Il fallimento del tentativo di Salvador Allende di inserire elementi di socialismo nella società cilena e le immagini della violenta repressione dei militari nelle strade di Santiago, avevano prodotto una grave lacerazione nella sinistra socialista e comunista non solo in Cile. Quel tragico epilogo, da un lato, metteva in crisi il tipo di strategia gradualista dominante nei partiti comunisti occidentali, e dall’altro, non riusciva a indicare una strategia alternativa che avesse serie prospettive di successo che non fosse la lotta armata.

Enrico Berlinguer nel 1973

Oltre la forte emozione dovuta alla tragica morte del compañero Presidente, il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer approfittò dell’epilogo cileno per indicare la nuova strategia politica del partito (in realtà la nuova linea politica del Pci era già stata delineata al congresso di Milano del 1972 che lo aveva eletto segretario): «Gli eventi cileni ci sollecitano a una riflessione attenta che non riguarda solo il quadro internazionale e i problemi della politica estera, ma anche quelli relativi alla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e socialista del nostro Paese». Il segretario comunista traeva dalla tragedia politica del Cile «utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfondito giudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica del movimento operaio e democratico in vari Paesi, tra cui il nostro». In altre parole, si trattava di evitare che si rafforzassero, anche in Italia, le condizioni di una politica reazionaria che avrebbero potuto condurre a una crisi del sistema politico, istituzionale e sociale. Quindi il segretario indicava come compito essenziale del Pci, quello di «estendere il tessuto unitario, di raccogliere […] la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. […] In pari tempo, solo percorrendo questa strada si possono creare fin d’ora le condizioni per costruire una società e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio e lo sviluppo di tutte le libertà». Questo era il riferimento più chiaro che faceva emergere la similitudine tra il processo “rivoluzionario” cileno di Allende e la strategia “democratica” di Berlinguer, in quanto anche i comunisti e i socialisti cileni – seppur con linguaggi e forme diversi e distanti tra loro – si erano proposti di perseguire una via democratica al socialismo.

1971, una delle manifestazioni contro il terrorismo e le “trame nere”. C’era stata la strage di Piazza Fontana, ne sarebbero seguite altre nel corso degli anni 70, fino a quella della Stazione di Bologna del 1980 (Cgil Forlì)

La preoccupazione fondamentale espressa da Berlinguer nel 1973 era quella di dar vita a uno schieramento politico e sociale che rendesse impraticabile uno “scontro frontale” tra conservatori e moderati in forme tali da favorire una saldatura tra le forze «che si situano dal centro all’estrema destra»; in altre parole, si doveva «evitare la divisione verticale del Paese e [quindi] impegnarci con ancora maggior decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza tra tutte le forze popolari». A tal fine il segretario proponeva un «nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano», che si richiamava ai principi della coalizione antifascista delle origini della Repubblica, e da cui era nata la Costituzione repubblicana.

Nell’Italia stretta nella morsa di un risorgente neofascismo strisciante, trame eversive, servizi segreti deviati, manipolazioni e attentati terroristici il faticoso dialogo a distanza tra le due maggiori forze democratiche parlamentari, la Dc e il Pci, venne inaugurato dal segretario Berlinguer con le Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile pubblicate su “Rinascita” in tre diversi celebri articoli nel settembre-ottobre 1973. Guardando al Cile, secondo questa analisi, comunisti e socialisti insieme non potevano sperare di governare il Paese con il 51% dei voti o poco più, al contempo la Democrazia cristiana rappresentava un partito che non si sarebbe dovuto vedere come una «categoria astorica», ma come una realtà «non solo varia ma assai mutevole»; in poche parole poteva essere convinta a collaborare con le sinistre nella difesa delle istituzioni repubblicane.

Il simbolo del Pci disegnato nel 1953 da Renato Guttuso ha rappresentato l’emblema del Partito comunista italiano fino al suo scioglimento, nel 1991

Nel corso degli anni la storiografia più volte è tornata ad analizzare la proposta berlingueriana, sottolineandone gli errori tattici e i limiti strategici, ma come ha giustamente fatto notare Aldo Agosti, questa «prima versione» del «compromesso storico» aveva un «carattere prevalentemente difensivo» e solo in seguito Berlinguer l’avrebbe arricchita di contenuti più ambiziosi, auspicando un superamento del capitalismo attraverso l’introduzione di «elementi di socialismo» nell’economia, oltre al fatto che si presentava con una dimensione non limitata all’orizzonte nazionale, bensì destinata a investire la politica europea e mondiale. Il segretario lo aveva chiarito al XIV congresso: «la strategia del compromesso storico va oltre la questione della partecipazione comunista al governo è […] una linea valida al di là della formazione di una nuova maggioranza, una linea idonea ad affrontare e risolvere correttamente e positivamente i problemi più pressanti del Paese».

Al di là dei blocchi: Praga chiama Santiago del Cile
Con questa proposta il segretario comunista intendeva incunearsi nella logica della divisione bipolare che contrapponeva i due emisferi, cercando di dare una conformazione nuova e inedita sia al governo nazionale che alla politica internazionale dei comunisti italiani. Il cosiddetto «superamento dei blocchi» era inviso tanto al Dipartimento di Stato statunitense quanto ai comunisti sovietici. Al di là delle teorie complottiste, è un fatto che il 3 ottobre 1973 a Sofia, di ritorno da un incontro tesissimo con il capo dei comunisti bulgari, lungo la strada per l’aeroporto la vettura su cui viaggiava Berlinguer incorse in un violento incidente stradale e per pura casualità il mezzo non precipitò dal cavalcavia. Il segretario ne uscì illeso e la notizia, comunicata al presidente del Consiglio Rumor e al ministro degli Esteri Moro, trapelò con un’intervista rilasciata a “l’Unità” dalla vedova di Berlinguer solo nel 1991. Secondo lo storico Giuseppe Vacca «si può fondatamente ritenere che i servizi segreti bulgari, d’intesa con quelli sovietici, pensassero di fermare Berlinguer simulando un incidente stradale». Un avvenimento che oggi consideriamo “minore”, ma che avrebbe sicuramente modificato il corso delle politiche nazionali e internazionali qualora avesse avuto un diverso epilogo.

Questo era il clima da “guerra fredda” nel quale si muoveva la politica di avvicinamento tra Moro e Berlinguer, tra il mondo comunista e quello democristiano, tra porzioni maggioritarie della società fino ad allora ostili. Un contesto caratterizzato al contempo da forti tensioni sociali (si pensi alla crisi petrolifera, alla “legge sulla casa”, al referendum sul divorzio, alla crisi recessiva, alla legge n. 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza) e atti terroristici, tanto che sono state calcolate solo dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) fino alla metà del 1972, ben 271 esplosioni dinamitarde. Come ha recentemente sottolineato Benedetta Tobagi citando Norberto Bobbio, la «degenerazione del nostro sistema democratico» che caratterizzò quegli anni passò anche per la bomba di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) fino a culminare nei tragici eventi del 1978. In generale, negli anni Settanta, hanno rilevato Marcello Flores e Nicola Gallerano, «vi fu un intreccio originale e per certi versi inedito tra sovversivismo sociale e richiesta di espansione delle libertà civili, la cui ampiezza e la cui portata non si riducevano alle proteste e alle forme di lotta cui davano luogo».

Roma, 28 giugno 1977. Una stretta di mano tra il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro, i principali fautori dell’opera di riavvicinamento tra le rispettive (e opposte) forze politiche, il Pci e la Dc

Non è possibile ripercorrere tutti gli episodi politici e non, su scala nazionale o internazionale, che hanno marcato e inciso in diversa misura sulla politica italiana degli anni Settanta. Il lessico politico targato «compromesso storico» si faceva sempre più incisivo mano a mano che Moro e Berlinguer intrecciavano la tela del superamento della conventio ad excludendum e dell’inevitabile allontanamento da Mosca in chiave democratica: «non sfiducia», «attenzione dovuta», «confronto interessante», «politica di distensione», «terza fase», «convergenze parallele». Questi passi fecero progressivamente alzare la soglia di attenzione anche da parte di alcuni Paesi Nato. Per delineare il delicato contesto entro cui si muovevano i due leader, merita fare riferimento a un’approfondita ricerca di pochi anni fa di Andrea Ambrogetti che ha fatto emergere la documentazione intercorsa tra il Dipartimento di Stato guidato da Henry Kissinger e il Foreign Office britannico. Spicca tra tutte il paper “Italy and communists: options the West – Secret” (aprile 1976) nel quale si prendevano in considerazione alcune opzioni, «mezzi di persuasione e dissuasione», nel caso di inclusione di ministri comunisti nel governo: «La libertà delle potenze occidentali di prendere azioni contro lo sviluppo di partiti comunisti in occidente è dovuta alla necessità di rispettare e proteggere i principi e gli interessi fondamentali che crediamo siano minacciati dal comunismo, sia nella forma dell’Unione Sovietica, sia in quella di partiti comunisti occidentali». La divisione geopolitica degli emisferi rappresentava lo scacchiere entro cui muoversi, e due episodi fortemente simbolici avevano tracciato le linee di confine.

Praga, agosto 1968

Sia il massiccio intervento sovietico di Praga nell’agosto 1968 che aveva represso le riforme di Dubček (la più imponente operazione militare che avesse avuto luogo in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha rilevato Agosti), che il violento colpo di Stato cileno nel 1973 che aveva soffocato la scoordinata ma democratica «transizione al socialismo» allendista, avevano chiaramente dimostrato l’illusorietà della speranza di un’evoluzione democratica dei Paesi comunisti e contemporaneamente la scarsa propensione dell’Occidente a incoraggiare e sostenere processi di questo tipo. I fatti cileni parlavano chiaro: anche all’interno dell’emisfero “democratico” il cambiamento politico incontrava un confine oltre il quale nell’epoca della Guerra fredda non era lecito spingersi.

Andrea Mulas, storico Fondazione Basso