Cinquant’anni fa iniziava il genocidio perpetrato dal generale Pol Pot sulla sua stessa gente. Sembrerebbe appurato che durante l’esistenza della Kampuchea Democratica siano state giustiziate tra il 1975 e il 1979 da 1,5 a 3 milioni di persone, quasi la metà della popolazione. A quei lutti si unì l’invasione del Paese da parte del Vietnam.

Sono passati decenni, ma in Cambogia, il regime, anni di guerra civile, e poi l’invasione, hanno lasciato una pesante eredità bellica: milioni di mine antiuomo sparse sotto l’erba dei campi o nei letti secchi dei fiumi.

Campi minati in procinto di essere bonificati dalla Ong belga APOPO

Molti bambini, impossibilitati a frequentare contesti scolastici, ignorano cosa siano le mine antiuomo, anticarro, uxo o cluster bomb. Spesso emergono dai campi con pezzi di bomba nelle mani, ci giocano, le tamburellano con rametti secchi, le lanciano in aria.

Mine antiuomo di fabbricazione iraniana e statunitense

A volte la quiete di certi villaggi viene squarciata via da una secca e sonora esplosione. A distanza di decenni dalla fine del conflitto, centinaia di civili perdono ogni anno la vita, una gamba (a volte due), le braccia, calpestando ordigni vigliacchi costruiti e diffusi per amputare persone, non per ucciderle. Perché un morto lo piangi, un invalido si è costretti invece a sostenerlo con medicinali, protesi, sedie a rotelle o stampelle, rendendolo un peso per una famiglia già ridotta al lastrico: il gioco del mercato.

La Convenzione di Ottawa dal 1997 vieta di produrre, usare e vendere le mine antiuomo. Ma oggi hanno deciso di uscirne Finlandia, Polonia e le Repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania e anche l’Ucraina invasa, ormai tra i Paesi più minati al mondo. Altri Stati, tra cui Russia, Cina e Stati Uniti, non hanno mai aderito al trattato.

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Naroa Ban, 11 anni, mentre svolge i compiti in compagnia dello zio, ex veterano

La strada è ricoperta da una patina di colore rosso. Nei campi intorno pozze di fango, bufali, qualche risata. In Cambogia si contano perché un morto lo piangi, un invalido si è costretti invece a sostenerlo con medicinali, protesi, sedie a rotelle o stampelle, rendendolo un peso per una famiglia già ridotta al lastrico: il gioco del mercato.

Moch Ban, 48 anni

Moch Ban ha le mani grandi da contadino, tipiche di chi lavora la terra e si guadagna da vivere col sudore della fronte. In un giorno afoso del lontano 2002 stava tagliando delle canne di bambù in una foresta a dieci minuti dal suo villaggio. Accidentalmente ha pestato una mina antiuomo e la gamba sinistra è stata tranciata via all’altezza del ginocchio. “Ricominciare a vivere è stato difficile, cosi come camminare, coltivare l’orto e sostenere la mia famiglia. Ho tre figli e siamo molto preoccupati per loro. Tentiamo ogni giorno di tenerli lontani da quei campi maledetti ma è come impedirgli di giocare. Impossibile”.

Yut Yuth, 63 anni

Dall’interno di una capanna fuoriesce un forte odore di riso e banane. “Era il 1995, mi sono incamminata verso una fattoria a ottocento metri da qui”. Yut Yuth alza il dito rugoso indicando un punto indefinito al di là del muro in pietra. “Ho calpestato una mina e sono svenuta sul colpo. Dicono che mio fratello mi abbia portato nell’ospedale più vicino dove ho poi trascorso ben quattro mesi per la riabilitazione. Tuttora, per muovermi utilizzo i gomiti perché la protesi è troppo piccola per la mia gamba e non abbiamo soldi per comprarne una nuova”. I gomiti di Yut sono gonfi e violacei. Lei e la sua famiglia sopravvivono tenacemente, vendendo frutta e gomme da masticare. Spesso la donna si lascia andare a contagiose risate che riempiono la foresta di allegria.

Moern Ley, 48 anni, in compagnia del nipote Oey Sam Nang, 10 anni. Egli, come molti altri bambini delle aree rurali del paese, non conosce i rischi reali delle mine antiuomo, uxo o cluster bomb

Moern Ley ha circa 48 anni, ma ne dimostra venti di più. La durezza del suo sguardo ti si pianta dentro, all’altezza dello stomaco. Con lei c’è suo nipote Oey Sam Nang, dieci anni, intento a calciare noci di cocco o semi di mandorle. Nel 1999, Moern è andata a tagliare canne di bambù in una foresta dietro casa. Pochi passi, azione abituale. Ha perso la gamba destra. Tuttora continua a spingersi in quei campi letali per costruire ceste artigianali. “Altrimenti chi manda a scuola mio nipote? Qui ci hanno abbandonato e dobbiamo cavarcela da soli tra mille difficoltà”. Puntualizza la donna, conficcando la protesi concava al moncherino sporco.

Hol Huoy, 56 anni

È quasi il tramonto. Lungo la strada per Poipet, sei monaci bambini, vestiti con tuniche sgualcite, pedalano forte utilizzando tre bici malandate. L’aria si colora di arancione e di fantasia, ma il sorriso amaro di Hol Huoy, un veterano di 56 anni, appare ai lati del sentiero: “Quel pazzo di Pol Pot diceva sempre che una mina è il miglior soldato esistente: non mangia, non dorme e sta sempre all’erta. Ne sono sicuro: quella mina aspettava me”.

Protesi di varie tipologie. Officina della Ong belga APOPO

Matthias Canapini, scrittore, giornalista e fotografo. Nato a Fano nel 1992, dal 2012 viaggia per il mondo per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. L’ultimo suo libro è “La pelle. Diari dal Kurdistan iracheno”, Prospero editore 2025