Pubblichiamo una riflessione di straordinaria attualità del giovane scrittore sul passato, il presente, la memoria, con la ricerca della proporzione fra ciò che siamo e ciò che avviene attorno a noi, e una “storiella” sconcertante che ci precipita in un’attualità di un’adolescenza in cui la ricerca del superamento del limite è perseguita senza alcun senso, valore, significato.
Dalle mie parti, in Valsesia – come in altri innumerevoli luoghi d’Italia –, la geografia della memoria è così ricca che quasi ogni paese (ma togliamola pure, l’approssimazione) ha il proprio martire da celebrare, un caduto da piangere, un sacrificio su cui meditare.
Ma non è questa la sede per fare della retorica o per cedere al campanilismo. Voglio solo dire che da un po’ di anni a questa parte mi è spesso capitato di pronunciare delle orazioni per questo o quel partigiano delle mie terre, ricordandone il martirio e cercando di cogliere il frutto che da esso è nato.
Si è trattato quasi sempre di parole costruite attorno a un luogo preciso e ai nomi di chi quel luogo ha segnato col proprio olocausto. Ma poi, in quest’ultima estate, tornando per la seconda volta nel giro di pochi anni a fare la mia orazione nello stesso posto e non volendo correre il rischio di ripetermi – non tanto per me, quanto per offrire all’uditorio qualche nuova riflessione – ho pensato di astrarmi un poco dalla traccia degli eventi sui quali stavamo esercitando il ricordo per guardare all’oggi, e per cogliere i potenziali pericoli a cui non solo la memoria ma la stessa dignità umana sono sottoposte.
Lo spunto iniziale non poteva che essere quello offerto dai partigiani che stavo celebrando, Caduti a Quarona Sesia, il 14 agosto 1944: cinque ragazzi condotti in cima al ponte ferroviario (Ponte della Pietà) e spinti a morire impiccati lì sotto.
La prima volta che me ne occupai, conclusi l’orazione chiedendomi cosa diavolo avessero pensato da ultimo salendo la breve erta che li conduceva alle rotaie, mentre i militi avvolgevano loro la corda al collo e li spingevano a camminare più svelti, o magari li afferravano attorno alle braccia, sulla punta del gomito, per farli salire al parapetto dal quale sarebbero dovuti precipitare. Si erano sentiti addosso le mani dei nemici – pensai –, ragazzi simili a loro ma che avevano fatto una scelta profondamente diversa, tragicamente sbagliata. Dissi queste parole: “mi piace credere che, nonostante tutto, abbiano voluto restare fedeli alla vita, alla loro vita sacrificata per gli altri. Fare la Resistenza in fondo ha voluto dire proprio questo: resistere per vivere, tenere duro, andare contro, combattere, ribellarsi, riuscire a farcela. La parola Resistere – proseguii – disegna nei miei occhi una bocca in salive, la chiostra di denti che stride come un gesso sulla lavagna, le labbra contratte, il muscolo del cuore fatto duro dallo spasimo. Eppure ce l’hanno fatta. Dico i partigiani, i resistenti: donne e uomini irriducibili, fatti di carne resistente, carne buona per faticare, per camminare, per saltare, per sparare, per dare tutto, anche la loro vita perché la vita continuasse dopo di loro”.
Quindi durante l’estate, nel tornare a pensare a questi ragazzi, sono stato spinto a riflettere su quale sia il significato della vita veicolato dalla Resistenza. Perché prima di tutto la Resistenza dei nostri cinque eroi – ma potrei dire cinquantamila (secondo l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito sono più di 54.000) – è stata una lezione, la cui essenza non è così facile da cogliere, soprattutto in rapporto al valore che, a tratti, la nostra sensibilità contemporanea assegna all’esistenza quotidiana. Parlo pensando soprattutto ai ragazzi, ad alcuni giovanissimi fruitori di questa cosa straordinaria che è la vita. La vita in tempo di pace. La vita nei paesi del benessere, la vita lontana da povertà, da guerre, da distruzioni, da catastrofi (perché, anche quando sono presenti attraverso l’informazione, sono comunque tenute lontane dalla cortina degli schermi, che mostrano solo per spettacolarizzare). E forse è naturale così, questa malattia dell’inesperienza (Antonio Scurati docet) è il prezzo da pagare per avere la pace e il benessere.
Per cui, di fronte al quesito: qual è la vita insegnata dalla Resistenza, dal sacrificio dei nostri martiri?, la mia prima banale risposta è che il senso della vita di quei ragazzi è la misura di una proporzione, oserei dire giusta. Non voglio parere sacrilego; ciò che intendo è che la vita che i partigiani hanno sacrificato aveva una correlazione, per quanto tragica, con ciò contro cui stavano combattendo.
Una vita, in poche parole, si sacrifica per qualcosa di grande, anzi di grandissimo, e quel qualcosa era allora la libertà. Altre volte può essere l’amore, altre ancora, forse, la sofferenza quando diventa intollerabile. E poi cos’altro? Io, ognuno di noi, per cosa darebbe la propria vita? Per salvare un figlio, la persona amata, un fratello. In ogni caso le conteremmo sulle dita di una mano le cose preziosissime per cui saremmo disposti a sacrificare la nostra vita.
Quindi la prima lezione dei partigiani è che la vita ha un prezzo altissimo e che quel prezzo loro lo hanno pagato tutto intero, senza sconti. Nei minuti del martirio la vita e la morte hanno risuonato nel loro più ispido, raggrinzante, fradicio e gutturale colloquio; la morte che aspettava i partigiani fu il più importante tributo alla vita per la quale avevano combattuto, perché serviva a rendere il senso dell’io infinitamente marcato di fronte ad essa.
E questa è la prima lezione. Una lezione valida per loro che morivano e che l’apprendevano in quei pochi istanti, magari con la speranza di portarsela dietro chissà dove, nell’acqua, tra le stelle, nel profumo di Dio. Glielo auguro. E spero sia stata una lezione per tutti coloro che vissero quegli anni, anche per quelli che avevano sbagliato rotta, fino a quel momento. E magari lo è pure per noi, oggi, almeno fintantoché riusciamo a cogliere il rapporto tra prima e dopo, tra la bellezza del progetto e l’enormità dello sforzo, tra sogno e grandioso fallimento.
Una lezione di vita che ha valore solo se si conosce ciò che c’era prima – il fascismo, la mancanza di libertà, la guerra, il dolore – e che conduce a una seconda lezione, una che i nostri eroi non hanno potuto insegnarci. Essi – diciamo così – con il loro sacrificio hanno gettato un seme, un suggerimento, cioè che il martirio crea, per il dopo, uno spazio di possibilità da giocarci nel futuro. Chi ha fatto la Resistenza l’ha fatta per aprire un varco, per generare un terreno di opportunità, per stabilire condizioni di vita che si posizionassero al di là di ciò contro cui i partigiani avevano combattuto. E questa cosa, dal punto di vista politico, è stata la democrazia.
Eppure oggi, questo dono prezioso e stupendo sembra essere entrato in crisi. E non solo a causa delle derive autoritarie, dei folli populismi, delle minacce del più subdolo razzismo, dell’intolleranza, delle libidini di potere. Argomenti sui quali non vorrei portare il mio discorso, sebbene sia chiaro che alla base dei mali appena elencati aleggiano le stesse caratteristiche che Primo Levi additava per raccontare le mistificazioni del nazismo: “guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima”.
La democrazia è oggi in crisi anche perché non siamo più capaci di riempire quel luogo di opportunità che i partigiani ci hanno regalato con qualcosa di utile, di buono, di proporzionato. Mi chiedo davvero se abbiamo perso il senso delle proporzioni. Forse questa troppo veloce trasformazione del mondo in villaggio globale non ci ha lasciato il tempo di prendere le giuste misure, quelle nostre, di esseri dotati di animo umano.
Diamine, i partigiani sapevano perché morivano, sapevano che soffrire aveva un senso, per quanto crudele fosse. Il loro dolore aveva una proporzione. Ed è proprio la mancanza di proporzione a spaventarmi oggi e a farmi dire che abbiamo smarrito il senso della democrazia.
Lo dico riportando una storiella che ha apparentemente poco a che fare con la democrazia. La storia è questa: all’inizio dell’estate lessi su facebook il post di un’amica scrittrice, Francesca Maccani, che faceva una riflessione sul punto a cui sono giunti i ragazzini di oggi e sul fallimento del mondo degli adulti. Adulti responsabili – beninteso – figli della democrazia di questo Paese. Tra le altre cose raccontava di alcuni fanciulli che avevano visionato un video (forse su un sito porno) intitolato 3 girls and a cup, 3 ragazze e una tazza. Nel video in questione “le ragazze vomitano e cagano in questa tazza, se la passano fra loro e ne bevono il contenuto e continuano a cagarci e vomitarci”, scrive Francesca. Ora, che gli adolescenti tendano al superamento del limite è un fatto noto, quasi banale. Ma qui la ricerca del pericolo, del brivido, non ha più nulla di eccitante né di piacevole, né di interessante. Non è come accendere la prima sigaretta, bere al sabato sera, non è neppure come correre con un’automobile. Non c’è alcuna sfida contro l’autorità genitoriale. Non c’è il palpito del proibito. Non c’è più NIENTE. Anzi, c’è una cosa, che mi è subito venuta alla mente, e che mi ha sconvolto: quelle tre ragazze, senza saperlo, ripetono, degradandoli ancora di più, i gesti che quasi ottant’anni prima furono costrette a compiere le donne di Birkenau. Lo scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati: “Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l’accesso alla latrina era vietato; e per lavarsi quando c’era acqua ai lavatoi”.
Dunque perché tre ragazze del 2020 finiscono per umiliare se stesse, il loro corpo, la loro mente, imitando, senza probabilmente saperlo, ciò che la più brutale e cinica delle dittature costringeva a fare decenni fa? Perché queste tre ragazze decidono di fare questa cosa di loro iniziativa? E, se anche giungessimo a pensare che queste tre tizie siano malate, disturbate, patologicamente autolesioniste, non dimentichiamo che quel video è lì per essere guardato, perché qualcuno – e le visualizzazioni sono probabilmente migliaia e migliaia – ne tragga qualche tipo di voluttà, di divertimento, di passatempo, di compiacimento. La domanda è quindi questa: per quale fine quelle ragazze si somministrano tale tormento? Perché molti, moltissimi trovano interessante starlo a guardare?
Io non conosco la risposta. Mi è venuto però da pensare ai partigiani che, nel momento in cui hanno scelto di fare i partigiani, hanno optato per un sogno che sarebbe potuto diventare un tormento, come è accaduto ad alcuni di loro, nell’agonia della morte; ma è stato un tormento decisivo, importante, direi fecondo. Un tormento che li ha definiti per sempre nel Bene e che ha donato loro la proporzione degli eroi. Che, se vogliamo dirla tutta, è una proporzione sterminata se messa a petto di una tranquilla quotidianità, ma è una giusta e degna proporzione quando affiora dai tremendi giorni della guerra incivile a cui furono costretti dai nazifascisti.
Non resta allora che lanciare una sorta di monito, che mi piacerebbe potessero udire anche quelle tre ragazze di oggi e tutti coloro che ne sono stati spettatori. La pace che i partigiani ci hanno regalato è un dono prezioso perché difficile da mantenere nel tempo. Essendo, come si è detto, un luogo di splendide e molteplici opportunità, può apparire disorientante, può nascondere, molto più efficacemente di una dittatura, nuovi pericoli, più vaghi, più striscianti, più elusivi. Uno dei quali è proprio l’incapacità di saper riempire quello spazio che i partigiani ci hanno donato con qualcosa che sia ancora dotato di senso. Un senso che, evidentemente, non può mai essere disgiunto dalla memoria, il cui esercizio, a volte, forse spesso faticoso, va di continuo allenato affinché non accada ciò che anni fa Paolo Flores d’Arcais additava come temibile scenario del nuovo millennio: la volontà dell’uomo contemporaneo di rivendicare la rimozione addirittura quale diritto: “il diritto a dimenticare, a rimuovere, a non dover portarsi dietro, nel proprio vissuto quotidiano, la lucida consapevolezza di un passato scomodo”. Pura follia.
Quindi cerchiamo di ritrovare le giuste proporzioni, anche se a volte è difficilissimo. Ci riuscì l’uomo più alto che sia mai esistito su questa Terra, Robert Wadlow. Intorno ai vent’anni raggiunse i 2,72 m di statura. Si sentiva un diverso, un errore della natura, un mostro. Suo padre, col denso affetto di chi medica la sofferenza, lo portò un giorno in un bosco di alberi secolari. Lì, per la prima volta, Robert apparve piccolo, giusto, proporzionato. Quindi cosa sono quelle tre ragazze che vomitano, cagano e mangiano ciò che il loro corpo ha eliminato? Cosa passa nella loro testa? Forse che senza quella lurida tazza non sono niente? Quale mostro celano, quale abominio compiono nel lager di quel video?
Dovremmo tutti quanti aiutare quelle ragazze, simbolo di una società che a volte non funziona, a rendere perlomeno la loro sofferenza meno vuota, maggiormente dotata di senso. Cosa che si può fare solo riempiendo la nostra libertà di consapevolezza, di cognizione del dolore e della gioia, capacità che penso abbiano avuto tutti i partigiani. Non uccidiamo la memoria, dunque, perché finiremo davvero a mangiare merda e vomito dentro a una scodella.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato sabato 3 Ottobre 2020
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