Nella materia giuridico-istituzionale esistono dei principi che fungono da discrimine rispetto alla qualificazione dello Stato – inteso come comunità organizzata di cittadini – e la cui differenziazione porta a ritenere tale Stato come democratico o totalitario. Nell’accezione più comune di tale definizione lo Stato totalitario corrisponde a una comunità dominata da una non discutibile detenzione permanente del potere politico, in grado di imporre ai cittadini le regole di organizzazione e convivenza.

(Imagoeconomica, Clemente Marmorino)

Lo Stato democratico invece è quello che si fonda su periodici orientamenti della maggioranza dei cittadini, ritenuti soggetti liberi, pensanti ed eguali, ma contempla anche che tale maggioranza possa divenire minoranza ed essere sostituita da altri soggetti e/o schieramenti.

(Imagoeconomica, Carlo Lanutti)

È proprio tale presupposto di interscambiabilità o comunque di possibile e agevole modificazione delle maggioranze a costituire il punto nodale del sistema democratico, che si differenzia dal totalitarismo per la sua dinamicità, dipendente dal divenire degli orientamenti politici dei cittadini. Non per questo una società politica democratica si deve caratterizzare per la continua modificazione dei suoi indirizzi di governo, cioè con la prevalenza di taluni orientamenti politici, ma ciò dipende in buona parte dalla capacità di chi è al potere, in quanto attuale maggioranza, di rapportarsi alle esigenze e agli interessi dei cittadini, interpretandoli correttamente e traducendoli in atti politici e amministrativi condivisi.

Dunque può ritenersi democratico anche uno Stato in cui, per decenni e decenni, lo stesso partito politico risulta liberamente preferito dalla maggioranza degli elettori, mentre non si ritiene democratico uno Stato in cui un solo partito politico governa per lungo e indefinito tempo, ma senza controllo democratico e possibilità di ricambio.

Stabilito ciò, si deve però considerare che quei saggi principi, che costituiscono l’abc della distinzione politologica tra le due diverse tipologie di Stato sopra menzionate, qualora vengano interpretati in modo rigido e forzato, possano trasformarsi da rassicuranti regole che garantiscono una vita istituzionale equilibrata e ordinata, nel pieno rispetto dei diritti del cittadino, in tragiche farse che della democrazia non hanno più nulla.

Un chiaro esempio, che funge da paradigma di quanto appena affermato, è la cosiddetta “dittatura della maggioranza”; cioè l’affermazione che la maggioranza politica che esce vincitrice dalle elezioni abbia l’assoluto potere di disporre a tutto campo delle leggi dello Stato, dei vari e complessi settori dell’amministrazione, della dirigenza e controllo dei minori enti pubblici che fanno capo allo Stato e al suo Governo, sino addirittura a voler condizionare le scelte e il funzionamento di quello tra i poteri dello Stato che deve essere più autonomo e protetto; e cioè la magistratura.

Uno Stato democratico, nel senso integrale di tale termine, oltre a riconoscere e tutelare i diritti dei propri cittadini, nella indispensabile condizione dell’eguaglianza degli stessi – eguaglianza che ben si intende come sostanziale, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione – deve tenere presente che i propri cittadini, i quali devono potere esprimere un voto del tutto libero in coerenza con le proprie opinioni politiche, non sono solo coloro che hanno votato il partito o la coalizione di governo, ma tutti quanti gli elettori e perfino quanti non hanno esercitato tale diritto-dovere o non possono farlo perché minorenni.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Dunque, è dovere del governo eletto non solo garantire a tutti, senza distinzione alcuna, l’esercizio dei diritti fondamentali, ma anche di svolgere i propri compiti tenendo conto dell’orientamento e degli interessi dell’intero elettorato e di tutta la cittadinanza.

Quando l’articolo 1 della Costituzione dichiara “la sovranità appartiene al popolo…” non intende affatto conferire tale somma facoltà solo a chi ha votato per il governo in carica, bensì a tutto il popolo, inteso come comunità. Sembra invece che chi ci governa (e non solo attualmente, ma già dai primi anni 2000) si ritenga autorizzato, in nome di un’investitura elettorale che non è affatto un’investitura della sovranità popolare ma molto meno, a disporre dello Stato, delle sue leggi (Costituzione compresa) e della sua organizzazione e relative articolazioni, in modo pieno e assoluto.

Un popolo (quello che ha la sovranità) è una collettività di persone che hanno idee, propensioni, interessi molti diversi e la funzione del governare – che comprende proprio il dotare lo Stato di leggi, amministrandole oculatamente – presuppone che si governi in nome dell’intero popolo e non in nome delle peraltro momentanee propensioni dei propri elettori e sostenitori.

(Imagoeconomica, Giulia Palmigiani)

E così i programmi elettorali, con i quali si conquista il consenso degli elettori, non sono e non devono essere la clava con la quale percuotere e abbattere coloro che hanno opinioni e programmi diversi ma, una volta che chi li propone divenga forza di governo, debbono a loro volta divenire la sintesi degli interessi prevalenti in tutta la cittadinanza, e non solo a beneficio e per la soddisfazione di chi ha votato i partiti al governo.

(Imagoeconomica, Livio Anticoli)

E ciò a maggior ragione in una fase storica in cui l’esercizio attivo del diritto di voto è in regresso e spesso le stesse maggioranze elettorali (quasi sempre relative) rappresentano poco più della metà degli aventi diritto al voto e non danno rappresentanza a larghe fasce di cittadini, delusi e confusi. Per di più con un Parlamento ridotto nei numeri da un malinteso referendum popolare indetto in modo populistico e qualunquista.

(Imagoeconomica, Vincenzo Livieri)

Infatti, con una simile concezione dell’investitura politica, diviene possibile fare leggi “ad personam” o emanare provvedimenti di natura amministrativa ed economica che favoriscono grandi elettori del partito (o dei partiti) di governo; legittimare provvedimenti che rendono stabili, consolidano, o addirittura perpetuano posizioni di potere dalle quali trarre vantaggio politico futuro. Ma ciò che più preoccupa di una simile concezione della propria investitura elettorale sono i riflessi sul piano istituzionale e costituzionale.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

Ho già scritto in precedenza come alcuni meccanismi e procedimenti amministrativi – alcuni dei quali di grande importanza – vengono sempre più spesso saltati a piè pari mediante le nomine di Commissari o con l’istituzione di non meglio identificate “Cabine di regia”. Cioè, là dove è previsto un confronto dialettico democratico tra enti e istituzioni a ciò deputati dalla legge per affrontare alcuni problemi (grandi opere pubbliche, per esempio) si procede con diffuso fervore a nomina di “commissari”, dotati di poteri straordinari e dunque fuori da ogni controllo politico, che dovrebbero procedere per fare avanzare la realizzazione dell’obbiettivo. In altri termini, si procede con logiche e provvedimenti emergenziali anche quando non vi è alcuna emergenza, al solo scopo di eludere le norme ordinarie e il confronto istituzionale democratico. Senonché i Commissari risultano quasi sempre essere persone obbedienti al potere politico e ai poteri amministrativi centrali, con buona pace dei principi del decentramento amministrativo che presuppone che ciascuna parte del Paese venga amministrata, nei limiti costituzionali, dalle istituzioni democratiche locali.

Palazzo Montecitorio (Imagoeconomica, Leonardo Puccini)

Invece le nomine di “commissari e registi” determinano proprio la fine dell’autonomia politica locale e dei relativi processi di elaborazione, la cui lentezza non sempre è un fatto negativo, ma corrisponde alla ricerca della soluzione più idonea e condivisa a raggiungere lo scopo. Ma, ancor più il tema si fa delicato e cruciale allorché si parla di riforme istituzionali.

Non bastava che la rappresentatività dei cittadini fosse stata taglieggiata dalla riduzione dei membri delle Camere, con conseguente inevitabile vantaggio del potere esecutivo; adesso si vuole addirittura modificare il fulcro centrale del nostro apparato istituzionale, rendendo il potere esecutivo (cioè il governo politico), non solo indipendente dall’organo rappresentativo dei cittadini tramite l’elezione diretta, ma di farlo divenire il potere centrale e prevalente tra quelli attribuiti allo Stato.

(Imagoeconomica, Carlo Lanutti)

In altri termini la repubblica parlamentare, che prevede che il governo politico dello Stato sia espressione della maggioranza – anche politicamente composita – degli elettori dovrà cedere il passo a un Capo di Governo che, investito dal voto popolare del momento, avrà sostanziali poteri di controllo nel Parlamento, addirittura con il potere di scioglierlo, come prevede il cosiddetto “premierato”, che è già concretamente da tempo nell’agenda politica nazionale e che a breve approderà in CdM.

Dicembre 1947, il Capo dello Stato, Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana

Ma qui viene in evidenza la concezione predatoria e autoritaria di chi ritiene che, avendo la maggioranza elettorale, si abbia anche la sovranità popolare. Si opina così che chiunque abbia ricevuto un momentaneo successo elettorale, e che forse alle successive elezioni non lo avrà più, possa modificare a suo piacere e servizio la Carta fondamentale, che costituisce il patto fondante dello Stato democratico.

(Imagoeconomica)

Ora, bisogna capire che una comunità nazionale (e non nazionalistica, come qualcuno vorrebbe) è costituita da un articolato complesso di situazioni politiche e sociali, di condizioni economiche, e che è opportuno che tutte quelle circostanze trovino idonea rappresentanza, secondo i principi di democrazia e uguaglianza.

Solo in tale modo si potrà avere un dibattito, nelle massime istituzioni statali, che preveda leggi e provvedimenti equilibrati che contemperino i vari diversi, e talvolta contrapposti, interessi. E ciò comporta discussioni di necessaria ampiezza, con i relativi tempi.

Protesta contro il Rosatellum, 2017 (Imagoeconomica, Raffaele Verderese)

Da qualche decina d’anni sembra invece che l’attenzione della politica sia rivolta all’aspetto della rapidità delle decisioni. Ma spesso la tempestività a tambur battente non si accorda con la completezza, chiarezza ed equilibrio del provvedimento approvato, con la conseguenza che, o si emanano provvedimenti imperfetti, o si deve successivamente provvedere a colmarne le lacune. Per assicurarsi tale lacunosa rapidità, buona parte delle forze politiche oggi puntano su una maggiore efficienza e operatività del Governo, ma ciò va ovviamente a discapito del controllo democratico del Parlamento, che è l’organo rappresentativo proprio di quel popolo che ha la sovranità e che si vorrebbe restringere a coloro che hanno votato i partiti di governo.

E allora bisogna rispolverare con ben altre letture quel concetto di sovranità popolare, che non significa affatto sovranità di chi vince le elezioni, ma anche di chi, anche a causa di meccanismi e regole elettorali assai discutibili, ha minore rappresentanza politica nelle istituzioni rappresentative. E ciò ha una ricaduta anche sulle norme che regolano la vita della collettività, la quale deve essere considerata non come entità diversificata politicamente, ma come un unico grande interlocutore della politica.

Roberto Calderoli accompagnato dai consiglieri della Lega davanti alla Corte di Cassazione per il referendum sull’abolizione della quota proporzionale (Imagoeconomica)

In altri termini, chi gestisce il potere statale non può agire con leggi e provvedimenti solo nei termini graditi al proprio elettorato, ma deve agire nell’interesse di tutti i cittadini. Per chi governa, infatti, i cittadini sono tutti quanti i consociati, e non solo quelli che hanno votato per quella parte politica. Dunque ogni riforma si deve fare nell’interesse di tutti i cittadini, perché la comunità è fatta di maggioranze politiche ma anche di minoranze e postula il pluralismo delle idee.

Pietro Ingrao. Storico dirigente del Pci, è stato Presidente della Camera dal 1976 al 1979

Nel corso della tanto aborrita “Prima Repubblica” questo concetto era assai chiaro; infatti vigeva la regola che nelle istituzioni ci fosse sempre posto anche per l’opposizione. L’esempio più evidente era costituito dalla presidenza delle due Camere parlamentari; una presidenza spettava alla maggioranza uscita dalle precedenti elezioni, e una presidenza spettava alla minoranza all’opposizione.

Ma ciò che più conta è che non possono, per ogni legislatura che si avvicenda, essere modificate le leggi fondamentali che regolano la vita dei cittadini, perché l’impianto legislativo di uno Stato non è qualcosa che si plasma sulla base della volontà della maggioranza politica del momento. Codici civili e penali, codici di procedura, leggi in materia pensionistica, norme sugli appalti di opere pubbliche e molte altre ancora, non sono disposizioni buone per un’unica stagione, ma debbono garantire diritti e prerogative dei cittadini per periodi ben più lunghi di una o due legislature.

Anche la stessa legge elettorale, modificata per ben quattro volte negli ultimi 20 anni, non può essere uno strumento a disposizione degli interessi politici di parte del momento. E ancor più la Costituzione, che è il patto fondamentale che dà le regole fondamentali per lo svolgimento della vita della comunità nel tempo, prova ne sia che la stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America, sopravvive, nei suoi contenuti originari, dai tempi della rivoluzione americana, e cioè dalla fine del 1700.

Nel progetto di riforma che approderà in CdM venerdì 3 novembre 2023, il Presidente della Repubblica sarà poco più di un notaio

In conclusione, e per tornare ai concetti espressi in apertura, le leggi dello Stato non sono uno strumento per perpetrare il proprio potere compiacendo il proprio odierno elettorato. Sono lo strumento per governare la vita di una complessa comunità che è fatta di cittadini benestanti ma anche di meno agiati; di persone di diverse opinioni religiose e politiche; di culture e origini diverse, ma che hanno tutti pari dignità e diritti. Intervenire sulla legge significa dare a tutti le stesse opportunità, facoltà, diritti e anche doveri.

(Imagoeconomica)

Non si tratta dunque di mantenere il consenso elettorale, comunque sempre più ristretto per il progressivo preoccupante calo del numero dei votanti, ma di governare nel modo maggiormente condiviso da parte della collettività, come invece auspica la Costituzione, la cui preoccupazione principale non risiede nella tutela di chi ha, bensì di chi non ha, indipendentemente dalla quantità di rappresentanza politica, perché la pari dignità dei cittadini è un fatto giuridico che non deve dipendere da fattori economici, ma deve riguardare proprio chi non ha i mezzi per conseguirla. L’articolo 3 il cui il 2° comma inizia con l’allocuzione “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…” è un vero a proprio manifesto della principale motivazione costitutiva e fondante della Repubblica Italiana.

La parodia di Hitler e Mussolini nel capolavoro di Chaplin “Il Grande Dittatore”

Stravolgere quello spirito e quei principi in nome di interessi particolari, contingenti e transitori, significa abbandonare il dettato di quella Carta, che non solo ha introdotto i principi della democrazia nel nostro Paese ma ha fatto sì che, seguendo quella strada, l’Italia sia diventata uno degli Stati più importanti del mondo. Ma se tale fosse l’intento di chi ambisce a governare questo Paese, bisognerebbe ritenere che è in corso una vera e propria tendenza a rifondare uno Stato totalitario. Abbiamo però fiducia che il popolo sovrano questa volta possa respingere quella odiosa tentazione.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi e socio di Libertà e Giustizia