La morte è una sofferenza inferiore a quella della schiavitù,
perché la vita può essere degna solo se potremo costruire
la nostra patria nella pace, nell’ordine, nella libertà, nella giustizia.
Patrice Émery Lumumba

Cartina del Congo Belga risalente al 1896 (Library of Congress)

Due milioni e mezzo di chilometri quadrati, ottantacinque volte l’estensione del Belgio, un territorio e un popolo, quello del Congo, sfruttato, umiliato, soffocato, sventrato per decenni da re Leopoldo II e i suoi mastini. Il 6 marzo 1957 la Costa d’Oro, ribattezzato Ghana, è il primo paese dell’Africa subsahariana a ottenere l’indipendenza dal dominio coloniale britannico. Lo stesso anno Patrice Émery Lumumba (classe 1925), considerato il primo eroe nazionalista risolutamente impegnato a liberare, totalmente e definitivamente, il Congo dagli artigli colonialisti belgi, termina il suo primo e unico libro Le Congo, terre d’avenir, est-il menacé? rimasto inedito e pubblicato postumo da Office de Publicité, caratterizzato da un moderatismo filo-coloniale, espressione della sua privilegiata condizione sociale di évolué, ovvero esponente dell’élite congolese indigena.

Sui progetti indipendentisti del giovane Lumumba grava la sua formazione europea che non gli permette di cogliere le vere aspirazioni del popolo, tanto che punta sull’integrazione sociale per superare i risentimenti dei suoi connazionali verso la presenza belga e costruire una società di cittadini con gli stessi diritti e senza alcuna discriminazione. Ritiene che la “pacificazione” rappresenti il primo passo per costruire il nuovo Congo, al punto che nel suo “Appello ai Belgi” arriva ad auspicare che si possa creare una nuova civiltà intesa come sintesi della selezione dei migliori valori europei e africani.

Lumumba nel 1960 (Fotocollectie Anefo Reportage)

Nella nota all’editore scrive: “Francamente, il futuro del Congo è carico di nuvole. A questo, a queste preoccupazioni, a queste confusioni, a questi dubbi, il mio libro vuole fornire una soluzione, e allo stesso tempo un rimedio, perché la realizzazione in un tempo relativamente breve delle riforme che ho sostenuto lì, appianerà, in larga misura, le attuali difficoltà tra bianchi e neri in Congo”.

(Fotocollectie Anefo Reportage)

Il “Robespierre nero”
Di ritorno dal viaggio che compie a Bruxelles per l’Expo 58, insieme a centinaia di congolesi (e che rappresenta per questi l’occasione per scoprire un mondo “altro” rispetto alla segregazione razziale in uso nel suo Paese, benché vietata dalla legge belga), il 10 ottobre Lumumba fonda il primo partito politico di massa del Congo moderno, il Mouvement national congolais (Mnc), contro i tribalismi e i separatismi considerati funzionali al mantenimento dello Stato coloniale e le cui linee d’azione vengono presentate a dicembre alla seconda Conferenza dei popoli africani di Accra, in cui i delegati proclamano l’Afrique aux Africains e il poco più che trentenne Lumumba conquista la stima del carismatico leader rivoluzionario Kwame Nkrumah, con il quale condivide l’ambizioso progetto panafricano. Il “Robespierre nero” (per dirla con Jean-Paul Sartre) successivamente descriverà il congresso ghanese come l’assise in cui è stata formulata la filosofia del panafricanismo.

Kinshasa, la statua dedicata a Lumumba (wikipedia)

Accra lascerà un segno indelebile. Rispetto a pochi mesi prima Lumumba modifica il suo linguaggio politico, sgrana senza balbettii le priorità della lotta di liberazione, riveste di carattere giuridico le rivendicazioni dei suoi connazionali dicendo: “abbiamo come scopo fondamentale la liberazione del popolo congolese dal regime colonialista e la conquista dell’indipendenza per il nostro Paese. La nostra azione è basata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e riteniamo che il Congo, in quanto società umana, abbia il diritto di essere un popolo libero, tra i popoli liberi”. Lumumba ora parla da leader, si è emancipato dalle gabbie etnocentriche proprie della condizione di évolué e indica la strada della lotta non armata per l’indipendenza anche pochi giorni dopo nella gremita piazza Kalamu a Leopoldville dinanzi a settemila congolesi.

La cerimonia di proclamazione di indipendenza (wikipedia)

Si tratta del primo incontro politico nella storia del Congo: “L’indipendenza che noi reclamiamo nel nome della pace non deve essere considerata dal Belgio come un grazioso regalo. Si tratta del riconoscimento di un diritto che il popolo congolese aveva perduto. Il nostro obiettivo – incalza l’oratore – è quello di unire e organizzare le masse congolesi nella lotta che tende al miglioramento del regime colonialista e di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Alle autonomie tribali Lumumba contrappone la parola d’ordine del Congo unito in un’Africa unita, alla miriade dei movimenti di origine etnica e tribale in lotta tra di loro offre il Movimento nazionale congolese. Per primo intuisce che la lotta per la libertà si sarebbe dovuta basare su tre elementi essenziali: unità nazionale, indipendenza politica ed economica, collegamento con il movimento nazionalista africano. Il Congo aveva spalancato le porte al vento che stava scuotendo l’Africa, sembrava che la coscienza politica finora repressa e assopita si risvegliasse e spronasse all’azione.

Re Baldovino (wikipedia)

L’indipendenza “colonizzata”
Ha raccontato Mwissa Camus, decana dei giornalisti congolesi, che al ritorno dei leader da Accra, la popolazione chiede loro di andare a raccontare ciò che avevano vissuto i primi politici neri usciti dal Congo belga, ma l’autorità coloniale non li autorizza. Il 4 gennaio 1959 a Leopoldville scocca quindi la scintilla della violenta protesta che viene brutalmente soffocata dalla Force publique, ma ormai re Baldovino è costretto ad aprire al lento processo per il riconoscimento dell’indipendenza. Il 30 giugno 1960 il “Congo Belga” cede il passo alla Repubblica democratica del Congo, politicamente troppo giovane e socialmente conflittuale. Lumumba, che nei mesi precedenti aveva accelerato per il riconoscimento dell’indipendenza immediata e totale, non coglie la frammentazione che attanaglia il suo Paese o immagina di superarla tramite un processo di riforme nel quadro di quella struttura forgiata da più di un secolo sugli interessi coloniali, ma le spinte centrifughe di lì a poco esploderanno irreversibilmente.

Foto ufficiale di Lumumba come Primo ministro

Nel discorso di insediamento, che rimane forse l’intervento politico più incisivo e che segna la sua fine, il neo Primo ministro viola l’etichetta della cerimonia per chiarire a re Baldovino che cosa aveva significato il colonialismo belga per il suo popolo: “Noi che abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le frustate che dovevamo subire dalla mattina alla sera, perché eravamo ‘negri’? Chi dimenticherà che al negro si dava del tu non come a un amico, ma perché l’onorevole lei era riservato solo ai bianchi. (…) Chi dimenticherà infine le fucilate che hanno ucciso tanti nostri fratelli o le celle in cui furono gettati coloro che non volevano più sottomettersi a un regime di oppressione, di sfruttamento o di ingiustizia, strumento della dominazione colonialista? Tutto questo, o miei fratelli, noi abbiamo profondamente sofferto. (…) noi che abbiamo sofferto nel nostro corpo e nella nostra anima l’oppressione colonialista, noi vi diciamo che tutto ciò è finito”. Una sfida intollerabile, in un equilibrio di forze precario – sottovalutato dal politico Lumumba – che catalizza contro di lui le opposizioni interne ed esterne allo Stato coloniale.

(Fotocollectie Anefo Reportage)

Nei fatti, l’accordata indipendenza rappresenta il momento di crisi dell’“anno dell’Africa” ed emblematicamente le vicende congolesi avrebbero dimostrato la rapida “capacità riproduttiva” del neocolonialismo. Paradossalmente l’improvvisa fine della dominazione belga determina un vuoto di potere, e la Repubblica Democratica del Congo rimane un apparato istituzionale ed economico forgiato e gerarchizzato dal sistema di dominazione secondo gli interessi coloniali che hanno prodotto anche la parcellizzazione della società. Le élites che vanno al potere con le libere elezioni ereditano questa struttura e le sue asimmetrie. La fragile coalizione fra i partiti dura pochi giorni e cede rapidamente il passo alla tragedia congolese.

Un incontro tra Mobutu e Nixon (wikipedia)

Il Congo nella morsa della Guerra fredda
Lumumba chiede prima aiuto a Washington, che non solo respinge la richiesta, ma la Cia guidata a da Allen Dulles trama per eliminarlo con il tacito sostegno del presidente Dwight Eisenhower, come è emerso dal rapporto della Commissione Church nel 1975 e dai cablogrammi. Di contro Nikita Chruščëv, in un’ottica di posizionamento geopolitico, invia autocarri e aerei. Il Paese è allo sbando, l’economia al collasso. Contemporaneamente la secessione del Katanga prima (in combutta con il Belgio e con gli investitori europei) e del Kasai del Sud dopo (le regioni più ricche del Paese), innescano un processo d’instabilità e disintegrazione. La rottura col governo centrale non è esclusivamente frutto di endogene spinte separatiste. Come infatti avviene spesso in quegli anni nei paesi del Terzo mondo, il disegno governativo di una equa redistribuzione dei profitti delle imprese minerarie viene tacciato (infondatamente) di voler instaurare un sistema socialista.

La miniera di Shinkolobwe, in Katanga (wikipedia)

La regione del Katanga, epicentro dello sfruttamento minerario e della colonizzazione economica (ieri come oggi), rappresenta un tesoro inestimabile, ricco di rame e uranio, oltre a importanti depositi di zinco, cobalto, stagno, oro, tungsteno, manganese e carbone. Negli anni Venti il commercio dell’estrazione della gomma e dell’avorio, in declino sui mercati internazionali, aveva ceduto il passo allo sfruttamento minerario che aveva spalancato la strada al capitalismo industriale di matrice estera producendo il cosiddetto “sottosviluppo”, tipica espressione di economie nazionali dipendenti fondate sul rapporto tra centro e periferia. Il respiro unitario e al tempo stesso regionale e internazionale del disegno lumumbiano viene soffocato dalla convergenza di interessi economici locali ed esteri, e il progetto nazionalista dell’uomo di Stato si rivela asincrono rispetto alla rivendicata “rivoluzione congolese”. Lumumba è un rivoluzionario senza rivoluzione che (rispetto ad altre esperienze) soffre l’assenza dell’identificazione di un nemico comune, della lotta di classe e di un movimento di massa.

Francobollo sovietico dedicato a Lumumba

Non meno rilevante che le sorti della Repubblica Democratica del Congo, da Paese “non allineato”, restino imbrigliate nella ragnatela della Guerra fredda: tra la costruzione del Muro di Berlino e la guerra di liberazione dell’Algeria, tra il Vietnam e Cuba, fino all’inestimabile e conteso commercio di uranio utilizzato sin dai primi anni Quaranta nel Manhattan Project e culminato nella fabbricazione della bomba atomica. A giudizio dello storico congolese Georges Nzongola-Ntalaja il Congo rappresentò un importante elemento della strategia geopolitica di Washington nel contesto della Guerra fredda, mentre l’Unione Sovietica rivolgerà maggiori attenzioni ai movimenti di liberazione nazionale di Cuba, Etiopia e Angola. Su un altro fronte, il timido e controverso intervento delle Nazioni Unite, che non frappongono forze armate all’occupazione belga del Congo prima e del Katanga, poi, come richiesto dal neo Primo ministro, non basta a far rientrare la crisi. Lumumba, anche se isolato e tradito, rimane il simbolo astratto dell’unità nazionale e in quanto tale viene barbaramente eliminato, e il suo corpo sciolto nell’acido da un poliziotto belga su ordine del suo superiore in grado, proprio nel Katanga il 17 gennaio 1961 all’età di trentacinque anni.

Mobutu Sese Seko

La “causa sacra” dell’indipendenza, come la definisce il deposto Primo ministro pochi giorni prima di morire, è persa: “Che morto, vivente, libero o in prigione per ordine dei colonialisti, non è la mia persona che conta. È il Congo, è questo nostro povero popolo di cui si è trasformata l’indipendenza in una gabbia dalla quale il mondo ci guarda dal di fuori, a volte con una certa compassione benevola, a volte con gioia e compiacenza. Ma la mia fede resterà incontaminata. (…) Ai nostri figli che lascio, e che forse non rivedrò più, voglio che si dica che l’avvenire del Congo è bello e che si attende da essi, come da tutti i congolesi, di completare il compito sacro della ricostruzione della nostra indipendenza e della nostra sovranità; poiché senza dignità non vi è libertà, senza giustizia non vi è dignità e senza indipendenza non esistono uomini liberi”. E chiude: “Io so che il mio Paese, che tanto soffre, saprà difendere la sua indipendenza e la sua libertà. Viva il Congo! Viva l’Africa!”. La realtà sarà ben diversa e il Congo post Lumumba conoscerà la feroce dittatura del generale Mobutu Sese Seko dal 1965 al 1997.

La morte del più giovane leader rivoluzionario apre a un decennio drammatico per i movimenti di liberazione del Sud del mondo, al punto che nel giro di pochi anni verranno trucidati tre carismatici leader che hanno segnato la storia del Novecento: Ernesto “Che” Guevara, Amílcar Cabral, Salvador Allende. Solo pochi giorni fa, trascorsi sessantuno anni, le autorità belghe hanno restituito ciò che restava del corpo di Patrice Lumumba, un dente d’oro. Nessuna scusa ancora, tuttavia è un gesto simbolico, un’altra espressione di quel processo di autocritica decolonizzazione culturale, di rovesciamento acentrico dell’analisi della storia, avviato nel 1999 grazie al libro del sociologo belga Ludo De Witte “The assassination of Lumumba” che ha avuto una grande eco nell’opinione pubblica e l’anno successivo ha portato anche all’apertura di una commissione parlamentare d’inchiesta per appurare il ruolo del governo belga nell’intera vicenda. Il Belgio insegna che è doveroso fare i conti con il proprio passato. O almeno provarci.

Andrea Mulas, Fondazione Lelio e Lisli Basso