Firenze, 1° giugno 1265. Nasce Dante Alighieri. 750 anni dopo.

Forse menti come quelle di Croce, Contini o Singleton potrebbero rispondere adeguatamente a una questione come quella dell’attualità dantesca. Ma siamo poi sicuri che una simile questione sia valida? Di fronte a un poema cosmico come la Commedia, «pare non licito» – per citare il Dante del Convivio – chiederselo: il suo valore non sta né si misura nella quota di fungibilità che ha nel presente.

È tuttavia possibile, anche a dei lettori ordinari come noi e rimanendo all’interno del perimetro attualità/non-attualità, già di per sé bisognoso di una indagine preliminare, abbozzare qualche riflessione.

Molti secoli ci separano dal mondo dantesco, dalla cultura e dalla prospettiva con cui Dante lo osservava e valutava: una fede inossidabile, i dogmi, il geocentrismo, l’orizzonte politico ci sono estranei. È normale che sia così, e non è certo questo, in ogni caso, un limite alla leggibilità della Commedia. Ma se molti dei principi di cui si informa il poema al quale posero mano e “cielo e terra” fanno pesare tutti i 750 anni che ci separano dal suo autore, è nella lingua in cui egli scrisse che possiamo trovare la cifra buona per i nostri giorni e i nostri bisogni.

Quello che sempre stupisce e riempie di commozione, infatti, è la capacità della scrittura dantesca di tradurre ogni realtà in parole: che sia una realtà esistenziale, naturale, o celeste, Dante mette in atto tutte le straordinarie risorse e potenzialità della lingua italiana e, se non esistono, le inventa.

Non c’è nulla che la lingua dantesca non possa dire, fino alla tensione massima dell’ineffabile: «da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio» (Par. XXXIII, vv. 55-57).

Non c’è istante della nostra esperienza umana che non possa essere inchiodato e salvato in un verso dantesco, in un meraviglioso e memorabile meccanismo formale, e proprio la memorabilità, scrisse Contini, è uno dei tratti della poesia dantesca.

Se c’è una attualità della Commedia, insomma, è che si tratta di un poema saturo di realtà e la realtà ha bisogno di essere nominata con precisione; se c’è una utilità, una delle tante, nella pratica scolastica di Dante è proprio questa.

La parola determinata, fino a volte al tecnicismo, potrebbe essere un buon antidoto al deprimente impressionismo e pressapochismo, alla povera vaghezza della lingua che ormai si usa e si accetta nella scuola italiana. Dante, si può dire, è un invito continuo alla realtà e alla necessità di verbalizzarla con attenzione, sensibilità e discernimento.

Ma non basta. Quello che oggi può esser visto come rigidità e costrizione, e cioè il verso regolare (l’endecasillabo) e la rima (quella incatenata), per Dante è occasione di efficacia e icasticità, di fulminante sintesi. E la mirabile capacità di sintesi dantesca potrebbe essere ancora un aiuto per correggere, a volte, un uso della lingua che inclina verso un desolante schematismo. Un solo esempio: «l’aiuola che ci fa tanto feroci» è un endecasillabo che, nella sua inaudita concentrazione, è in grado di essere, allo stesso tempo, oggettivo (l’aiuola è infatti il nostro meschino globo terrestre, visto dal cielo dove si trova Dante) e giudicante (ci fa feroci: per questo misero brano di terra l’uomo si muove spietatamente e ininterrottamente guerra).

Sempre attuali, infine, sono – se non i massimi sistemi filosofici e teologici – i sentimenti universali descritti: il registro affettivo della poesia dantesca va oltre la stessa trama escatologica e teologica del poema, dando corpo, peso e sostanza interamente umani ai moti materialmente inconsistenti eppure potentissimi del nostro animo.

Talmente potenti sono l’ammirazione e la stima, in una parola l’amicizia, che Stazio porta a Virgilio da fargli dimenticare la sua «vanitate»: Stazio, riconosciuto il maestro, si cala ad abbracciargli le ginocchia, ché il sentimento prende talmente corpo da far trattare le ombre «come cosa salda» (Pg, XXI, vv. 130-136).

Già s’inchinava ad abbracciar li piedi

al mio dottor, ma el li disse: “Frate,

non far, ché tu sè ombra e ombra vedi”.

Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate

comprender de l’amor ch’a te mi scalda,

quand’io dismento nostra vanitate,

trattando l’ombre come cosa salda”.

Così Dante ci parla ancora, dando sostanza e precisione alla realtà, insegnandoci le parole per nominarla.