Il movimento sorto con la formazione del PKK – il Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato in Turchia nel 1978 – nato come reazione alla negazione dell’esistenza dei curdi, è stato sciolto. Questo storico annuncio è stato dato lo scorso maggio. Abdullah Öcalan, leader del PKK e ideologo del movimento curdo, fece arrivare il messaggio poco prima del dodicesimo congresso del partito – svoltosi in clandestinità sulle montagne del Kurdistan iracheno – e che, ricordiamolo, è considerato una formazione terroristica da Turchia, Stati Uniti ed Europa.

Il 9 luglio 2025, per la prima volta e dopo 26 anni di prigionia in un carcere di massima sicurezza, abbiamo potuto vedere Öcalan in un videomessaggio registrato a fine giugno leggere il suo “manifesto del disarmo” e ribadire con parole ferme e consapevoli lo scioglimento del PKK: «L’esistenza dei curdi è stata riconosciuta. Pertanto, l’obiettivo di base è stato raggiunto – ha detto Apo, così come viene soprannominato il leader curdo –. In questo senso, il Pkk ha fatto il suo tempo», ha spiegato.
Non è la prima volta che il “Mandela curdo” dal carcere riesce a far arrivare le sue parole all’esterno per facilitare una soluzione alla guerra silenziosa che dal 1978 pervade il sud-est della Turchia. L’ultimo tentativo e relativo processo di pace fallito tra turchi e curdi risale a più di un decennio fa, poi la guerra in Siria ha bussato alla porta e la soluzione quasi a portata di mano è svanita nuovamente.

«Non credo nelle armi ma nel potere della politica e della pace sociale e vi invito a mettere in pratica questo principio», ha detto il leader curdo nel video, ripreso con altri sei detenuti membri del PKK nell’isola-carcere di Imralı, l’Alcatraz turca.
Intanto l’iniziativa in corso della Turchia per porre fine all’insurrezione armata portata avanti dal PKK sta guadagnando slancio con il capo dei servizi segreti del Paese, Ibrahim Kalin, giunto a Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno, per la cerimonia che si terrà l’11 luglio in cui 30 membri del PKK deporranno le armi. La cerimonia di disarmo del PKK sarà simbolica: un gruppo di combattenti consegnerà le proprie armi e le farà registrare da osservatori prima di bruciarle. Successivamente il gruppo farà ritorno nella roccaforte principale dell’organizzazione politica, sulle montagne del Qandil. L’evento è inteso come un gesto di buona volontà, è chiaro che il processo di disarmo inizierà dopo che saranno presi accordi legali in Turchia e che verrà istituita una commissione.
Quest’ultima proposta fu avanzata – dopo il congresso del PKK – addirittura dal leader dei Lupi grigi ovvero del partito MHP Devlet Bahçeli, poi appoggiata dal partito di governo AKP e dal partito curdo DEM. L’idea è che una commissione gestisca il quadro giuridico per i negoziati (disarmo, amnistia ecc.) e le questioni politiche di fondo (porre fine alle restrizioni sui diritti e sull’identità curda). C’è molta attesa per tutte le conseguenze che il gesto simbolico da parte del PKK innescherà nel Paese e tra la gente. I leader curdi hanno salutato la notizia come storica e come l’inizio di una nuova era di pace. Si tratta di un passaggio simbolico del movimento dalla lotta armata alla politica.

Per quanto riguarda la situazione legata alla libertà di Öcalan (da anni è attiva una campagna internazionale per favorirla) così come richiesto peraltro come clausola indispensabile nel testo della risoluzione finale del XXII congresso straordinario del KCK (l’Unione delle Comunità del Kurdistan) lo stesso leader afferma nel videomessaggio «non ho mai considerato la mia libertà una questione personale». E inoltre «L’istituzione di un meccanismo per deporre le armi farà progredire il processo», ha sottolineato Öcalan. La strada da percorrere sarà probabilmente accidentata da una serie di domande senza risposta sul destino del PKK.
Non è la prima volta che l’organizzazione annuncia la fine della guerra o il proprio scioglimento. Lo aveva già fatto in passato, poco dopo la cattura del suo leader nel 1999, e di nuovo nel 2003, per poi riapparire sulla scena con il suo nome originale e riprendere il conflitto. Allo stesso tempo, il PKK non è solo una forza militare organizzata, ma anche una rete globale con milioni di sostenitori nella diaspora. Cosa accadrà ai 5.000 combattenti stimati nel Kurdistan iracheno? Quanti avranno diritto all’amnistia? Ne beneficeranno i comandanti di alto livello che figurano nella lista dei terroristi più ricercati in Turchia? Come reagirà l’opinione pubblica turca?

E che dire degli aspiranti sabotatori in agguato sullo sfondo? Sono tutte domande cruciali alle quali il presidente turco dovrà dare risposta.
Nel gennaio 2013, proprio mentre Erdoğan iniziava un secondo round di colloqui di pace con il PKK, tre attiviste curde – tra cui un’ex comandante della guerriglia, Sakine Cansiz – sono state uccise a Parigi da un uomo che si dice fosse al soldo di agenti dei servizi segreti turchi corrotti. I colloqui sono poi falliti nel 2015 tra le reciproche recriminazioni. Va detto che Erdoğan è il primo leader turco ad autorizzare colloqui di pace diretti e duraturi con il PKK.

Il cosiddetto Stato profondo della Turchia – un’alleanza di ufficiali militari e burocrati dei servizi di sicurezza e della magistratura che prendono decisioni politiche chiave da dietro le quinte – ha a lungo usato l’insurrezione di questa etnia per giustificare la brutale repressione della grande minoranza curda del Paese e per criminalizzare le loro richieste di diritti politici e culturali con la motivazione che minacciavano l’integrità territoriale del Paese. Allo stesso tempo, ciò ha garantito una continua tutela militare, con l’esercito che ha ricevuto la parte del leone del bilancio del Paese.
Dopo essere salito al potere nel 2002, Erdoğan ha ridotto l’influenza dell’esercito e si è avvicinato ai curdi, attuando una serie di riforme senza precedenti che hanno fatto sperare che la Turchia stesse per diventare una democrazia a tutti gli effetti. L’Unione Europea ne rimase così impressionata che nel 2005 avviò i colloqui di adesione con il Paese della Mezzaluna (ora congelati). Alla fine Erdoğan è riuscito a sconfiggere i generali dopo lunghe battaglie, compreso il fallito tentativo di colpo di Stato del 2016.

La discesa del presidente turco nell’ultimo decennio verso un autoritarismo a tutto campo ha tuttavia destato sospetti verso una effettiva volontà di risoluzione della questione curda in Turchia. Anche se i curdi di tutta la regione acclamano la decisione del PKK di sconfessare la violenza contro la Turchia, gli oppositori di Erdoğan, in particolare quelli del Partito Popolare Repubblicano (CHP), affermano che l’attuale iniziativa non può portare alla democratizzazione.

La pressione sul CHP è aumentata costantemente da quando ha strappato al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente turco una serie di Comuni, tra cui Istanbul e Ankara, nelle elezioni locali del 2019. Il sostegno curdo ha contribuito a far pendere l’ago della bilancia a favore del CHP, in un’alleanza che ha avuto successo anche nel 2024, quando il CHP ha sconfitto l’AKP a livello nazionale per la prima volta. Il sindaco del CHP di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, uno dei principali artefici del patto con i DEM (il Partito democratico filo–curdo), è emerso come l’unico uomo in grado di battere facilmente Erdoğan alle elezioni presidenziali, secondo diversi sondaggi. Le autorità hanno prontamente arrestato Imamoğlu lo scorso marzo con accuse di corruzione poco probanti, scatenando proteste in tutto il Paese tra le diffuse affermazioni secondo cui il Presidente avrebbe dato l’ordine nel tentativo di sbarrargli la strada.
L’ultimo tentativo di Erdoğan di ottenere un accordo di pace con i curdi è visto anche come un modo per creare un cuneo tra il CHP e il DEM e di ottenere il sostegno di quest’ultimo per le modifiche costituzionali che gli permetterebbero di candidarsi e vincere un terzo mandato presidenziale nelle elezioni previste per il 2028.

Il governo ha etichettato l’iniziativa di pace come “Turchia libera dal terrore”, sostenendo che è stata lanciata per proteggere il Paese dall’instabilità regionale e dalla violenza. A differenza degli sforzi precedenti, questa volta il governo ha ribaltato il processo, affermando che non prenderà in considerazione alcun passo fino a quando il PKK non sarà disarmato e sciolto. Tuttavia, a Öcalan è stato promesso un miglioramento delle condizioni di vita. Inoltre, circa 50mila prigionieri politici, molti dei quali curdi malati e anziani, saranno liberati secondo i termini di un nuovo pacchetto di amnistia che sarà sottoposto al Ministero della Giustizia per la revisione e poi al Parlamento, dove il governo e i suoi alleati nazionalisti hanno una maggioranza sufficiente per approvarlo. Un secondo pacchetto prevede il rilascio di altri prigionieri di alto profilo, tra cui il politico curdo più popolare della Turchia, l’avvocato e autore curdo Selahattin Demirtaş, che sfidò il Sultano alle elezioni presidenziali dal carcere, dietro le sbarre dal 2016 con accuse pretestuose di terrorismo.
I beneficiari più immediati, tuttavia, potranno essere i curdi della Siria nord-orientale. Dopo l’appello di Öcalan, gli attacchi della Turchia contro le Forze Democratiche Siriane guidate dai curdi sono diminuiti e Ankara è rimasta a guardare mentre il suo alleato in Siria, il presidente Ahmad al-Sharaa, firmava il 10 marzo un accordo storico con il comandante in capo delle SDF, Mazlum Kobane. Anche se proprio nelle ultime ore l’inviato USA si è espresso contro un possibile federalismo in Siria e quindi contro l’autonomia dei curdi-siriani. Ricordiamo come il “confederalismo democratico” sia una elaborazione politica ideata e portata avanti da Ocalan fin dal 2005.

Il potenziale per un nuovo conflitto tra la Turchia e i curdi che vivono dall’altra parte del confine si potrebbe attenuare se anche gli USA non mescolassero continuamente le carte come visto proprio il 9 luglio 2025 con l’inviato di Trump, Tom Barrack, così che il Paese della Mezzaluna potrebbe accettare de facto l’autonomia dei curdi siriani, senza sentirsi minacciata ai suoi confini. La più grande vittoria dei curdi – oltre al fatto grazie al movimento fondato da Öcalan di poter affermare la loro esistenza – è che, se questa volta tutto andrà per il verso giusto, potranno essere sollevati dall’onere di un metodo obsoleto per ottenere i loro diritti, ovvero l’uso di mezzi violenti per arrivare a conquiste democratiche.

Molte sono le ragioni per cui Erdoğan si sente incoraggiato ad avere l’ultima parola. Prima di tutto il silenzio degli Stati Uniti dopo l’arresto di Imamoğlu, i generosi elogi di Trump come leader e negoziatore, il nuovo Medio Oriente fuoco e fiamme gestito da Bibi Netanyahu, il nuovo leader siriano (ex al Qaida, ex al–Nusra, ex HTS, “jihadista moderato” ndr). Insomma dalla Siria all’Iran la situazione gioca a favore del leader turco con in più gli accordi di difesa ampliati in ambito Nato.
Il presidente Erdoğan potrebbe voler desiderare – come fanno altri leader autoritari in questo scorcio di millennio – anche un Nobel per la pace e diventare di nuovo un politico buono e benvoluto. Perché no? Un bel gesto di buona volontà da parte sua potrebbe essere quello di rimuovere il PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
Antonella De Biasi, giornalista e autrice di vari libri tra cui: “Astana e i 7 mari – Russia, Turchia, Iran: orologio, bussola e sestante dell’Eurasia”, Orizzonti Geopolitici, 2021; e “Zehra – la ragazza che dipingeva la guerra”, Mondadori, 2021
Pubblicato giovedì 10 Luglio 2025
Stampato il 16/07/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/apo-il-videoappello-per-il-disarmo-del-pkk-la-turchia-di-erdogan-e-il-medio-oriente-che-verra/