Per giorni e giorni, a partire dall’11 settembre 1973, si susseguirono in Tv le notizie e le immagini in bianco e nero del cruento colpo di Stato in Cile, che metteva fine al «più bel sogno collettivo» di riscatto ed emancipazione sociale in America Latina, a un inedito tentativo di «via democratica al socialismo», caparbiamente avversato dall’amministrazione statunitense del repubblicano Richard Nixon, sin dalla nascita, nel 1970, del governo di Unidad Popular (UP), guidato da Salvador Allende. Questi, che coraggiosamente morì asserragliato con alcuni suoi collaboratori nel palazzo presidenziale della Moneda, attaccato dalle truppe golpiste del generale Augusto Pinochet, aveva promosso un programma di radicali riforme economico-sociali, colpendo gli interessi dei latifondisti, della multinazionale IT&T e dei gruppi nordamericani che controllavano da decenni la produzione delle miniere di rame.

In particolare, la Cia cercò in ogni modo di gettare nel caos il Paese, mediante il sostegno alla «controffensiva borghese di massa». Foraggiò, pertanto, nell’agosto del 1972 lo sciopero generale dei commercianti, poi quello dei camionisti, elargendo più di un milione di dollari; inoltre appoggiò le azioni terroristiche degli ambienti fascisti (“Patria y Libertad”) e i piani eversivi dei settori militari più accesamente anticomunisti. Con l’avallo degli Usa e dei ceti medi, il cui malcontento era sempre più cresciuto, i golpisti in uniforme rovesciarono sanguinosamente il governo di Allende democraticamente eletto, scatenando una gigantesca “caccia all’uomo”.

Il giornalista inviato Rai in America Latina, Italo Moretti. Raccontò per anni le drammatiche situazioni in Cile, Argentina e Uruguay

Dalle drammatiche radiocronache dell’inviato speciale della Rai, Italo Moretti, tra i primi giornalisti a giungere a Santiago, si apprendeva della violenza ostentata dagli uomini in divisa, della feroce repressione abbattutasi su contadini, operai, insegnanti, studenti (stragi, fucilazioni, esecuzioni sommarie), della deportazione nell’Estadio Nacional di migliaia di malcapitati, barbaramente torturati in quella sorta di lager. Tra questi il popolare cantautore e regista teatrale comunista Victor Jara, ammazzato a colpi di pistola, dopo che i suoi aguzzini gli avevano maciullato le mani.

Un murale in memoria del cantautore, musicista, regista teatrale e poeta cileno Victor Jara assassinato cinque giorni dopo il golpe e dietro un’immagine di sostenitori del presidente Allende arrestati e concentrati nello Stadio Nazionale

Una grande eco ebbero in Italia i fatti cileni. In quelle settimane imponenti cortei percorsero le vie e le piazze della Penisola, che si impegnò in una gara di solidarietà verso quanti venivano travolti dall’ondata di violenze perpetrate dagli arcigni «paladini della sicurezza nazionale».

In Italia, appresa la notizia del golpe, si scese in piazza in molte città
Gl Inti Illimani, un gruppo vocale e strumentale cileno nato nell’ambito del movimento della Nueva Canción Chilena, nei giorni del golpe erano In Italia e vi resteranno per molti anni, costretti all’esilio

Nella prima manifestazione alla quale chi scrive abbia preso parte si ripeteva quasi ossessivamente lo slogan, lungo corso Umberto a Napoli, «Nixon, Frei, Pinochet, assassini tutti e tre», condannando così con pochissime parole responsabili e complici dell’ennesimo, terribile, putsch attuato dai militari nel sub-continente latino-americano. Affollatissimi e molto partecipati i concerti degli Inti Illimani, il gruppo vocale e strumentale cileno costretto a un lunghissimo esilio proprio qui da noi.

Sulla scia dell’emozione sollevata dal golpe in Cile, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, lanciava la proposta di “compromesso storico”, destinata a “tenere banco” nel dibattito politico degli anni successivi. Lo fece attraverso la pubblicazione di un saggio a puntate su “Rinascita” il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre 1973: Riflessioni dopo i fatti del Cile, in cui prospettava la formula non dell’alternativa di sinistra, ma dell’alternativa democratica, cioè di «un nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la maggioranza del popolo italiano» (comunisti, socialisti e cattolici democratici). Si trattava non di un espediente di natura tattica, ma dell’approdo di una meditata elaborazione strategica che, pur traendo spunto dalle nubi incombenti sullo scenario internazionale e interno, si riallacciava alla togliattiana svolta di Salerno del 1944, all’impianto e alla costruzione del Partito nuovo.

Anche lo scrittore Luis Sepulveda, scomparso in Spagna nel 2020 durante l’epidemia Covid, venne arrestato e poi dovette riparare in Europa

È opportuno a questo punto rimarcare un aspetto, su cui non si può assolutamente sorvolare. Ci si riferisce alle numerose e profonde cicatrici lasciate, nelle coscienze e nei corpi, dalla tirannia di Pinochet in una società che, per sedici anni, è stata sotto la cappa plumbea del terrore e dell’ingiustizia, che per tredici – come ci ha ricordato il compianto Lùis Sepùlveda – «ha sopportato il coprifuoco, quasi uno stato d’assedio permanente durante il quale ogni incontro con più di tre persone era un reato sovversivo; la paura come costante regolatrice di qualunque espressione di vita; il silenzio come la migliore forma di sopravvivenza; la delazione come valore patriottico […]» (Storie ribelli, pp. 38-39).

Santiago del Cile, Museo della Memoria e dei diritti umani, sala 11 settembre

Senza dimenticare i drammi dell’esilio (quasi un milione di cileni, un decimo della popolazione, dovette abbandonare la propria terra), dell’uccisione e sparizione nel nulla di migliaia di oppositori e militanti di UP (i desaparecidos), a cominciare dal ventunenne Óscar Reinaldo Lagos Ríos, membro del GAP, il Gruppo di Amici Personali, incaricato di proteggere Allende. Per non parlare poi delle indelebili ferite psico-fisiche inferte dalla crudele pratica della tortura a decine di migliaia di uomini e donne.

La “griglia” usata dagli aguzzini di Pinochet per le torture

Valga per tutte la testimonianza del sindacalista Miguel Lee, imprigionato il 16 settembre 1973: «Sei mesi di totale isolamento, nell’umidità di una cella gelida […]. Sei mesi di torture efferate: dalle scariche elettriche al soffocamento in acqua ed escrementi, alla terribile “falanga”, le percosse sotto i piedi che lasciano dolori incancellabili. Il momento più intollerabile – ha aggiunto Lee – è quando gli aguzzini ti pongono l’aut-aut: o denunci i tuoi compagni o torturiamo la tua famiglia». Sottoposto a questi maltrattamenti e ricatti, il detenuto in genere perdeva la forza di resistere, sentendosi alla fine «privo di dignità, degradato al rango di animale, […], per tutta la vita […] malato di umiliazione e insicurezza. E di sensi di colpa […]». (“Venerdì di Repubblica”, 30 ottobre 1998).

La sistematica, brutale coercizione messa in atto dalla dittatura militare d’estrema destra era anche funzionale all’applicazione, senza che incontrassero nessun tipo d’ostacolo, delle ricette economiche propugnate dai “Chicago boys” guidati da José Piñera, formatisi alla ‘corte’ del monetarista statunitense Milton Friedman. Ben presto e ancor prima che il vento neoliberista soffiasse impetuoso sulle due sponde dell’Atlantico, il Cile si trasformava in una sorta di laboratorio del neoliberismo autoritario, destinato a fare scuola presso le emergenti «tigri asiatiche» e tutto addossato sulle spalle delle classi meno abbienti, che avrebbero pagato elevati costi sociali e umani.

Dopo aver messo in riga l’opposizione politica e sociale, la giunta militare pensò anche, in termini molto interessati, al futuro politico del Paese, introducendo nel 1980 una Costituzione che prevedeva per il 1988 un referendum popolare, al fine di stabilire il mantenimento per altri otto anni di Pinochet al potere o il ritorno al sistema presidenziale. Con questo «capolavoro autocratico», essa si riprometteva di instaurare una “democrazia protetta”, dettando tempi e modalità del graduale passaggio dei poteri ai civili. Il despota cileno non faceva così mistero di voler essere l’artefice di una «patria nuova», in cui le Forze Armate svolgessero il compito – a suo avviso – fondamentale di tutelare “l’ordine” e “la disciplina”, mettendoli al riparo dalla pericolosità dei “sovversivi” e ponendo dei paletti alle spinte riformatrici.
Negli ultimi mesi di governo, dinanzi alla prospettiva di una quasi sicura affermazione alle elezioni presidenziali del candidato dell’opposizione, la giunta militare, per garantire la continuità istituzionale, con una serie di leggi organiche privatizzava e toglieva allo Stato tutto ciò che ancora rimaneva nelle sue mani. Essa è stata, infatti, in grado di condizionare durevolmente il processo di transizione alla democrazia, costringendo i partiti di sinistra e di centro, riaffacciatisi sulla scena politica, a muoversi dentro il quadro istituzionale tracciato dai collaboratori di Pinochet.
Di qui i limiti e l’estrema prudenza dell’operato della Concertación por la Democracia, una sorta di coalizione di centro-sinistra, in cui assumeva un ruolo centrale la Democrazia Cristiana di Patricio Aylwin, insediatosi ufficialmente come presidente il 14 marzo 1990 e indotto, dai risultati delle elezioni parlamentari di quattro mesi prima, a contrattare il sostegno delle formazioni politiche della Destra, che avevano ottenuto la maggioranza assoluta al Senato e una buona percentuale alla Camera.

Negli anni successivi, coincidenti sul piano mondiale con l’età della globalizzazione trionfante, si è puntato di fatto alla conservazione del modello economico neoliberista, varato ai tempi della dittatura e basato sul darwinismo sociale e sull’azzeramento delle conquiste dei lavoratori. Era, questo, il principale risvolto del lungo periodo in cui la rinata democrazia cilena era tenuta sotto la vigilanza del Fondo Monetario Internazionale e delle Forze Armate.
A capo di queste ultime era rimasto Pinochet, divenuto nel dicembre 1989 anche senatore a vita e, in quanto tale, beneficiario dell’immunità per le atrocità commesse.

Il giudice Baltasar Garzón Real

Tuttavia, l’11 dicembre 1998, mentre si trovava in Inghilterra, veniva messo sotto accusa per crimini contro l’umanità, su richiesta del giudice spagnolo Baltasar Garzón. Forte di non pochi appoggi in campo internazionale, tra cui quello della leader conservatrice britannica, Margaret Thatcher, Pinochet nel marzo del 2000 riusciva a tornare nel suo Paese, sottraendosi a un regolare processo. Qui, però, veniva nuovamente incriminato dal giudice Guzmán, anche se quest’ultimo procedimento è stato archiviato il 9 luglio 2001, a causa del «degrado della [sua] salute mentale». Pur essendo finito complessivamente per ben quattro volte agli arresti domiciliari, lo spietato «patriarca» la farà sempre franca, morendo il 10 dicembre 2006 nell’Ospedale militare di Santiago.

Londres 38, uno dei tanti luoghi di tortura a Santiago del Cile

Per i suoi misfatti efferati non ha pagato Pinochet, che è stato uno dei più grandi criminali e violatori di diritti umani del 900. Capace, peraltro, di porre un’ingombrante ipoteca sulla definizione dei caratteri della risorta democrazia, come ha dimostrato la storia recente del Paese latino-americano. Un esito, quello della transizione cilena, per tanti versi molto amaro e deludente, su cui converrà riflettere attentamente per trarne qualche indicazione utile a comprendere transizioni compiutesi altrove, in diversi contesti spazio-temporali, con attori e secondo modalità differenti.

Francesco Soverina, storico