Era il 1989 quando il collettivo femminista americano Guerrilla Girls propose, provocatoriamente, un’importante riflessione sul ruolo delle donne nell’arte, chiedendo: “Le donne devono per forza essere nude per poter entrare al Metropolitan Museum?”. La domanda nasceva da un dato ovvio e sconcertante: le donne nei musei entravano solamente come elementi passivi. Se, difatti, erano sempre state i soggetti preferiti delle rappresentazioni maschili, non erano praticamente mai state considerate nel ruolo di creatrici: i corpi nudi delle donne venivano mostrati nei più grandi musei del mondo, ma il loro riconoscimento come artiste era pressoché sconosciuto, subordinato alla fama degli uomini da tempo immemore. E se anche una delle più grandi e importanti istituzioni museali, il Metropolitan appunto, esponeva opere d’arte prodotte quasi esclusivamente da uomini, il problema era culturale: si stava mettendo in atto una vera e propria mistificazione della produzione artistica.

La “Maja desnuda” di Francisco Goya (1797-1800)

Per tradizione, infatti, la storia dell’arte è sempre stata appannaggio maschile. Se ci fermiamo a pensare ai grandi artisti uomini che conosciamo, ci verranno in mente decine di nomi; al contrario, per i nomi femminili dovremmo fare molta più fatica. Aprendo poi i grandi manuali dell’arte, potremmo constatare che le donne sono quasi assenti, mentre gli uomini detengono, in ogni secolo, il primato del genio artistico. Come mai non ci sono state grandi artiste? Artemisia Gentileschi, Frida Kahlo, Berthe Morrisot, Tamara de Lempicka: la storia dell’arte ufficiale ha raccontato solamente poche figure femminili, descrivendole spesso anche con superficialità.

Linda Nochlin (wikipedia)

Nei primi anni Settanta del secolo scorso, la storica statunitense Linda Nochlin svela questa grande ingiustizia, pubblicando un articolo sulla rivista Artnews in cui esamina perché il ricordo imperituro sia stato riservato solamente agli uomini. Per Nochlin la questione è chiara: le barriere sociali hanno impedito alle donne di dedicarsi all’arte, a cominciare dall’impossibilità di studiare o entrare nelle accademie, e la cultura patriarcale, nei secoli, le ha progressivamente escluse dall’ambiente. Ma al contrario di quello che musei e manuali (non) raccontavano, il lavoro delle donne nell’arte era sempre esistito, anche se quasi mai riconosciuto. Al di là della cultura ufficiale, dunque, le donne erano state sempre attive e presenti nella produzione artistica sebbene nessuno avesse riconosciuto loro i diritti, costringendole a lavorare nell’anonimato e ad assumere a volte anche pseudonimi maschili.

Tamara de Lempicka, “Autoritratto su Bugatti verde” (1929)

Prova ne era una mostra organizzata nel 1977 al Brooklyn Museum di New York da Nochlin assieme alla storica dell’arte Ann Sutherland Harris, che rompeva definitivamente il silenzio sull’attività femminile. L’evento, unico nel suo genere, si intitolava The women artists: 1550-1950 e, coprendo un arco temporale di quattro secoli, ripercorreva le vicende di 83 artiste provenienti da dodici Paesi diversi: una mostra importante per la storia dell’arte, non soltanto perché per la prima volta il grande pubblico aveva potuto vedere i contributi femminili, ma anche perché si era recuperata la memoria di tante personalità dimenticate, rompendo gli schemi con quella tradizione che voleva esposti solo i lavori maschili. Nochlin con le sue domande e ricerche aveva promosso una riflessione sulla questione delle donne nell’arte, mettendo in luce l’impronta maschile e maschilista di una disciplina che, per molto tempo, era stata espressione di una cultura patriarcale e occidentale.

Artemisia Gentileschi, “Susanna e i Vecchioni” (1610)

Fra i nomi di punta di quella mostra c’era Artemisia Gentileschi, una delle figure oggi riscoperte e più apprezzate. Artemisia era nata nel 1593 a Roma, la città che lo storico dell’arte Ernst Gombrich definì “il grande centro artistico dove sorsero i nuovi problemi figurativi, dove si realizzarono i migliori risultati formali, diffusi poi dagli artisti tornati da Roma”, “centro del mondo civile”. Nonostante avesse vissuto fino all’adolescenza in casa, come tutte le donne dell’epoca, Artemisia era un’artista precoce: figlia del pittore Orazio Gentileschi, aveva potuto, grazie alla concessione paterna, occuparsi di pittura.

Artemisia Gentileschi, “Autoritratto come allegoria della Pittura” (1638-39)

Nel Seicento le barriere sociali erano molte: le donne non potevano andare a scuola e l’unico modo per istruirsi era in via privata. Infatti Artemisia ebbe modo di accedere alla conoscenza artistica perché studiava esclusivamente con il padre. Nel 1610, a soli diciassette anni, dipinse una delle sue tele più ammirate, Susanna e i Vecchioni, con la quale ufficializzava la sua bravura. Tuttavia, ad Artemisia era proibito comprare il materiale che le sarebbe servito per dipingere senza avere il permesso del padre. La critica artistica, poi, non è mai stata troppo generosa nei suoi confronti e se oggi sentiamo parlare di lei è, difatti, sostanzialmente per essere stata una grande personalità e una femminista ante litteram e per come ha reagito allo stupro subito: denunciando il suo aguzzino e sostenendo un processo difficile e doloroso. Processo che lei vinse ma per il quale non ebbe giustizia, visto che la pena non fu mai applicata. La vicenda umana, insieme all’importanza artistica di Artemisia, è stata a lungo trascurata, dimenticata dai resoconti storico-artistici dell’epoca, così come dalla grande letteratura artistica che, per anni, l’ha ignorata. Quei pochi studiosi che l’hanno citata ne hanno raccontato più le vicende private che la maestria artistica; i suoi lavori saranno attribuiti al padre.

Artemisia Gentileschi, “Giuditta e Oloferne” (1620 ca)

Del resto, nella storia dell’arte non troviamo figure femminili di primo piano autonome: il loro è quasi sempre un potere che deriva dagli uomini, che siano essi padri, fratelli, mariti o amanti. E pure i personaggi simbolici femminili dotati di piena autonomia sono rari. Ne è un esempio Giuditta, che secondo l’Antico Testamento avrebbe salvato la sua città tagliando la testa a Oloferne, il generale che guidava l’assedio nemico. Ed è proprio Giuditta la protagonista di una delle opere più cruente di Artemisia, divenuta l’emblema dell’autonomia femminile, esempio di ribellione verso la violenza maschile subita. Grazie all’artista, Giuditta è diventata il simbolo universale di una donna forte e coraggiosa che ha sfidato le regole del suo tempo. Il taglio della testa di Oloferne poi, nel Novecento, diventa il simbolo della rivendicazione di una società altra da quella patriarcale. Artemisia realizzerà numerose giuditte vendicatrici, attraverso cui ribadisce il diritto all’autodeterminazione.

Angelica Kauffmann, “Il dolore di Telemaco” (1783)

Come già anticipato, nella storia dell’arte le donne sono sempre legate agli uomini. Gli esempi in merito sono molti: Marietta Robusti, figlia di Tintoretto, lavorava nella bottega paterna vestita da uomo per aggirare i divieti imposti alle donne: è tanto brava da essere invitata alla corte di Massimiliano II d’Austria (inviti però sempre declinati perché il padre per lei voleva una vita più tranquilla). Lavinia Fontana, pittrice tardo-manierista figlia del pittore Prospero Fontana, eccellente artista, tanto consapevole del suo talento che, quando il pittore Giovan Pietro Zappi la chiese in sposa, lei accettò a condizione di poter continuare a dipingere. Angelika Kauffmann, pittrice svizzera vissuta a fine Settecento, specializzata nella ritrattistica e nei soggetti storici: sfidò le convenzioni che volevano questo genere appannaggio maschile.

Sofonisba Anguissola, “Sacra Famiglia” (1625)

Sofonisba Anguissola, artista tardo rinascimentale, grazie al padre potrà studiare e dedicarsi alla pittura (a eccezione della tecnica dell’affresco, della prospettiva e della matematica, ritenute materie sconvenienti per una donna), divenendo conosciuta nelle più prestigiose corti d’Europa e dedicandosi all’arte non come passatempo ma come professione. Tuttavia, non sarà mai pagata direttamente, agli affari penseranno sempre e solo il padre e i fratelli. La francese Berthe Morrisot, pronipote di Jean Honoré Fragonard e moglie del fratello di Eduard Manet, nonché musa del pittore ed esponente del movimento impressionista. Negli ultimi anni, grazie al lavoro di studiose attente, abbiamo potuto scoprire l’altra metà della storia dell’arte, per troppo tempo nascosta. La strada è ancora lunga e sono ancora molte le artiste che devono essere studiate e messa nella giusta prospettiva storica.

Kahlo e Rivera nel 1932 (wikipedia)

Uno dei nomi più valorizzati è quello della messicana Frida Kahlo, fra le artiste più conosciute e amate, esempio di determinazione e bravura. Capace di legare la sua attività di pittrice all’impegno politico, Kahlo è una delle pittrici più influenti del XX secolo, divenuta negli anni una vera e propria icona. L’artista si è fatta strada in un contesto prettamente maschile: è legata a Diego Rivera, famoso muralista, e frequenta intellettuali e politici internazionali. Le sue opere sollevano temi importanti: il ruolo della donna, la vulnerabilità fisica, la maternità fallita e l’aborto. Un tempo, la fama di Frida Kahlo non superava i confini messicani. Grazie al lavoro degli storici la letteratura dedicata all’artista si è ampliata, diffondendo in tutto il mondo le opere, che risultano sempre più apprezzate.

Frida Kahlo, “Autoritratto come Tehuana” (1940)

Il nostro augurio è rivolto alla scoperta e allo studio di altre artiste ancora poco conosciute. Anche perché conoscere questa parte della storia dell’arte permetterà non soltanto di averne una conoscenza completa ma di trasformare la mentalità, permettendo a ogni donna di potersi immaginare nel ruolo sociale che meglio reputa per se stessa. Conoscere Frida Kahlo, come anche le altre artiste, significa conoscere la storia di donne che si sono rese promotrici di una trasformazione estetica e culturale, incarnando in prima persona l’alternativa a un modello maschile dominante. Sono figure che, con il loro agire artistico, hanno insegnato alle altre donne ad essere libere.

(Unsplash)

Le questioni aperte sono ancora molte. Per prima cosa occorre riconoscere che le donne e il loro lavoro di artiste è stato ignorato o rimosso dalla storiografia e pensare seriamente a come combattere gli stereotipi di genere, la sotto-rappresentanza nei musei e il pregiudizio nel mercato dell’arte. È urgente superare i decenni di oblio, rendere noto il ruolo primario delle donne nel processo di rinnovamento artistico, dando dignità e rilevanza alle personalità femminili ingiustamente cancellate dalla narrazione dominante.

(Unsplash)

Ancora oggi, nei musei esiste una vera e propria discriminazione di genere: bisogna ora cominciare a rendere visibile il lavoro delle artiste per troppi anni celato. L’obiettivo è chiaro: superare le diseguaglianze di genere, iniziando ad aprire gli archivi e riscrivendo la storia dell’arte, considerandone la parte mancante e sconfitta, cioè quella delle donne. Per farlo bisogna avere occhi nuovi, sottraendo la narrazione alle mitologie paterne e paternaliste e chiedendoci cosa abbiamo fatto e cosa c’è ancora da fare per recuperare la storia artistica femminile taciuta e nascosta.

Francesca Gentili, critica d’arte