
Uno degli esercizi più impietosi verso sé stessi è ripensarsi, lo sguardo indietro agli anni passati, attraverso i personaggi di riferimento, quelli che sono stati l’espressione di un ideale. Da giovane è il confronto con storie di altre/altri, mentre stai costruendo la tua. Impietosi perché sovente si deve constatare come molti degli astri che brillano nella costellazione delle tue conoscenze smettono di mandare luce o ne affiochiscono molto lo splendore. Il giudizio severo della Storia fa il suo corso anche su questo piano.
L’ambito artistico culturale è un po’ più solido; si può essere molto delusi dalle biografie dei grandi creativi, ma l’opera resta al di là delle vicende umane di chi ha scritto, dipinto, diretto. È vero, anche le realizzazioni invecchiano, talora malissimo: ma il senso dell’arte va più in là di altro, forse anche della politica.
Tutto questo per dire che però, andando a visitare la mostra su Ernesto Guevara de la Serna, detto Che, a Bologna, non avevo timori sulla tenuta ideale del personaggio. Più lo conosco, più ripenso a quanto ho visto qualche anno fa in Bolivia e nel resto dell’America Latina visitata, più la sua statura etica resta significativa e limpida. Pur nella dimensione di uno spirito critico che non risparmia critiche ad alcunché o a nessuno, bisogna riconoscere che le ricognizioni storiche lo conservano integro, molto più in là delle polemiche revisioniste. Riserve ne avevo sull’esposizione in quanto tale, perché, un po’ presuntuosamente, pensavo che avrei visto molto di quanto avevo già conosciuto, letto o osservato. Invece.
La mostra, ideata e realizzata da Simmetrico Cultura, è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Camilo Guevara e Maria del Carmen Ariet Garcia, con una colonna sonora originale composta da Andrea Guerra. Si avvale del materiale dell’archivio del Centro de Estudios Che Guevara, e hanno contribuito alla sua realizzazione la moglie di Che Guevara, Aleida March, e il figlio Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui l’intero progetto espositivo è dedicato.

Vi dico subito che allestimento e contenuti sono davvero notevoli, con molti inediti, almeno per me. Foto, registrazioni audio, videoriprese e repertorio filmico e televisivo, scritti e testimonianze: ordinati in modo efficace, secondo la scelta non così scontata dell’ordine cronologico, quindi con un criterio storico preciso, anche sul piano della vita personale di Guevara: si evidenzia così la generosità di un ragazzo cresciuto in una famiglia ricca di cultura e stimoli, che l’asma contratta nell’infanzia forgerà determinato e con una volontà straordinaria.

Gli ideali familiari lo condurranno ben presto a porsi di fronte al mondo nella convinzione che occorre dare in prima persona perché la realtà possa cambiare. Il giovane Ernesto percorrerà le strade dell’America Latina alla ricerca di quanto la sua generazione pensava e sperava, nella radice antica dei riformatori e i rivoluzionari di quel continente: tutti i popoli amerindi devono convergere su di un ideale che metta da parte le istanze nazionaliste, per realizzare la prospettiva dell’unità delle genti latinoamericane in una sola democrazia continentale.

Al concludersi del suo viaggio del 1951\1952 con Alberto Granado (i diari di viaggio sono pubblicati in Latinoamericana, poi divenuti soggetto del film del 2004 di Walter Salles I diari della motocicletta), presso il lebbrosario di San Pablo in Perù, davanti al personale dell’ospedale presso cui prestava servizio, durante la festa per il suo compleanno, il giovane Guevara pronuncerà un breve discorso in cui ribadirà questa convinzione. I suoi viaggi (questo e altri tra il 1950 e il 1951, con vari mezzi: tutti di fortuna e a poco costo) avevano l’intento di conoscere le realtà dei vari Paesi del continente: ne ricaverà convinzione e determinazione per provare a cambiare le condizioni di miseria e dominazione che li affliggeva. È l’ideale che lo sosterrà negli anni successivi, prima durante la rivoluzione cubana, poi nei tentativi di esportarne metodiche e proponimenti in Africa e poi in Bolivia, fino a che nel 1967 non fu ucciso, proprio mentre si prospettava la globalizzazione del movimento di rivolta armata dei Paesi sotto dittatura.

Dopo l’accurata raccolta sugli anni dell’infanzia e la prima giovinezza, la mostra si sofferma sull’incontro con Fidel Castro, l’adesione di Guevara alla causa cubana, la straordinaria avventura della vittoria sul regime di Fulgencio Batista. Poi la narrazione sull’opera dello statista, le riforme avviate, la promozione di salute pubblica e educazione scolastica (tutt’ora a Cuba la percentuale di alfabetizzazione è il 99,7%, dati Unesco), lo sforzo per l’evoluzione economica dell’Isola e la sua autonomia politica, la difesa dalle ingerenze statunitensi che porteranno a quel bloqueo, il blocco economico espresso nel divieto di commerciare con altri Paesi, che ha sempre fatto soffrire il popolo cubano, ma che fino ad adesso (ma per quanto ancora?) non è stato in grado di far crollare il governo castrista.

I vari discorsi alle varie realtà del Paese, anche durante i viaggi all’estero – indimenticabile quello all’Onu – una notorietà che cresce a livello internazionale, il transito (per certi aspetti non facile) in Urss, le relazioni diplomatiche con i Paesi amici nel rapporto diretto con i loro leaders, l’incontro con Sartre e De Beauvoir, l’attenzione che cresce intorno alla piccola repubblica cubana.

I curatori fanno scelte oculate. Non mostrare la celeberrima foto del Che morto, steso su di un tavolo come il Cristo di Andrea Mantegna, gli occhi aperti ma opachi, è del tutto condivisibile. Le molte istantanee esposte ritraggono in modo particolare la sua vita familiare, prima di quella di origine, poi nelle foto con le madri (Hilda e Aleida) delle sue figlie e i suoi figli, soprattutto di quella cubana. Non mancano lettere e cartoline di quest’ambito familiare, con passaggi che fanno capire l’arguzia e la tenerezza che quest’uomo ha saputo esprimere. Al di là della dimensione storica e politica, resta questo l’aspetto che mi ha colpito di più del Che: una radicalità di ideali marcata, ma espressa con una vena letteraria, affettiva, romantica.

La rivoluzione come espressione di umanesimo assoluto, il rigore etico necessario al marxista, la necessità di fare i conti con i propri sentimenti. Quando lo raggiunge in Congo la notizia della morte della madre Celia, nel 1965, scriverà una poesia, La piedra, in cui si chiede se il dolore privato sia consentito nella totale dedizione di sé alla causa: “Non si piange perché non si deve o perché non si può? Non si ha il diritto di dimenticare, anche se i n guerra? È necessario mascherarsi da uomo di ghiaccio? Non so. Davvero non so. So solo che ho la necessità fisica di vedere mia madre e di appoggiare la testa sul suo grembo magro e che lei mi dica “Figlio mio”, con una tenerezza secca e piena, e sentire sui capelli la sua mano emaciata”.

È quel che riecheggia in un’altra sua poesia, quella dedicata alla moglie Aleida, mentre sta partendo per la Bolivia.
«Mia unica al mondo:/Furtivamente ho rubato dalla credenza di Hickmet/
Questo unico verso innamorato, per farti sentire l’esatta dimensione del mio amore.
Eppure, nel labirinto più profondo della conchiglia taciturna/si incontrano e respingono i poli del mio spirito:/tu e TUTTI.
I Tutti che pretendono l’estremo sacrificio/che la mia sola ombra oscuri il cammino! …/
Addio, mia unica,
non ti faccia tremare la fame dei lupi/né il freddo steppario dell’assenza:/ti porto nel petto dalla parte del cuore e ce ne andremo insieme, finché la strada si dissolva…»

Tu y todos: tu e tutti. Non a caso è il verso che dà il titolo alla mostra. Gli amori che tessono la nostra esistenza e l’esigenza di farli divenire occasione per un amore più grande, quello che tutti comprende, a partire dai più poveri. La forza di Guevara è qui e la troviamo tutta nelle lettere ai genitori del 1° aprile 1965 e ai figli, nel 1966, scritta nel caso non fosse tornato dall’avventura boliviana. Non le cito qui, ma invito a leggerle (si trovano facilmente in rete). Sono testi di una tenerezza immane, pur nel rigore della rivolta e dell’opposizione. Del resto è proprio Ernesto che afferma “la durezza di questi tempi non ci deve far perdere la tenerezza dei nostri cuori”.

Un pensiero, uscendo dalla mostra (mi sono commosso un paio di volte, si sa, invecchiando i sentimenti predominano. Per fortuna): il fascismo non ha riferimenti così. Ernesto era un uomo generoso, che aveva compreso che la vita è darsi. E si diede, come scrive di lui Eduardo Galeano. Elementi contestabili nella sua biografia ce ne sono, ma non bastano a offuscare questo aspetto: l’impressione che resta è che l’ideologia non abbia sopito mai il suo spirito caustico e irriverente, che sia rimasto un uomo libero fino alla fine. Anche Giovanni Paolo II tornando dal viaggio a Cuba interpellato a riguardo ebbe a dire che Che Guevara volle servire i poveri.

Ci sarebbe da citare tanto. Ernesto Guevara ci ha dato molto. Come, tra l’altro, lo scrive bene in una sua poesia lo scrittore argentino Julio Cortazar.
Io avevo un fratello/non ci siamo mai visti/però non importava./Io avevo un fratello/che andava per i monti/mentre io dormivo.
Gli ho voluto bene a modo mio,/ho preso la sua voce/libera come l’acqua./talvolta ho camminato/vicino alla sua ombra.
Non ci siamo mai visti/però non importava,/mio fratello sveglio/mentre io dormivo.
Mio fratello che mi mostrava/dietro la notte/la sua stella eletta.

Li abbiamo, questi fratelli e sorelle. Ne dobbiamo essere consapevoli. E dobbiamo provare a esserlo gli uni per gli altri. Sempre.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana
Poesia alla moglie
Ma, senza violar le norme dell’amore sublimato ti porto nascosta nel mio zaino da viaggio.
(Ti porto nascosta nel mio zaino da viaggiatore instancabile, come il nostro pane quotidiano).
Vado a costruire le primavere di sangue e di cemento,
e lascio, nel vuoto dell’assenza,
questo bacio a un destinatario sconosciuto.
Ma non ho avuto il posto riservato
nella marcia trionfale della vittoria
e il sentiero che porta alla mia strada
è soffuso di ombre minacciose.
Se mi portano all’oscuro luogo sotterraneo,
tienilo stretto nell’archivio nebuloso del ricordo;
usalo nelle notti di lacrime e di sogni…
Addio, mia unica,
non ti faccia tremare la fame dei lupi
né il freddo steppario dell’assenza:
ti porto nel petto dalla parte del cuore e ce ne andremo insieme, finché la strada si dissolva…
Ernesto Che Guevara, la poesia alla moglie da cui è tratto il verso “Tú y Todos” che dà il nome alla mostra, 1966
Pubblicato sabato 31 Maggio 2025
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