Il 13 settembre è morto a Roma Ermanno Rea, giornalista, scrittore, uomo di cultura. Rea era nato a Napoli il 28 luglio del 1927 e aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza nel popolare rione Sanità, noto per le antiche tradizioni che affondano le radici nella origini della città, per i monumentali palazzi del Settecento, e per aver dato i natali a Totò.
Il giovanissimo Ermanno, figlio di un piccolo imprenditore di idee socialiste, diventato militante comunista, aveva appena 13 anni quando l’Italia entrò in guerra il 10 giugno del ’40. Il padre del futuro autore di “Mistero napoletano”, uomo di grandi passioni, decise di liquidare la sua attività aziendale di vernici e pennelli e di trasferirsi a Massa Carrara, dove divenne rappresentante del Pci nel Comitato di Liberazione. Ermanno, seguendo le orme paterne, entrò nella Resistenza con il compito, come raccontò in un’intervista a Paolo di Stefano, di educare al marxismo i partigiani più giovani. Terminata l’esperienza resistenziale, tornò nella sua città natale, ed iniziò una brillante e lunga carriera muovendo i prima passi presso la redazione napoletana dell’Unità che, in quegli anni, era sita all’Angiporto Galleria, un vicoletto della centralissima via Toledo.
Il quotidiano del Pci era una grande scuola di giornalismo, aveva nelle sue redazioni giovani di straordinario talento, intellettuali pieni di passione e di fervore militante, che avrebbero, nei decenni successivi, avuto un ruolo molto importante nella cultura italiana e nel mondo del giornalismo. A Napoli erano in redazione Franco Prattico, Renzo Lapiccirella, Francesca Spada e Nino Sansone, un umanista pugliese che fu capocronista dal 1952 al 1959, dopo aver lavorato per alcuni anni alla Voce, quotidiano di sinistra, diretto da Mario Alicata, giornale che chiuse i battenti qualche mese dopo la sconfitta del Fronte popolare. Rea avrebbe parlato di quella sua esperienza, umana professionale e politica, nel suo libro più famoso “Mistero napoletano”.
Da giovane redattore dell’organo del Pci, Ermanno avrebbe conosciuto molti dirigenti comunisti dell’epoca, da Salvatore Cacciapuoti a Carlo Obici, da Maurizio Valenzi a Mario Palermo, da Abdon Alinovi ad Angelo Abenante, suo coetaneo, militante proveniente da Torre Annunziata, comune vesuviano della provincia di Napoli. Intorno alla redazione dell’Unità ed alla federazione napoletana del Pci gravitava un mondo intellettuale ricco di fascino, la cui principale figura era il professore universitario Renato Caccioppoli, illustre matematico, nipote di Bakunin, antifascista e comunista.
Nelle elezioni amministrative del ’52, svoltesi con la legge maggioritaria voluta da De Gasperi e Scelba, importanti comuni del Mezzogiorno furono conquistati dalle destre, quella monarchica e quella neofascista, coalizzatesi per l’occasione. A Napoli Achille Lauro sconfisse sia la Dc e le altre forze moderate di centro, sia comunisti e socialisti. Dal luglio del ’52 sino ai primi anni Sessanta, il laurismo avrebbe fortemente condizionato i destini della città. In un clima pesante determinato dall’arroganza padronale laurina, il Pci conduceva la sua azione di contrasto alle politiche centriste dei governi degasperiani e all’amministrazione monarco-fascista. Sull’analisi del capitalismo italiano, sulla questione meridionale, sul tipo di opposizione da sviluppare nel Mezzogiorno e nel Paese si aprì un serrato dibattito, che assunse anche toni di aspra polemica, all’interno della federazione napoletana comunista, un dibattito che vide il confronto e poi lo scontro tra le posizioni di Giorgio Amendola, allora segretario regionale della Campania, e quelle di un gruppo di giovani intellettuali che facevano capo a Guido Piegari, laureato in medicina e studioso di biologia, e Gerardo Marotta, avvocato. A quel duro confronto, che vide la sconfitta del “Gruppo Gramsci”, Rea avrebbe poi dedicato alcuni tra i suoi migliori libri.
Dopo i fatti di Ungheria, il giovane redattore napoletano, scosso dagli avvenimenti, lasciò, come fecero Antonio Ghirelli e Mario Pirani, più anziani di lui di qualche anno, la stampa comunista per entrare nelle redazioni dei grandi quotidiani e settimanali di informazione. Rea collaborò al Mondo di Mario Pannunzio, dove, con Caio Mario Carrubba e Giancarlo Scalfati, diede vita al fotogiornalismo italiano del dopoguerra. Conclusa quell’importante esperienza, fu poi nelle redazioni del Giorno, il quotidiano dell’Eni, del giornale finanziario Il Globo, e di Panorama, allora diretta da Lamberto Sechi.
Negli anni Novanta ebbe inizio la seconda vita di Ermanno Rea, che, lasciò la sua attività di cronista attento alle trasformazioni della società italiana, per dedicarsi alla scrittura di libri, con la quale volle indagare ed approfondire la realtà, ritornando anche sulle sue esperienze passate per leggerle in una prospettiva diversa, di maggiore respiro storico. Da questo nuovo corso, nacquero opere molto interessanti come l’avvincente ricostruzione della scomparsa dell’economista Federico Caffè, sparito nel nulla il 15 aprile del 1987. A quella vicenda misteriosa che, per certi aspetti, ricorda l’allontanamento volontario del fisico Ettore Majorana, Rea dedicò “L’ultima lezione” uscito nel ’92. Seguì poi “Mistero napoletano” (1995), la sua opera più nota, intorno alla quale nacque un dibattito sulle pagine culturali dei più importanti quotidiani.
Come già detto in precedenza, Rea ricostruì con un lavoro complesso di indagine, di scavo, di ricerca la tragica vicenda umana di Francesca Spada, donna sensibile e bellissima, moglie di Renzo Lapiccirella, funzionario della federazione napoletana comunista, laureato in medicina, intellettuale di grande intelligenza. Francesca Spada, che aveva lavorato all’Unità ed era stata quindi collega di Rea, aveva un rapporto difficile e tormentato con il partito, che non l’aveva mai totalmente accettata e che di lei diffidava perché era stata, prima di unirsi a Lapiccirella, la moglie di un fascista. Nel libro Rea descrisse la vita familiare, politica e culturale di Francesca, dall’incontro con Renzo sino al suicidio avvenuto nel ’61 nella casa dei Camaldoli, ma offrì al lettore anche un affresco della Napoli degli anni Cinquanta. “Mistero napoletano” pone interrogativi continui al lettore, che, coinvolto emotivamente ed intellettualmente, è spinto ad approfondire le vicende della città, l’influenza che sul suo sviluppo economico, sociale e produttivo ha avuto l’installazione della base Nato, la storia della federazione napoletana del Pci, dei suoi quadri dirigenti. Con “Mistero napoletano”, Rea ottenne, nel ’96, il premio Viareggio.
Su Napoli lo scrittore-giornalista sarebbe poi tornato per approfondire alcuni aspetti della dismissione dell’Ilva di Bagnoli, l’acciaieria luogo simbolo dell’industria meridionale, che aveva dato lavoro a migliaia di napoletani. “La dismissione” (2002) – libro al quale Gianni Amelio s’ispirò per il film “La stella che non c’è” – è un romanzo sul declino dell’industria tradizionale e sulla crisi esistenziale che tale fenomeno provoca in chi ha lavorato un’intera vita in fabbrica quasi identificandosi con essa e con i suoi ritmi. Sempre alla sua città natale Rea dedicò “Napoli Ferrovia” (2007), che in qualche modo chiude la trilogia iniziata con “Mistero napoletano”. Sulla vicenda di Guido Piegari, Rea tornò con “Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta”, uscito nel 2014. A breve sarà nelle librerie, il postumo “Nostalgia”, l’ultima fatica letteraria dello scrittore.
Ermanno Rea è stato un intellettuale molto legato agli ideali della sua giovinezza, anche se, nel tempo, aveva maturato seri elementi di critica sulle esperienze del socialismo realizzato, ma anche sulla politica della sinistra italiana. Aveva una naturale avversione nei confronti di un certo costume nazionale, superficiale e servile verso i potenti. Al carattere degli italiani dedicò “La fabbrica dell’obbedienza” (2011) una chiave di lettura di alcuni momenti della storia del Paese. Il suo spirito critico lo portò ad aderire al progetto della lista Tsipras per la quale fu candidato alle elezioni europee del 2014 nella circoscrizione dell’Italia meridionale.
Nonostante fosse ormai molto vicino al traguardo dei 90 anni, Ermanno Rea ha coltivato sino alla fine la passione per l’analisi della società dal punto di vista di chi non pensa che la storia sia finita nel 1989 e che le vite umane debbano essere regolate dai parametri dell’austerità imposta dal finanzcapitalismo.
Pubblicato venerdì 23 Settembre 2016
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