
È in corso al Museo Cervi, a Gattatico, una mostra dedicata a Genoeffa Cocconi. Si tratta della personale dell’artista Clelia Mori: “Genoeffa Cocconi Cervi. Una donna, una madre”. Inaugurata il 14 novembre con i saluti di Albertina Soliani, presidente dell’Istituto Alcide Cervi, con un mio intervento di inquadramento storico e la presenza dell’autrice, rimarrà aperta fino al 28 dicembre 2022.
Genoeffa muore stroncata dal dolore di quella tragedia abnorme e dai ripetuti assalti fascisti che incendiano ancora la cascina dei Campi Rossi e teme per la vita degli undici nipoti bambini e delle quattro nuore.
Dice Clelia Mori dei suoi disegni, realizzati su carta di grandi dimensioni con stili e tecniche differenti per rappresentare le diverse emozioni, la complessità del dolore e della gioia: “Di Genoeffa esistono solo due fotografie. Una è a mezzo busto, austera coi capelli raccolti e un accollato abito nero; l’altra è stata scattata insieme a tutta la famiglia ed è su questa che ho lavorato, in particolare su di lei e sulla sua ‘invisibilità’ storica. Ho cercato le sue emozioni taciute, che sono tuttavia un pozzo emozionale profondo, insondabile”.
Nel discorso che Calamandrei pronuncia il 17 gennaio 1954 in occasione del conferimento della Medaglia d’Oro al padre Alcide, attribuisce a lui “la fortezza” e a Genoeffa “la gentilezza e la carità”; la vede come “un chiarore diffuso, una dolce luce materna”. Anche nell’epigrafe che le dedica associa riduttivamente la figura materna alla debolezza: “il padre è forte e rincuora i nipoti/ma io sono soltanto una mamma” [2].

La figura di Genoeffa è rimasta per sessant’anni all’ombra di quella del marito e dei figli, assorbita e occultata nella struttura familiare, di cui aveva titolarità il capofamiglia.
Viene ricordata nel ventennale della morte da Renato Nicolai (curatore del libro), dal marito Alcide, dalla nuora Irnes Bigi e dalla nipote Maria Cervi, senza fuoriuscire dalla dimensione privata [4].
Negli anni 80 la ricerca storica ha sottolineato per Genoeffa il ruolo della rezdora (colei che conduce, che ha il compito di amministrare la casa, la moglie del capofamiglia), riconoscendo l’importanza di questa figura nel contesto emiliano; sottolinea anche un presunto “pudore meraviglioso” femminile, nel cui rispetto le donne della Resistenza vengono ricordate solo in forma anonima [5]. Era certo una tara di quegli anni pensare che l’anonimato fosse una scelta consapevole delle protagoniste, tant’è che questa stessa considerazione compare quasi con le medesime parole in un volume edito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri [6].
È la Resistenza civile l’ambito in cui dobbiamo vedere inserita l’attività di Genoeffa, che la coinvolge insieme a tutta la sua famiglia, cominciata ancor prima dell’8 settembre 1943 e continuata dopo la morte dei figli: “Quando si trattava di sabotare la guerra eravamo sempre pronti”.

Anche la morte di Genoeffa va considerata conseguenza diretta delle ripetute violenze fasciste e lei è davvero l’ottava vittima di casa Cervi, come dice Clelia Mori: “Non puoi non aggiungerla al numero dei sette figli uccisi. Devo unirla ai sette figli nella morte violenta che condivide con loro. Un martirio fascista dei figli e della madre. Mi è successo di sentirla così”.
Nel 2004 l’Istituto Cervi e la Società Italiana delle Storiche hanno organizzato un convegno dedicato a Genoeffa [10]. In quell’occasione, parlando della nonna, Maria Cervi riafferma la centralità della nonna nella famiglia da una prospettiva diversa di quella della rezdora; non è quello il ruolo prioritario da attribuirle: “quei sette fratelli sono figli di Alcide e di Genoeffa: non soltanto perché lei li ha partoriti, allattati e nutriti, ma perché ‘insieme’ li hanno cresciuti ed educati all’amore per la famiglia e per il lavoro, ma anche per la lettura, per lo studio, per il gusto della comunicazione e del reciproco ascolto” [11]. Con la sua testimonianza richiamava l’attenzione su un elemento importante, già raccontato da Alcide.
La domenica le vicine di casa vanno da lei e le chiedono di leggere.
Ripensare il materno è parte dell’approccio cui ci invita Clelia Mori, a partire dalla maternità di Genoeffa, nella duplice valenza corporea e simbolica.
È emblema di altre donne Genoveffa. “Vedi, nella dignità fotografata, la forza pacata, quieta del viso convinto del valore di quello che ha fatto: un mondo grande che le sta tutto intorno. Nella foto ricorda le mie nonne, Maria che aveva partorito sette figli e si muoveva silenziosa nella casa mulino e Ardita, con tre figli, solenne nella foto col cappotto con il collo di pelo, che però era stata in galera durante il fascismo. Genoeffa me le riunisce in sé”.

È in quello spazio, tra la morte dei sette figli e la sua, si è innervato il lavoro artistico. “Non c’è un termine per indicare una donna a cui sono morti i figli. E lei come madre è stata uccisa sette volte. Un corpo di madre laica si è inserito nel cielo d’oro del simbolico religioso. E diventa un simbolo della violenza. E allora cammini con lei, cercando il dolore che lei non può dire. Un silenzio enorme, che devasta e diventa un vuoto nei disegni”.

Scriveva la storica Anna Bravo nel 1991 che la maternità può essere vista come una forma di resistenza alla logica di distruzione, “sia che la applichino le donne sia che venga fatta propria dagli uomini”, il registro materno è uno stile conoscitivo che supera le dicotomie [14]. Con un processo di disacculturazione, di fuoriuscita dalla cultura patriarcale, oggi siamo in grado di riconoscere che il prendersi cura è una scelta ispirata dalla relazione materna; la responsabilità verso gli altri è la radice di una civiltà opposta alla violenza, il reale fondamento della convivenza civile.
Todorov ha parlato della cura come forma umana della relazione con l’altro, una virtù quotidiana praticata anche in situazioni estreme come i lager; Maria Zambrano ha indicato nella pietas il modo giusto di trattare l’altro.
Il legame duale tra la creatura piccola e la madre è già stato riconosciuto fondante per la nascita e lo sviluppo della lingua. Può essere riconosciuto anche come fonte del diritto: “dare a ciascuno secondo il suo bisogno”; nella sua analisi della giustizia Simone Weil rovesciava il rapporto tra diritti e bisogno, dando priorità al riconoscimento del bisogno; Elisabeth Wolgast ha seguito l’indicazione ne La grammatica della giustizia [15].
La “storia disegnata” di Clelia Mori allude a tutto questo, oltre a immergersi nel dolore immenso provato da Genoeffa. La filosofa Maria Zambrano ha indicato il sentire come la facoltà umana più grande.
Che emozioni e conoscenza storica camminino insieme anche nella costruzione della memoria collettiva.
Anna Paola Moretti, storica
Foto di Paola Berretta
[1] Italo Calvino, Nei sette volti consapevoli la nostra faticosa rinascita, in «Patria indipendente», 20/12/1953 e Italo Calvino, I sette fratelli, in «l’Unità» 28/12/1953.
[2] Piero Calamandrei, Uomini e città della Resistenza, Laterza, Bari, 1955, pp. 100-120.
[3] Alcide Cervi, I miei sette figli, a cura di Renato Nicolai, Editori Riuniti, Roma, 1955
[4] La donna reggiana nella Resistenza, Celebrazioni del ventennale della morte di ; La donna reggiana nella Resistenza. Atti del convegno 1965, Amministrazione provinciale Reggio Emilia, 1965
[5] Marco Paterlini, Bilancio di una ricerca, in Quaderni del Museo Cervi, numero 2, novembre 2004, “Genoeffa Cocconi donna, madre, contadina”, p.89
[6] La donna italiana dalla resistenza ad oggi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1975, p. 21
[7] Barbara Berruti, L’archivio dei Gruppi di Difesa della Donna: il progetto e la ricerca, in Noi compagne di combattimento.I Gruppi di Difesa della Donna, 1943-1945, Anpi, 2017, p. 95
[8] Alcide Cervi, I miei sette figli, cit.
[9] Come ha notato Laura Artioli, Con gli occhi di una bambina. Maria Cervi, memoria pubblica della famiglia, Viella, Roma, 2020, p. 77.
[10] Gli atti sono stati pubblicati nel volume Dianella Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza, Politica, .Storie di donne, Aliberti, Reggio Emilia, 2006
[11] Maria Cervi, Ricordo di Genoeffa Cocconi, in Guerra e resistenza politica, cit., p. 17.
[12] Vanna Jori, Genoeffa Cocconi non è soltanto una mamma, è una contadina emiliana che vive la storia: spunti per un’interpretazione, in Quaderni del Museo Cervi, n. 2, novembre 2004, cit., p. 22
[13] Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistere, prendersi cura, non cedere, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014
[14] Anna Bravo, Simboli del materno, in Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Bari, 1991, p. 133.
[15] Elisabeth Wolgast, La grammatica della giustizia, Editori Riuniti, 1991.
Pubblicato venerdì 25 Novembre 2022
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