Italo Calvino aveva la capacità di appartenere e allo stesso tempo di saper distinguere lì dentro, e nettamente, il bene dal male. Il suo status di presunto autore dai toni gelidi e difficilmente inclini alla profondità, alla pulsazione – oggetto di un antico dibattito riattivatosi di recente – era in realtà un dono di illuminazione e grana democratica. La sua era una strenua professione di fede nella limpidezza, nella forza dell’innocenza, nella ricerca di un sano e saggio antidoto al buio, alla sua violenza. L’amata e profonda leggerezza. Del bene cui apparteneva, il progresso sociale, conosceva virtù, ma anche vizi di bruto, operativo antagonismo. Misurava per allargare, capiva per far capire e per non farsi, per generosità o cecità ideologica, esattamente uguali ai competitori di forma del convivere. Scriveva nel capitolo “Palomar in società” del preziosissimo Palomar: “Finché si tratta riprovare i guasti della società e gli abusi di chi abusa, egli non ha esitazioni (se non in quanto teme che, a parlarne troppo, anche le cose più giuste possano suonare ripetitive, ovvie, stracche). Più difficile trova pronunciarsi sui rimedi, perché prima vorrebbe sincerarsi che non provochino guasti e abusi maggiori e che, se saggiamente predisposti da riformatori illuminati, possano poi essere messi in pratica senza danno ai loro successori: forse inetti, forse prevaricatori, forse inetti e prevaricatori a un tempo”. Ecco, i guasti.

A guardare l’oggi il sentiero raccomandato da Calvino è puntellato di falle non poco sgradevoli. Linguaggi di presunta verità, etica e azione civile corrono beati e smemorati. Intellettuali e figliocci vari si apprestano all’appoggio in nome della libertà, ma quale? Quella di chiudere le radici nel proprio credere e credersi. Di sabotare i processi democratici. Italo Calvino guardava e tremava: futuro, ovvio, ma preservato da passioni stolte, magari generose ma anche generosamente al contrario.