Ahinoi, è drammaticamente vero: con la scomparsa di Ettore Scola si chiude una gloriosa stagione creativa. Quella del cinema civile, dello sguardo inchiodato ai movimenti e ai cambiamenti del Paese, di una sorta di misticismo della realtà mosso da un amore profondissimo per la propria terra, amore quasi mai ricambiato. Monicelli, Germi, De Sica, Comencini, Risi… veri e propri cavalieri della pellicola di strada. Scola ne condivideva le più spiccate virtù caratteriali: l’autoironia e il fastidio per i toni altisonanti e i grandi scenari. In più il nostro possedeva una ragguardevole capacità di intenerirsi davanti alle storie intuite e attraversate. Oltre a una galanteria d’altri secoli. Scola si accosta con passo discreto e coscienza ferma ai suoi personaggi che si muovono per lo più storditi e in assetto d’abbandono ai destini aggressivi della Storia. Di un’Italia che troppo presto si è slacciata la memoria delle battaglie per la fondazione di un futuro libero e fitto di democrazia per concedersi a nuovi e spregiudicati colonizzatori.

Emblemi di questa amara condizione sono Antonio e Nicola, due dei protagonisti di quel meraviglioso e indimenticato capolavoro che è “C’eravamo tanto amati”. Interpretato da Nino Manfredi, Antonio, ex partigiano, si stringe attorno ai suoi ideali politici, perciò subisce discriminazioni nel suo luogo di lavoro, un ospedale. Nicola – che ha il volto di uno straordinario Stefano Satta Flores – professore al liceo classico Giambattista Vico di Nocera Inferiore, intellettuale militante e anche lui ex partigiano, viene escluso dall’insegnamento per aver “propinato” ai suoi studenti film di basso e incivile proletarismo. Vengono quindi risucchiati da giorni e vicende che di fatto li condannano ad una vita tutta intima e fradicia di nostalgia. E l’impressione è che il regista quasi vorrebbe prenderli per mano e portarseli a respirare un po’.

Scola è dentro i suoi film, le sue creature perdute. Questo istinto partecipativo è ancora più evidente in “Una giornata particolare” dove due solitudini si incontrano per caso e per una giornata, appunto, si permettono il “lusso” di una tenerissima e accorata solidarietà. E gli ultimi anni del regista sembrano esattamente girati da se stesso. Abbastanza smarrito, pesantemente rattristato dal fatto di non vedere più in giro sguardi cinematografici seri e responsabili. Ebbe a dire durante un’intervista realizzata per i suoi 80 anni: “La commedia italiana è diventata una coperta per tante cose. La differenza è che noi le scrivevamo per aiutarci a capire in che mondo vivevamo. Oggi non è così e noi volevamo bene all’Italia”. E allora l’ultimo atto di questa grande avventura di sapienza e passione, è stato tornare da un suo prezioso affetto.

Nel 2013 realizza “Che strano chiamarsi Federico”, un documentario su Fellini, un gioiello di immagini, una suggestiva dichiarazione del bisogno di un abbraccio. E forse di cominciare a cercare il sentiero della fine, possibilmente dignitoso.