“Tu e io sappiamo che tutto quello che ricordiamo è esistito, anche se non sappiamo se tutto quello che ricordiamo esiste ancora, eppure sappiamo che finché lo ricordiamo esisterà”.
Luis Sepúlveda, Ingredienti per una vita di formidabili passioni

Dettaglio di una lapide commemorativa a Ground Zero (Imagoeconomica)

A circa un mese e mezzo di distanza dal micidiale attentato terroristico di Al Qaeda dell’11 settembre 2001, segnato dalla disintegrazione delle Torri Gemelle di New York e dalla devastazione di un’ala del Pentagono, Aleida Guevara, figlia del “Che”, in un affollato incontro organizzato a Napoli dall’associazione Italia-Cuba, esordì affermando perentoriamente che per lei, come per tutti i latino-americani, c’era un altro 11 settembre, ben più importante da ricordare, quello del 1973, della cruenta deposizione in Cile del presidente democraticamente eletto nel 1970, il medico socialista Salvador Allende, leader di Unidad popular (Up), una coalizione di partiti e movimenti di sinistra.

“Un fatto di portata mondiale” in un anno cruciale
Sul piano mondiale la violenta cancellazione dell’esperienza di Up si è inscritta tra gli eventi più significativi del 1973, ossia di quello che Eric J. Hobsbawm ha individuato nella sua magistrale opera, Il secolo breve, come il momento conclusivo dell’impetuosa espansione economica iniziata nell’immediato secondo dopoguerra, frutto del “compromesso keynesiano” tra il movimento operaio egemonizzato dalle socialdemocrazie europee e i circoli dirigenti del sistema capitalistico [1].

Non si possono, però, non menzionare gli altri avvenimenti che hanno conferito a quell’anno una valenza periodizzante: la guerra dello Yom Kippur, in ottobre, tra Israele e un composito fronte arabo, formato essenzialmente da Egitto e Siria; il conseguente choc petrolifero, con il repentino balzo in avanti del prezzo del greggio e dei suoi derivati; la crisi energetica e le domeniche dell’austerity» [2] con le quali, per attenuare gli effetti della crisi petrolifera, il governo italiano, al pari di altri governi europei, introduceva misure di austerità volte alla riduzione dei consumi energetici, come il divieto di circolazione alle auto di domenica . Il 1973, dunque, si pone come cesura, anche tra una stagione e l’altra del capitalismo nord-occidentale, tra l’assetto fordista e quello post-fordista [3].

Era un quadro internazionale in forte movimento quello in cui la variegata alleanza di sinistra, raccolta sotto le bandiere di Up, si è insediata al governo in Cile alla fine del 1970. Mentre il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt, in un’Europa ancora spaccata in due dalla guerra fredda, portava avanti la sua Ostpolitik nei confronti del blocco sovietico [4], il presidente statunitense Richard Nixon e il suo Segretario alla Sicurezza, Henry Kissinger, imboccavano la via della diplomazia del ping-pong con la Cina di Mao e degli accordi con l’Urss di Breznev per la limitazione degli armamenti nucleari (Salt-1), puntando sull’irreversibilità del dissidio cino-sovietico. Di lì a poco, tra il 1973 e il 1975, usciranno di scena, secondo percorsi abbastanza diversi, le dittature di destra al potere in Grecia, Portogallo e Spagna, rifugi e santuari dei neofascisti italiani.

Richard Nixon durante il viaggio presidenziale in Cina nel 1972 (White House Photo Office Collection)

Intanto, a Parigi, nel gennaio del 1973 Washington stipulava un armistizio con Hanoi, che segnava la vietnamizzazione della lunga guerra in Indocina e precedeva l’umiliazione nordamericana culminata nell’ignominiosa fuga da Saigon il 29-30 aprile 1975. Falliva, così, nel lontano Sud-Est asiatico la dottrina strategica del roll-back (del contenimento del comunismo), messa a punto da John Foster Dulles nel 1952 e mai ufficialmente accantonata dall’establishment statunitense [5].

Un fallimento mitigato dal minaccioso rilancio in America Latina della dottrina Monroe mediante il colpo di Stato contro Unidad popular, con il quale si archiviava sanguinosamente una fase di apertura democratica che aveva riguardato gran parte del continente sudamericano.

I bombardamenti su La Moneda l’11 settembre 1973 (Biblioteca del Congreso Nacional)

Come hanno confermato i documenti desecretati quarantasette anni dopo il golpe in Cile, l’amministrazione statunitense del repubblicano Richard Nixon ha cercato in tutti i modi di bloccare e poi di stroncare il pericoloso esperimento politico-sociale guidato da Salvador Allende, che morirà armi in pugno nel palazzo presidenziale de La Moneda in fiamme. Migliaia di trascrizioni di colloqui, appunti, brogliacci, consigli e direttive, contenute nel fascicolo dell’Nsa (National Security Agency) “Politica sul Cile”, hanno attestato inoppugnabilmente le responsabilità della Casa Bianca nella tragedia vissuta dal Paese andino [6].

Già all’indomani delle elezioni presidenziali del 4 settembre 1970, che avevano visto l’affermazione di Allende con un terzo dei suffragi, Nixon, noto per il suo forsennato anticomunismo sin dai tempi del maccartismo, invitava esplicitamente il direttore della Cia Richard Helms a intervenire, agendo con tempestività, ma nell’ombra: “Vale la pena spendere e rischiare, purché si tenga fuori la nostra ambasciata a Santiago. Se pensa che ne abbia bisogno, posso fare avere alla Cia più dei 10 milioni di dollari previsti» [7].

Allende con la moglie Hortensia

L’assassinio della “reinvenzione della democrazia nel socialismo”
Avversato da Washington e dai gruppi privilegiati cileni, il progetto politico di Allende si riprometteva di conseguire un ambizioso, inedito obiettivo: la radicale trasformazione della società nel completo rispetto della Costituzione e della legalità. Se il Partito socialista, fin dalla fondazione nel 1965 del Mir [8] (Movimento della sinistra rivoluzionaria), combattiva formazione d’estrema sinistra, era favorevole alla “violenza rivoluzionaria”, Allende, pur avendo a cuore la sorte della Cuba castrista, non condivideva la radicalità ideologica del suo partito, ritenendo impraticabile la strategia guerrigliera in un Paese come il Cile, che fino allora aveva mostrato di avere solide tradizioni democratiche. Alla Casa Bianca si temeva che la via cilena al socialismo potesse, da un lato, suscitare fenomeni emulativi in Italia e in Francia, dove esistevano robusti partiti comunisti, dall’altro avviare la messa in discussione della “dipendenza” dell’America Latina dal capitalismo statunitense e portare alla costituzione di un polo antimperialista composto, oltre che dal Cile stesso, dal Messico, da Panama, dal Perù e dall’Argentina [9]. Per tutte queste ragioni la Cia ha giocato la carta della destabilizzazione politica, dell’inasprimento dello scontro sociale, elargendo cospicui finanziamenti segreti all’opposizione cilena. Aizzati dalla propaganda apocalittica della stampa conservatrice e reazionaria, frustrati dalle traversie giornaliere, i ceti medi si rendevano protagonisti di una rabbiosa contestazione della manovra governativa delle sinistre, dando la stura al loro livore antioperaio e anticontadino.

Attivisti di Unidad Popular (wikipedia)

La prima, clamorosa protesta è stata la famosa “marcia delle casseruole vuote” del 2 dicembre 1971, in cui si sono mescolate la paura della borghesia per i provvedimenti presi dall’esecutivo di Allende e le preoccupazioni degli strati intermedi per la brusca impennata inflazionistica, che nell’estate del 1972 toccherà la punta del 300% senza arrestarsi più, e per lo scarseggiare di generi di prima necessità (dal latte allo zucchero, al pane).

(Arquivo Nacional)

Era l’inizio della “controffensiva borghese di massa” [10] in risposta alle drastiche misure adottate, nel giro di pochi mesi, da Up, sotto la direzione della équipe del socialista Pedro Vuskovic: statalizzazione senza indennizzo di tutte le grandi miniere di rame, ferro, salnitro, carbone; espropri per la riforma agraria pari complessivamente al 70% di quelli varati dal democristiano Eduardo Frei nei sei anni della sua presidenza (1964-1970); nazionalizzazione di numerose imprese monopolistiche, aumento dei salari del 30% in termini reali. A rendere ancor più precaria la situazione socio-economica provvedevano il boicottaggio messo in atto dalle multinazionali e la rapida discesa del prezzo del rame (-25%), in seguito all’intervento sul mercato degli Usa, che attingevano alle loro risorse strategiche pur di strangolare il Cile.

Salvador Allende e Fidel Castro (Biblioteca del Congreso Nacional)

Sconfessando la linea del leader del Partito Democratico Cristiano, Radomiro Tomic, della correttezza costituzionale, grazie alla quale Allende era asceso alla presidenza nonostante avesse ottenuto il 36,6% dei suffragi nelle elezioni del 1970, la Dc capitanata dalla fazione di Eduardo Frei si avvicinava al Partito nazionale di Arturo Alessandri e optava per l’appoggio al fronte di lotta piccolo-borghese contro Allende, per la messa in stato d’accusa del presidente e per la sua defenestrazione o per via elettorale o mediante un putsch. Dall’estate del 1972 montava il malcontento dei ceti medi, che sfociava – con il sostegno della Cia – in una prolungata mobilitazione di tipo eversivo. Si acuiva così lo scontro politico e sociale, contrassegnato dalle imprese sediziose dei fascisti di Patria y Libertad, dalla cospirazione dei momios [11]. (letteralmente le “mummie”, i reazionari cileni)  della destra, dall’insorgere delle divergenze tattico-strategiche fra il prudente Partito comunista di Luis Corvalán e le posizioni di ultrasinistra del Partito socialista di Carlos Altamirano, del Mir, del Mapu e della Sinistra cristiana, dal lessico “barricadero” e propensi a intraprendere la scorciatoia rivoluzionaria.

Augusto Pinochet nel 1971 (Biblioteca del Congreso Nacional de Chile)

Infruttuosi si rivelavano gli sforzi di Allende per assicurarsi la neutralità delle Forze Armate, con la nomina prima del leale Carlos Prats a ministro dell’Interno e poi dell’infame Augusto Pinochet alla testa dell’esercito, alla vigilia del golpe che avrebbe messo fine, in un bagno di sangue, alle speranze e ai sogni di tanti cileni. Un esercito, sino a quel momento – e ciò costituiva un’eccezione nel panorama sudamericano – fedele alle istituzioni democratiche, ma il cui corpo degli ufficiali aveva per il 55% effettuato stage negli Usa e per il 18% aveva ricevuto un addestramento speciale antiguerriglia nell’Escuela de Las Américas a Panama. Per impedire qualsiasi infiltrazione sovietica e lo sviluppo di partiti e movimenti di sinistra in quello che consideravano il proprio “cortile di casa”, gli Usa si sono occupati direttamente della formazione tecnica e ideologica dei quadri militari medio-alti dell’intera regione, i cui regimi nel 1980 sono arrivati a controllare con mano ferrea i due terzi della popolazione latino-americana e i tre quarti di quella sudamericana [12]. I loro apparati repressivi, affiancati da gruppi paramilitari, hanno messo in atto in quel torno di tempo un vero e proprio terrorismo di Stato, pianificato dall’alto, contro le articolazioni della società, sopprimendo le libertà, tacitando i sindacati, imbavagliando la stampa, assoggettando a una rigida sorveglianza la scuola, le università e gli intellettuali. Se le vittime degli uomini di Pinochet sono state decine di migliaia, in Argentina – dove tra il 1976 e il 1983 hanno dettato legge sanguinarie giunte militari – soltanto i desaparecidos sono stati circa 30.000 [13] .

Il manifesto dello “Zio Sam”

I paladini della sicurezza nazionale” al servizio dello zio Sam
Con il golpe dell’11 settembre 1973, promosso per sgominare il “giogo marxista”, i militari hanno assunto in Cile la diretta gestione dello Stato, ergendosi a paladini della “sicurezza nazionale”, ma ponendosi di fatto al servizio dello zio Sam. Hanno così instaurato una dittatura che istituzionalizzava il terrore e premiava le multinazionali statunitensi, tra cui l’Itt (International Telephone and Telegraph) [14], consentendo la perpetuazione del saccheggio delle risorse del subcontinente, prima sfruttato dal colonialismo spagnolo, poi dagli imperialismi britannico e nordamericano [15].

A differenza degli altri regimi militari di quell’area, basati sull’avvicendamento e la collegialità al vertice, a Santiago si imponeva ben presto una tirannia personale, con Pinochet alla sommità dello Stato e delle Forze armate. In nome di una “patriottica missione” la dittatura cilena, che sarà la più longeva in quel contesto geopolitico, ha condotto una spietata caccia ai sovversivi, privando della libertà – tra il 1973 e il 1990 – 300.000 persone, espellendone 100.000 o costringendole all’esilio, sottoponendone 50.000 alla tortura, assassinandone o facendone sparire circa 5.000 [16].

I nomi delle vittime di Villa Grimaldi

Nella “Santiago del dolore” Villa Grimaldi è diventata il centro di tortura più grande della capitale e ora è l’unico luogo della memoria in una città che stenta a misurarsi con il suo passato. Dal dicembre 1973 alla fine del 1976 dentro il suo perimetro sono passati 4.500 uomini e donne. “Per molti di loro (è stata) la prima tappa di un viaggio senza ritorno” [17]. A sua volta, il campo di concentramento di Pisagua, nell’estremo nord cileno, si è meritato l’appellativo di “Auschwitz senza forni [18]”. In ciascuna delle sue gabbie sono state rinchiuse dodici, quattordici persone alla volta, legate mani e piedi: larve umane, triturate dalla perversa catena di montaggio sincronizzata dalla razionalità del generale Forestier.

Nella lotta contro i “rossi”, i “sovversivi” e coloro che si sono ostinati ad animare la resistenza clandestina armata, il regime militare cileno si è avvalso della Dina, la potentissima polizia segreta, istituita nel 1974 e diretta da Manuel Contreras, il primo generale che, con il ritorno alla democrazia, è stato riconosciuto colpevole e condannato. Oltre alla repressione all’interno, si è attivato un network del terrore senza frontiere per debellare ovunque “il cancro marxista”. L’accordo occulto tra i servizi di sicurezza di Argentina, Cile, Uruguay, Bolivia, Perù, Paraguay e Brasile, in codice Operazione Condor [19], ha portato all’arresto di 400.000 persone, all’omicidio di 50.000 e alla sparizione di 30.000. Tra i colpi clamorosi messi a segno, gli agguati mortali al generale Carlos Prats, rimasto fedele ad Allende, il 30 settembre 1974 a Buenos Aires, e all’ex ministro degli Esteri, Orlando Letelier, a Washington l’11 settembre 1976.

Enrico Berlinguer (Imagoeconomica, Carlo Carino)

L’eco del golpe cileno in Italia
In Italia destavano una profonda impressione le notizie e le immagini in bianco e nero che arrivavano dal Cile nelle ore e nei giorni drammatici del settembre 1973: La Moneda bombardata, i carri armati per le strade di Santiago, gli oppositori della neonata giunta militare ammassati nello stadio nazionale. Imponenti manifestazioni di solidarietà per le vittime di quel remoto, eppure così vicino, Paese latino-americano venivano organizzate dappertutto. In un corteo a Napoli, il primo al quale io abbia partecipato, si scandivano soprattutto due slogan, espressione del clima di quel tempo: “Nixon, Frei, Pinochet, assassini tutti e tre”, “Compagno Berlinguer ci dicono dal Cile che il compromesso storico lo fanno col fucile”. Se il grande poeta cileno Pablo Neruda poco prima di morire [20], aveva denunciato nei suoi ultimi versi i responsabili e gli artefici del cruento putsch, la sinistra extraparlamentare italiana puntava l’indice soprattutto contro la Dc di Eduardo Frei. L’altro idolo polemico contro cui inveivano gli agguerriti drappelli dell’estrema sinistra era la proposta di “compromesso storico” lanciata dal segretario generale del Pci Enrico Berlinguer attraverso un saggio pubblicato a puntate su Rinascita il 28 settembre, il 5 e 12 ottobre 1973: Riflessioni dopo i fatti del Cile [21], in cui si avanzava la formula non dell’alternativa di sinistra, ma dell’alternativa democratica, cioè di “un nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la maggioranza del popolo italiano” [22]. Si trattava non di una sortita di natura tattica, ma dello sbocco di una ponderata elaborazione strategica che, pur traendo spunto dalle nubi incombenti sullo scenario internazionale e interno, si riallacciava alla togliattiana svolta di Salerno del 1944, all’impianto e alla costruzione del Partito nuovo. La lunga analisi e meditazione sugli infausti eventi cileni nasceva dal tentativo di Berlinguer di mettere a fuoco e praticare una terza via tra la socialdemocrazia dell’Europa nord-occidentale e il socialismo reale dell’Europa orientale.

Gli Inti-Illimani al “Galpón Víctor Jara” nel settembre 2008

A mantenere vivo l’interesse per il caso cileno contribuivano non solo la diffusione di libri e film come Actas de Marusia (1974-75), Missing (1982) e La Casa degli spiriti (1993), tratto dall’omonimo romanzo di Isabel Allende, ma specialmente gli innumerevoli concerti degli Inti Illimani, il gruppo vocale e strumentale cileno sorto nell’ambito del movimento della Nueva Canción Chilena, costretto all’esilio in seguito al golpe ed esibitosi per molto tempo in tutte le piazze italiane. Per coloro che, come me, sono approdati alla militanza politica nelle file della sinistra negli anni Settanta del Novecento, l’America Latina e il Cile si rispecchiavano soprattutto nelle poesie e nei testi di Pablo Neruda, nelle musiche andine degli Inti Illimani, nelle canzoni rivoluzionarie di Violeta Parra e di Victor Jara, quest’ultimo barbaramente ucciso – il 16 settembre 1973 – dai sicari della giunta militare, perché smettesse di suonare la chitarra.

Illustrazione di Carlos Latuff, Allende che difende la Moneda

È indubbio che, all’infuori dell’America Latina, l’Italia sia stata la realtà in cui le dinamiche convulsamente innescatesi allora in Cile abbiano avuto la maggiore risonanza [23].

Notevole, infatti, era l’attenzione prestata all’esperimento cileno: si guardava a esso in una situazione politica che pareva presentare non pochi tratti comuni, in una realtà attraversata da forti conflitti sociali e scossa dalle mene eversive della “strategia della tensione”, destinata a lasciare dietro di sé una lunga scia di sangue e ad avvelenare il clima politico, con frange dell’estrema sinistra pronte ormai a farsi ammaliare dalla sirena del terrorismo pur di frenare quello che esse ritenevano un processo già in atto: la fascistizzazione dello Stato. C’era comunque la consapevolezza – per dirla con le parole del sociologo francese Alain Touraine – che “a questa estremità del mondo, tra la Cordigliera e il Pacifico, [si stessero giocando] i problemi del mondo intiero» [24].

Un peso cileno (wikipedia)

Il laboratorio autoritario del neoliberismo
Sta di fatto che, a ogni modo, il Cile è divenuto un caso paradigmatico, configurandosi come il laboratorio in cui il verbo neoliberista ha trovato la sua prima attuazione, in cui i “Chicago boys” – gli allievi della scuola monetarista di Milton Friedman – hanno potuto applicare una terapia d’urto diretta a contenere la base monetaria, a rilanciare le “leggi bronzee” del mercato e ad agevolare l’afflusso degli investimenti, ai quali sono stati riservati gli stessi privilegi accordati al capitale nazionale [25]. La loro ricetta contemplava l’abolizione di ogni forma di diritto sindacale, lo smantellamento delle garanzie di previdenza sociale e la messa al bando del codice di regolamentazione del lavoro. L’architrave dell’intervento governativo poggiava sul riequilibrio del bilancio statale, sull’apertura delle frontiere, sulla privatizzazione di un numero rilevante di imprese nazionalizzate nel periodo precedente o da tempo pubbliche, sulla requisizione di un terzo delle terre distribuite ai contadini dalla riforma agraria. La drastica riduzione dell’inflazione, la crescita del quadriennio 1976-1980, al tasso medio annuo di circa il 7%, hanno indotto a gridare al miracolo economico, anche se i suoi costi sociali sono stati elevatissimi per le classi meno abbienti. Al pari dei metodi repressivi, quanto si è sperimentato all’ombra della dittatura di Pinochet ha fatto scuola. A questo modello di “libera” economia di mercato senza democrazia si sono ispirate le cosiddette “tigri asiatiche” (Singapore, Taiwan, Corea del Sud), i cui successi si sono fondati sul connubio tra autoritarismo politico e liberismo selvaggio.

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La bocciatura al referendum del 4 settembre 2022 della nuova Costituzione cilena ha lasciato per ora in vigore il testo iperliberista voluto da Pinochet nel 1980, mettendo in notevole difficoltà il giovane presidente Boric, che è stato il principale fautore della stesura di una Carta spiccatamente orientata in senso progressista. Ciò rinvia da un lato alle contraddizioni, alle incertezze che hanno segnato il ritorno del Cile alla democrazia nel 1990, dall’altro alle radici del consenso tributato da una parte del Paese al dittatore, che – anche grazie agli appoggi goduti in campo internazionale – è riuscito sostanzialmente a farla franca, a sfuggire, ad esempio, all’azione giudiziaria del giudice spagnolo Baltasar Garzón, culminata, nel 1998, nella richiesta di estradizione internazionale, sulla base delle accuse nei suoi confronti per la sparizione di cittadini iberici, nonché per crimini contro l’umanità, per corruzione ed evasione fiscale. Le sue vittime, e la loro memoria, aspettano ancora di ricevere il giusto risarcimento.

Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea


[1] E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, traduzione di Brunello Lotti, Rizzoli, Milano 1995. In particolare, la Germania Occidentale, il Giappone e l’Italia – le potenze del Tripartito uscite distrutte dal secondo conflitto mondiale – sono state le protagoniste di veri e propri «boom», di profondi e celeri cambiamenti sul piano socio-economico.
[2] Per attenuare gli effetti della crisi petrolifera scoppiata nell’autunno del 1973, il governo italiano, al pari di altri governi europei, introduceva misure di austerità volte alla riduzione dei consumi energetici, come il divieto di circolazione alle auto di domenica. Su ciò si rimanda a E. Pagano, 1973: le prime domeniche dell’austerity in Novecento.org, n. 8, agosto 2017. DOI 10.12977/nov190.
[3] Mi sia consentito di rinviare a F. Soverina, Tra XX e XXI secolo. La contemporaneità e le grandi crisi, in «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», a. XV, n. 4, ottobre-dicembre 2015, pp. 67-86.
[4] Era la politica di normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca e con gli altri paesi del blocco orientale perseguita dal leader socialdemocratico Willy Brandt a partire dalla fine degli anni Sessanta.
[5] B. Bongiovanni, Compromesso in salsa cilena, in «Diario del mese» (5 settembre 2003), Mai dire 11 settembre, p.  54.
[6] A cinquant’anni dall’elezione a presidente di Salvador Allende la National Security Agency, la madre di tutte le agenzie di intelligence statunitensi, metteva a disposizione del pubblico la documentazione relativa alle trame ordite dall’amministrazione Nixon, sino al coinvolgimento nel golpe, per abbattere il governo di UP.
[7] Citato da G. Sanna, I mille giorni di Allende, in Ordine e terrore. I regimi della paura 2. Brasile, Bolivia, Indonesia, Grecia, Cile, Argentina, El Salvador, in Giorni di storia. Collana de «l’Unità», Roma 2003, p. 99.
[8] Era la politica di normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca e con gli altri paesi del blocco orientale perseguita dal leader socialdemocratico Willy Brandt a partire dalla fine degli anni Sessanta.
[9] B. Bongiovanni, Compromesso in salsa cilena, in «Diario del mese» (5 settembre 2003), Mai dire 11 settembre, p.  54.
[10] A cinquant’anni dall’elezione a presidente di Salvador Allende la National Security Agency, la madre di tutte le agenzie di intelligence statunitensi, metteva a disposizione del pubblico la documentazione relativa alle trame ordite dall’amministrazione Nixon, sino al coinvolgimento nel golpe, per abbattere il governo di UP.
[11] Citato da G. Sanna, I mille giorni di Allende, in Ordine e terrore. I regimi della paura 2. Brasile, Bolivia, Indonesia, Grecia, Cile, Argentina, El Salvador, in Giorni di storia. Collana de «l’Unità», Roma 2003, p. 99.
[12] Si tengano presenti di R. Diez, “Vencer o morir”. Lotta armata e terrorismo di stato in Argentina, il Saggiatore, Milano 2004; e di M. Novaro, La dittatura argentina (1976-1983), Carocci, Roma 2005.
[13] J. Arrate, La dittatura cilena: un governo per le multinazionali in G. Levi (a cura di), Il fascismo dipendente in America Latina. Una nuova fase dei rapporti tra oligarchia e imperialismo, De Donato, Bari 1976, p.118.
[14] Su questo aspetto si consiglia di Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina. Prefazione di Isabel Allende, Sperling & Kupfer, Milano 1997.
[15] In quest’ultimo conteggio, tratto dall’istanza accusatoria nei confronti di Pinochet, il giudice spagnolo, Baltasar Garzón, si è limitato ai casi indubitabilmente certi.
[16] E. Guanella, La Santiago del dolore in M. Chierici (a cura di), Allende. L’altro 11 settembre/30 anni fa, «l’Unità», Roma 2003, p. 94.
[17] Ivi, p. 97.
[18] L. Rossi, F. Cantoni, Operazione Condor. Storia di un sistema criminale in America Latina, Castelvecchi, Roma 2018.
[19] La sua morte è avvenuta il 24 settembre 1973, mentre dilagava il terrore e il Paese finiva per essere avvolto da una cupa spirale repressiva.
[20] È la rivista, ad alta densità teorico-politica, fondata da Palmiro Togliatti nel 1944.
[21] E. Berlinguer, Alleanze sociali e schieramenti politici, in «Rinascita», n.40, 12 ottobre 1973. Il saggio di Berlinguer, Riflessioni dopo i fatti del Cile, è riportato integralmente in R. Mechini (a cura di) I comunisti italiani e il Cile, Editori Riuniti, Roma 1973. Sulla strategia del «compromesso storico» sono da leggere le osservazioni di Lucio Magri, in Idem, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, il Saggiatore, Milano 2009, pp. 275-282.
[22] Cfr.  R. Nocera e C. Rolle Cruz (a cura di), Settantatré. Cile e Italia destini incrociati, Think Thanks edizioni, Napoli 2010. 
[23] A. Touraine, Vita e morte del Cile popolare, Diario di un sociologo luglio-settembre 1973, Einaudi, Torino 1974, p. 134.
[24] E. Comelli, I Chicago Boys all’opera, in «Diario del mese» (5 settembre 2003), Mai dire 11 settembre, cit., pp. 72-77; F Soverina, La democrazia nell’età della globalizzazione e della crisi degli Stati nazionali, in «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», n. 3, luglio-settembre 2011, pp. 30-31; T. Perna, La dittatura dei Chicago boys, in «il Manifesto», 11 settembre 2013.