla guerra; la penalizzazione degli interessi nazionali in seguito a tali scelte che avrebbero pregiudicato le possibilità di sviluppo dello Stato polacco.

Mosca, 23 agosto 1939 La firma del patto di non aggressione fra la Germania e l’Unione Sovietica. Firmarono il ministro degli Esteri russo, Vjačeslav Molotov, e il ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop

Tra gli episodi, in particolare, su cui si concentra il revisionismo di indole nazionalista vi sono il patto Ribbentrop-Molotov e l’inizio della Seconda Guerra mondiale. In Polonia la campagna per l’esaltazione della “nazione eroica e vittima della furia straniera nel 1939” era iniziata già durante gli anni della Repubblica popolare divenendo, dopo il 1989, uno dei miti fondativi della destra nazionalpopulista attualmente al potere.

17 settembre 1939, l’Urss occupa la Polonia

L’occupazione del territorio polacco da parte dell’Unione Sovietica, il 17 settembre del 1939, oltre all’egoismo e alla pavidità di Francia e Inghilterra, avrebbe compromesso le possibilità di vittoria dei polacchi sulla Germania nazista. I sostenitori di questa interpretazione tendono a dimenticare la drammatica sproporzione tra le forze in campo, soprattutto quella dell’esercito di Hitler in grado di conquistare, nel giro di pochi giorni, una larga parte del territorio polacco e riportare perdite pari ad appena 1:4 nei confronti dell’avversario. Rispetto al patto Ribbentrop-Molotov appaiono di sicuro interesse le osservazioni dello storico polacco Włodimierz Borodziej, secondo cui Hitler non avrebbe avuto alcun interesse a sottoscrivere l’accordo di non aggressione con Stalin.

Non solo l’esercito nazista era decisamente superiore a quello polacco e non aveva bisogno dell’intervento dell’Armata Rossa per conquistare il giovane Stato sulla Vistola, ma la successiva spartizione della Polonia avrebbe, come avvenne, allargato i confini occidentali dell’Urss di circa 300 km rendendo in questa maniera l’invasione nazista dell’Urss del 1941 decisamente meno agevole.

Mappa dell’invasione nazista dell’Urss (dizionaripiu.zanichelli.it/

Il motivo per cui Hitler acconsentì alla firma del famigerato patto andrebbe ricercato nel timore dello stato maggiore del suo esercito di trovarsi a combattere una guerra su due fronti che non avrebbe dato scampo alla Germania, come del resto era consapevole il generale tedesco Ludwig Beck il quale, di fronte ai piani di Hitler, aveva rassegnato le dimissioni il 27 agosto del 1938 affermando che “la vittoria della Germania è impossibile!”.

Stalin, da parte sua, avrebbe voluto evitare la guerra oppure rimandarla di qualche anno: l’impreparazione dell’Armata Rossa a uno scontro su scala continentale e la vasta repressione avvenuta nella seconda metà degli anni Trenta, “le “grandi purghe” che avevano devastato lo stato maggiore sovietico, rappresentavano ragioni sufficienti per spingerlo ad allontanare il pericolo di un immediato scontro con i nazisti.

Si può concordare, da questo punto di vista, con l’affermazione di Vladimir Medinskji (espressa sull’ultimo numero del 2020 della rivista Historia Magistra) sulla scarsa plausibilità della tesi secondo cui Stalin avrebbe spronato Hitler al conflitto bellico e all’invasione della Polonia al fine di destabilizzare il quadro europeo e allargare repentinamente lo spazio di influenza dell’Urss.

Alla fine degli anni Trenta nemmeno la Francia e l’Inghilterra erano preparate adeguatamente al conflitto e riponevano le loro speranze nella volontà dei cittadini tedeschi di non affrontare una nuova guerra dopo la débâcle del 1918. Le rassicurazioni di questo periodo di Parigi e Londra nei confronti di Varsavia, relative a un sostegno militare in caso di invasione, sembrano, più che altro, mirate a scoraggiare l’intervento tedesco.

Dopo il 17 settembre, nessuno Stato, occidentale oppure orientale, interruppe i rapporti diplomatici con Stalin. Churchill in un suo intervento pubblico affermò che preferiva che la Polonia orientale si trovasse nelle mani dei sovietici invece che in quella dei nazisti. Lo stesso governo polacco non produsse nessun atto formale di inizio della guerra. L’invasione da parte dei nazisti era nell’aria quanto prevedibile era il suo risultato.

Gennaio 1943, Roosevelt e Churchill durante la conferenza di Casablanca

La fine degli scontri e la definizione dell’ordine mondiale si fa risalire a tre conferenze fra i rappresentanti dell’Urss, del Regno Unito e degli Stati Uniti: a Teheran dalla fine di novembre al primo dicembre del 1943, a Jalta nel febbraio 1945 e a Postdam dal 17 luglio al 2 agosto dello stesso anno. Si sottovaluta in molti casi il vertice, rimasto per diverso tempo segreto, di Casablanca, da poco liberata dagli Stati Uniti, avvenuto dal 14 al 24 gennaio 1943 tra Roosevelt e Churchill.

La vittoria dell’Urss nella battaglia di Stalingrado,
23 agosto 1942-2 febbraio 1943, cambiò le sorti della II guerra mondiale

All’incontro non partecipò Stalin, secondo la versione ufficiale perché era in corso la battaglia di Stalingrado, ma probabilmente perché il dittatore georgiano temeva di allontanarsi dal territorio sotto il controllo del suo esercito. Un motivo ulteriore era inoltre la sua paura per i viaggi in aereo cui preferiva quelli in treno.

A Casablanca, su impulso di Roosevelt, si decise che la Germania avrebbe dovuto capitolare senza condizioni. Fu una richiesta originale: l’armistizio senza condizioni era tipico delle guerre antiche e, in tempi a noi più vicini, delle guerre coloniali. I conflitti moderni si concludevano prevalentemente mediante una pace negoziata. Con l’unconditional surrender si era tuttavia conclusa la guerra civile americana da cui il presidente degli Stati Uniti aveva tratto ispirazione. Churchill temeva che l’imposizione di tale condizione avrebbe prolungato drammaticamente il conflitto bellico e allontanato la possibilità che si potesse formare in Germania una fronda antihitleriana.

La conferenza di Jalta, tenutasi dal 4 all’11 febbraio 1945 a Livadija (3 km a ovest di Jalta), in Crimea

L’obiettivo di Roosevelt rimaneva quello di riportare, alla fine della guerra, le minori perdite possibili per il proprio Paese. L’alleanza tra la forza numerica sovietica e l’avanzata tecnologia bellica americana avrebbe, secondo il presidente statunitense, messo fine al conflitto. Tale decisione trovava favorevole Stalin il quale, sebbene assente all’incontro di Casablanca, aveva spinto perché le forze alleate si concentrassero in primo luogo sulla sconfitta della Germania e poi del Giappone trovando il consenso del Regno Unito e degli Stati Uniti che temevano una possibile pace separata tra la Germania e l’Unione Sovietica grazie alla quale Stalin avrebbe potuto allargare la sua zona d’influenza nell’Europa centrale.

La capitolazione senza condizioni rappresentava quindi una formula politica che metteva al riparo gli alleati da qualsiasi tentativo di addivenire a una pace separata con l’esercito nazista. La conferenza di Casablanca corrispose alle aspettative di Stalin, confermate nelle altre conferenze di Teheran e di Jalta, e sfociate nella decisione di portare il colpo decisivo al Terzo Reich mediante lo sbarco in Normandia, come auspicato dal dittatore georgiano, e non nell’Europa centrale dove Stalin voleva mantenere la sua influenza e tenersi le mani libere.

Su 54 milioni di morti nel secondo conflitto mondiale ben 28 furono dell’Urss

Nel febbraio 1945, dopo due anni dalla conferenza di Casablanca, l’Armata Rossa era a 70 km da Berlino. L’obiettivo di Roosevelt di ridurre le perdite statunitensi al minimo era stato raggiunto. Alla fine della guerra saranno 280.000 i soldati americani caduti a differenza dei 9 milioni dell’Unione Sovietica. Si può considerare la seconda guerra mondiale come uno scontro essenzialmente tra potenze, tra le loro strategie e i loro interessi che determinarono l’esito del conflitto e le zone di influenza nel periodo di pace.

Nel marzo 1943 Roosevelt incontrò il ministro degli esteri inglese Anthony Eden il quale gli riferì del disappunto del governo polacco in esilio a Londra rispetto alla modifica dei confini orientali dell’Urss. Il presidente americano rispose: “I polacchi devono accettare le decisioni delle grandi potenze. Non ho intenzione di recarmi alla Conferenza di pace per sostenere le richieste di dieci piccoli Stati”.

L’élite politica polacca aveva riposto le speranze di sopravvivenza dello Stato polacco nello scontro tra i “due nemici”: il blocco di forze occidentale, da una parte, e Hitler e Stalin dall’altra, ne è testimonianza una curiosa vicenda avvenuta nella primavera del 1941 quando il governo britannico chiese ufficialmente al governo polacco a Londra un parere sulla guerra in corso. Il generale Sikorski elaborò un rapporto articolato nel quale si sosteneva, tra l’altro, che un conflitto fra la Germania e l’Unione Sovietica era da ritenersi impossibile.

Immediatamente prima dell’inizio del conflitto si può sostenere che il destino della Polonia era pressoché segnato e tuttavia, con il profilarsi della pace nell’ultimo anno di guerra, da più parti si sperava che a essa toccasse una sorte simile a quella della Finlandia: di sostanziale dipendenza di carattere economico e politico dall’Urss, ma con una larga autonomia relativamente alla politica interna. Stalin stesso avrebbe favorito questa soluzione in quanto preferiva al governo del futuro Stato polacco i membri della destra filosovietica invece dei “comunisti ebreo-polacchi” che detestava. Purtroppo nessuno nel governo polacco in esilio era disposto a sostenere quella che appariva una realistica presa di posizione che avrebbe potuto garantire una limitata sovranità. I confini polacchi furono il frutto dell’accordo tra le grandi potenze.

(treccani.it/)

La Repubblica Popolare polacca nata dopo la II guerra mondiale può essere considerata nondimeno beneficiaria delle determinazioni dei Paesi vincitori: alla Polonia spettò buona parte del territorio della vecchia Germania che fu ridotto, in seguito alla sua capitolazione senza condizioni, del 20%. I territori acquisiti dalla Repubblica Popolare erano di grande valore dal punto di vista delle risorse minerarie ed economiche, in questo la richiesta di riparazioni portata avanti dal governo nazionalpopulista in carica in Polonia appare non del tutto sostenibile. La Polonia ottenne altresì l’ingresso dell’organizzazione delle Nazioni Unite per la sola ragione di aver fatto parte della coalizione antihitleriana. Se la Polonia, prima della guerra, si fosse alleata con la Germania, come si sostiene in alcuni ambienti estremisti polacchi, non avrebbe ottenuto i territori occidentali e nemmeno le zone orientali dove la percentuale degli ucraini in molti casi era superiore a quella dei polacchi.

Il nazionalismo metodologico si fonda su alcuni miti utili a definire il contingente interesse politico dell’élite al governo, scettica di fronte alla realizzazione del progetto europeo e orientata all’introduzione di una forma di Stato autoritario che ha nella difesa della verità ufficiale, con il ministero della Giustizia divenuto quasi il ministero della verità di orwelliana memoria, uno dei suoi ingredienti più significativi.

La svolta autoritaria in Ungheria e in Polonia sembrerebbe convergere con un allineamento di fatto in politica estera a Mosca in funzione antioccidentale o comunque con l’obiettivo di indebolire l’Europa a trazione tedesca piuttosto malconcia dopo la brexit e la pandemia. Su tale allineamento pesano, almeno in Polonia, diversi ostacoli anche di natura storica, ad esempio il massacro di Katyn perpetrato dai sovietici che alimenta il “sentimento antirusso” diffuso nella popolazione.

L’obiettivo del nazionalismo metodologico appare duplice: rimuovere la radice antifascista del progetto europeo, ripercorrendo le orme della sue élite politica durante la seconda guerra mondiale che metteva sullo stesso piano la Germania e la Russia, mistificando le differenze tra nazismo e comunismo, come è avvenuto per la Risoluzione del Parlamento europeo del 2019; omettere le responsabilità delle parti in causa, non ultima la propria megalomania; contrapponendo il mito da grande nazione decaduta generato dalla propria frustrazione al realismo e alla talvolta drammatica brutalità della storia che è necessario conoscere per non ripeterne le tragedie.

Daniele Stasi, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Foggia e di filosofia della politica all’Università di Rzeszów, Polonia