Via della mensa socialista (capo mensa Sandro Pertini), strada delle botteghe dei confinati, riportano alcune targhe di maiolica sui muri di Ventotene, nell’Arcipelago ponziano, e Medaglia d’Argento al Valor Civile, in un percorso laico che ci racconta gli anni in cui il regime fascista vi allestì la più grande colonia confinaria d’Italia, attraversata da 2.292 prigionieri politici.

Qui fu relegato il gotha degli intellettuali dell’epoca, l’opposizione più difficile da scalfire, che la renderanno l’isola dei Padri: comunisti, socialisti, anarchici e pionieri dell’Europa unita che dopo la Liberazione – la loro e quella del Paese a cui molti parteciperanno – furono impegnati nell’elaborazione della Costituzione italiana. “Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, governo di Ventotene il gruppo dei confinati” scriveva Luigi Longo, uno dei fondatori del partito comunista, esule in Francia, combattente in Spagna, prima di essere arrestato e segregato lì.

Sabato fascista

E poi operai, artigiani, contadini, credenti di fede diversa da quella cattolica e chiunque venisse denunciato di atti innocui come raccontare barzellette sul duce o mancare di partecipare alle feste del calendario fascista. Il confino venne regolamentato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e fu una misura preventiva stabilita senza ricorrere a un processo. E soprattutto senza l’esibizione di prove.

Dal 1926 al 1943, in tutto il Paese furono confinati ben 12.330 uomini e donne e 31 furono le condanne a morte eseguite per reati politici, mentre l’Ovra, la polizia politica segreta, su questa isola perseguitò 81 confinati, poi deportati in Germania dopo il 1943, di cui 38 morirono nei campi di sterminio. Ma prima ancora di assumere il potere, Mussolini ammazzò 3.000 oppositori politici, facendo incendiare Case del Popolo, attaccando sindacati e sindacalisti. Il confino segnò pertanto la progressiva distruzione dello Stato di diritto nell’instaurazione del regime fascista.

“Si riparano orologi, terraglie ed altre cianfrusaglie, bottega di A. Spinelli e G. Pianezza” riporta un’altra maiolica nel centro storico, unico spazio di movimento dei confinati, all’epoca segnalato da cartelli, filo spinato o garitte con guardie armate. Alcuni, quelli considerati “speciali” avevano un milite che li seguiva a tre passi. Altiero Spinelli qui redasse nel 1941 con Ernesto Rossi il Manifesto di Ventotene, mentre Eugenio Colorni ne curò la pubblicazione nel 1944 poco prima di essere trucidato a Roma dalla milizia fascista. Con tutte le difficoltà del caso, l’isola si trasformò così in luogo di testimonianza, rigenerazione e riscatto, diventando un grandioso laboratorio di idee.

Il Manifesto fu uno dei più importanti documenti di rivoluzione democratica che ha ispirato la costruzione di un’Europa federale e dallo scorso anno è stato inserito dalla Commissione Ue nel patrimonio che l’Unione Europea si impegna a difendere. Un’onorificenza importante assegnata a documenti, musei, archivi, monumenti, edifici o eventi che hanno giocato un ruolo significativo nella storia d’Europa.

C’è un dettaglio rilevante nella storia di questo documento che attesta ancora una volta il ruolo centrale delle donne nella lotta al fascismo: venne infatti diffuso dall’isola al continente da Ursula Hirschmann, fino alla sua morte ispiratrice costante del federalismo europeo anche femminile con il Gruppo Women for Europe, e Ada Rossi, staffetta partigiana. Mogli dei due redattori europeisti ebbero la possibilità di uscire da Ventotene e tornare, portando il Manifesto negli ambienti dell’opposizione di Roma e Milano, scritto su carta velina di sigarette e cucito nelle fodere dei cappotti. Il piroscafo Santa Lucia che due volte a settimana collegava l’isola alla terraferma portando provviste, passeggeri e nuovi confinati, colpito nel 1943 da un aereo inglese, oggi giace sui fondali intatti tra coralli e saraghi della Riserva Naturale.

Al centro di piazzetta Europa, tra le caratteristiche case colorate,  una stele riporta le parole di Altiero Spinelli mentre lascia “l’isola nella quale avevo raggiunto il fondo della solitudine – scriveva –, mi ero imbattuto nelle amicizie decisive della mia vita, avevo fatto la fame (…). Nessuna formazione politica esistente mi attendeva, né si preparava a farmi festa. Ad accogliermi nelle sue file con me avevo per ora, oltre me stesso, che un manifesto, alcuni testi e tre o quattro amici”.

Porto Eolo, antico attracco romano
Il presidente Mattarella alla tomba di Spinelli

Le ceneri di uno dei padri dell’Europa (morto nel 1986) sono inumate, per sua espressa volontà, nel cimitero dell’isola, poco distante dal complesso archeologico, a strapiombo sul mare, dove gli imperatori Augusto, Tiberio e Nerone confinarono figlie e mogli. Sotto, il porto nuovo di Punta Eolo, costellata di murales, che racconta del vento che qui ce n’è molto e a lui Ventotene deve il suo nome. “Che tiene il vento” dice un barcaiolo dalla pelle bruciata dal sole e gli occhi trasparenti, scandendo forte le parole quasi recitandole mentre ormeggia la sua barca.

È molto suggestivo scendere lungo la collina di Cala Rossano, lungo il porto romano scavato nel tufo, mentre di sera le berte – che qui arrivano dall’Africa – intonano il loro canto nei nidi della scogliera. Una leggenda li corrisponde al pianto dei guerrieri di Diomede che piangevano la sua morte. E proseguire, fino a una terrazza di fronte l’isolotto di Santo Stefano, dove di recente è stata inaugurata anche una panchina dedicata al compianto presidente del Parlamento Ue David Sassoli, lui “figlio di un uomo che a vent’anni ha combattuto contro altri europei” disse nel 2019 durante il suo discorso di insediamento.

Su via Roma, nel via vai di turisti e scolaresche, si trova la biblioteca dedicata all’esponente del Partito d’Azione Mario Maovaz. Fu lui a portare tra quelle mura i primi libri e a creare così una rete segreta per farne arrivare altri, nascondendoli nei muri dell’edificio, cambiando copertine a libri censurati, arrivando a formare una raccolta di 3.000 volumi che centinaia di confinati e confinate poterono consultare per continuare a formarsi e ad allenare la propria mente. Dopo dodici anni di confino, Moavaz giunse nella sua Trieste per partecipare alla Resistenza e fu fucilato nel 1945, a pochi giorni dalla Liberazione della città. Dopo quindici giorni di ininterrotte sevizie, le ossa delle gambe e delle braccia spezzate, le mani ridotte in poltiglia, gravi lesioni interne, ma non si lasciò sfuggire una sola parola che potesse compromettere i suoi compagni e l’organizzazione.

Passeggiando oltre la chiesa neoclassica dedicata a Santa Candida, patrona dell’isola, si arriva nel luogo chiamato dai ventotenesi il Quartiere, dove una targa a picco sul mare ricorda alcuni dei cameroni abbattuti negli anni Cinquanta in cui i confinati e le confinate dormivano. “Nel 1939 saranno inaugurati dieci padiglioni per gli uomini e uno per le donne, una infermeria e una caserma per le guardie di pubblica sicurezza” spiega lo storico locale Salvatore Schiano Di Colella. “Di quel complesso resta in piedi la caserma delle guardie di pubblica sicurezza che oggi è della Guardia di Finanza, poi trasformata in centrale elettrica” continua Schiano Di Colella, di fronte al municipio dove due lapidi ricordano la cittadinanza onoraria di Altiero Spinelli. “Qui camminiamo sulle pietre dell’antifascismo” dice un ragazzo mentre con la sua classe di una scuola media di Roma è in gita scolastica in Piazza del Confino Politico in cui sorgevano i casermoni degli oppositori, nei pressi degli attuali impianti sportivi dell’isola.

I prigionieri dovevano rispondere due e, in alcuni periodi, anche tre volte al giorno agli appelli. Non potevano inoltre avere alcun rapporto con gli isolani, non potevano entrare nei locali pubblici se non per il brevissimo tempo dello scambio commerciale, non potevano parlare di politica e ascoltare la radio. Potevano scrivere una sola lettera a settimana di 24 righe, sottoposta a censura.

Poco oltre iniziavano i pollai e gli orti in cui i prigionieri producevano parte delle derrate alimentari necessarie al loro sostentamento che mangiavano in mense organizzate per appartenenza politica. Le ristrettezze alimentari aggravarono le già precarie condizioni di salute di molti e per la stragrande maggioranza di loro fu una vita di stenti.

Giuseppe Di Vittorio

Ernesto Rossi scriverà ai familiari di aver dovuto restringere i pantaloni di 18 centimetri, mentre Giuseppe Di Vittorio si occupò, tra le altre cose, della mungitura quotidiana del latte prodotto dall’unica mucca presente sull’isola. Latte che serviva ai compagni ammalati. Quando Di Vittorio giunse a Ventotene, nel 1941, aveva alle spalle sedici anni di esilio trascorsi per lo più Francia, dove venne arrestato dai nazisti. Alla Liberazione di Roma, nel 1944, firmò il Patto d’unità sindacale con democristiani e socialisti, dando vita alla Cgil che Di Vittorio dirigerà sino alla morte.

Come era Ventotene

Nonostante tutto ciò, “Mussolini mandava la gente in vacanza al confino” continua a essere ancora oggi uno dei falsi miti a cui si crede. Un accostamento, quello tra confino e villeggiatura, frutto della propaganda del regime. La strategia adottata fu quella di sistemare i confinati nell’immediata prossimità di luoghi detentivi ordinari, di mischiarli e confonderli con criminali. In questo modo si tentava di far penetrare nell’opinione pubblica l’associazione tra il dissenso politico e la delinquenza comune.

Se ne fece portavoce anche l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in una intervista del 2003 al settimanale britannico The Spectator, aggiungendo che “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno”. Affermazioni che destarono molto scalpore in Italia e in Europa perché banalizzavano – e banalizzano – il fascismo, mirando pertanto a riabilitarlo. Lo attestano anche le attuali dinamiche politiche nostrane.

Il vecchio carcere borbonico

Gli oppositori politici furono quindi mischiati ai criminali sull’attigua isola di Santo Stefano – dichiarata monumento nazionale nel 2008dove sorge il carcere borbonico, costruito da re Ferdinando IV e utilizzato anche dai Savoia per rinchiudervi dissidenti e briganti, come Carmine Donatello Crocco, Giuseppe Musolino e l’anarchico Gaetano Bresci che assassinò re Umberto I. “Il carcere venne inaugurato nel 1797 e inizierà subito la sua funzione mista, detenuti per criminali comuni e detenuti politici, perché saranno i primi giacobini della congiura del 1794-95 a esservi rinchiusi” chiosa Schiano Di Colella. Durante il regime qui furono reclusi Sandro Pertini, Umberto Terracini, futuro Presidente dell’Assemblea Costituente, Mauro Scoccimarro e Giuseppe Romita, divenuti ministri della Repubblica.

Porto Santo Stefano

Sbarcheranno sull’isola al piccolo approdo della Marinella praticabile otto mesi all’anno perché qui comanda il mare, salendo i 300 gradoni nella pietra lavica lavorata dalle tempeste. Dalla cella numero 36, il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, così descrisse i suoi giorni: “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla “bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare”.

Sandro Pertini

Al detenuto politico non veniva affidata nessuna mansione, nessuna attività perche l’isolamento doveva essere completo e continuato per piegare la volonta politica dell’individuo e non gli sarà mai aperta la porta per uscire dalla cella. Pertini arriverà nel 1929 e a causa delle gravi condizioni di salute causate dalla tubercolosi sarà spostato nel 1931 prima nel carcere di Turi, in Puglia, dove incontrerà Antonio Gramsci, poi nel carcere dell’isola di Pianosa, nell’arcipelago toscano, fino al 1937. Seguiranno Ponza e le isole Tremiti e dal 1939 al 1943 sarà di nuovo a Ventotene.

Il carcere di Santo Stefano

Concepito dall’architetto Francesco Carpi, il carcere di Santo Stefano consentiva una facile sorveglianza da un solo punto: la torretta al centro che sarà adibita a cappella carceraria. L’architetto si ispirerà al Teatro San Carlo di Napoli, ma apporterà delle modifiche diaboliche:  “Va a ribaltare i ruoli mettendo sulla quinta scenica non l’attore ma lo spettatore che sono i militi della Real Marina e sotto gli spalti che sono organizzati in celle vengono messi invece gli attori ovvero i detenuti, perché è lì che si mette in moto la tragedia” afferma Salvatore Schiano Di Colella. “La cappella del carcere al centro del ferro di cavallo – continua – avrà quindi il completo dominio del detenuto, incluso quello spirituale con l’altare sempre a vista”.

È un viaggio che ci riporta alle radici della nostra Repubblica e della nostra Europa quello in questa isola antichissima, simbolo di esilio, di deportazione e di accoglienza. E lo dice anche la storia della sua patrona, Santa Candida, una giovane cristiana torturata nel IV secolo il cui corpo viene ritrovato in mare dai pescatori, che qui viene accolta divenendo loro protettrice e che viene celebrata il 20 settembre attraverso il lancio di mongolfiere che raggiungono dodici metri e prendono il volo verso il mare e la libertà, mentre gli abitanti del paese aprono le loro case offrendo da mangiare e da bere a tutti. Quella stessa libertà che qui venne negata a donne e uomini che lottarono per garantirla anche alle future generazioni.

Mariangela Di Marco