In un precedente articolo, abbiamo visto come il nazismo creò un’apposita organizzazione, che faceva capo direttamente a Himmler, per dimostrare attraverso studi storici, archeologici e linguistici, accuratamente pilotati, la superiorità della “razza ariana” e quindi del III Reich, su ogni altro popolo. Certamente, questo è l’esempio più evidente, e metodologicamente più scorretto, di uso politico delle scienze umane. Tuttavia, non si tratta di un caso unico.
Patrick Geary, analizzando la storiografia medievale, ha dimostrato come questa sia stata spesso uno strumento finalizzato ai nascenti nazionalismi antichi e moderni. Egli dimostra ad esempio che il processo continuo, dall’antichità al XIX secolo, di nascita della Germania, riportato in tanti testi storici tedeschi, non è mai esistito ed invece il concetto di “nazione” per le tribù germaniche è stata una invenzione da parte dell’Impero Romano, che voleva un avversario al suo stesso livello: uno studio accurato dei dati archeologici mostra infatti che prima del loro contatto con i romani le più ampie organizzazioni politiche e sociali dei popoli germanici erano solo raggruppamenti temporanei di bande di guerrieri. Geary ha dimostrato la manipolazione consapevole dei miti ancestrali a fini politici anche nell’Europa tardo-antica e medievale: nei primi anni del VI secolo, l’ostrogoto Teodorico basò la legittimità del suo governo, e il diritto implicito di estenderlo al di sopra delle tribù germaniche vicine, su di una pretesa discendenza da una antica e leggendaria famiglia reale. Analogamente, poco dopo che Clodoveo aveva sconfitto tutti i suoi rivali, i primi storici dei Franchi, Gregorio di Tours e il cronista Fredegar, inventarono una “storia antica” di quel popolo: Gregorio pose la loro origine in Pannonia, la patria del suo patrono San Martino di Tours, mentre Fredegar la legò a Troia, attraverso un racconto che attribuì al poeta romano Virgilio.
Queste manipolazioni della storia non sono solo una caratteristica europea: come dimostrato da Fowler, gli Aztechi legittimarono la loro supremazia sull’attuale Messico con una pretesa, ed inesistente, discendenza dai loro predecessori, i Toltechi; d’altra parte, anche i Maya inventarono il loro complicato sistema di calcolo delle date per collegare i loro governanti ad eventi avvenuti in un passato mitico.
Questa manipolazione politica della storia è continuata in tempi moderni. Tutto sommato, anche se il mestiere di “riscrittore della storia”, come nel romanzo “1984” di Orwell, ufficialmente non esiste, è indiscutibilmente vero, come afferma il protagonista di quel romanzo, che “chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. Spesso, queste “storie” totalmente inventate sostituiscono la realtà storica e, per citare Goebbels, “una bugia ripetuta abbastanza a lungo diventa realtà”: basti pensare alla fortuna di testi “storici” contemporanei di valore scientifico nullo, come “Il libro nero del comunismo” o la troppa pubblicistica che denigra la Resistenza.
L’archeologia può diventare un efficace strumento per riscrivere la storia, fornendo ai governanti “prove” della superiorità del loro popolo. Un tema comune nell’uso colonialista dell’archeologia è stato, e sfortunatamente è ancora, il tentativo di fornire a quanti occupavano, ed oggi occupano, un territorio, la prova di legittimità e antichità di questa occupazione attraverso collegamenti ad un passato a volte soltanto mitico o di impiegare elementi archeologici per definire l’estensione del territorio “che spetta di diritto” ad un popolo: un tipico esempio è stata l’archeologia fascista in Libia e nelle isole dell’Egeo. Gli archeologi sudafricani nell’epoca dell’apartheid inventarono prove archeologiche che lo straordinario complesso del “Great Zimbabwe”, la grande città abbandonata nell’Africa Meridionale, con le sue mura ciclopiche, le torri ed i templi orientati astronomicamente, non era opera dell’etnia Shona, che abitava ed abita la zona, ma di misteriosi “invasori” stranieri, molto più evoluti dei nativi, “che non potevano avere le conoscenze necessarie”.
Come contropartita a questo uso “colonialista”, l’archeologia è stata spesso usata dai popoli di nuova indipendenza come elemento per definire la propria identità nazionale. A volte, ne è stato fatto un uso corretto: ad esempio, in Messico, dopo la rivoluzione del 1910, l’archeologia fu ampiamente usata, nel quadro della politica detta dell’indigenismo, per creare l’immagine di una nazionalità messicana che recuperasse pienamente il passato preispanico. A volte invece si cade nel ridicolo, come nel caso del tentativo di Pol Pot di usare il tempio di Ankor Wat, costruito dal re Suryavarman II come tempio induista all’inizio del XII secolo e restaurato dagli archeologi francesi in epoca coloniale, come prova dell’abilità superiore della locale “civiltà contadina” khmer.
L’uso “nazionalista” dell’archeologia non è però limitato ai popoli di nuova indipendenza. Ad esempio, “antiquari” inglesi del XIX secolo, ma anche studiosi contemporanei, hanno usato Stonhenge come una prova della superiorità degli “inglesi” (che quando questo monumento fu costruito non esistevano) rispetto alle civiltà mediterranee. Lo stesso astronomo Gerald Hawkins, commentando in una trasmissione televisiva le sue teorie, per altro completamente sbagliate, sugli allineamenti astronomici di questo monumento, ebbe a dichiarare: “Il pubblico inglese sarà contento di sapere che l’astronomia praticata a Stonhenge era di gran lunga più avanzata di quella praticata alla stessa epoca nel mondo mediterraneo”.
In realtà, se è ormai accettato da ogni onesto studioso, in ogni campo del sapere, che la scienza non è neutrale ma che ciò che si studia e come si interpretano i risultati dei propri studi è condizionato inevitabilmente dalle condizioni politiche ed economiche della società nella quale si opera, è evidente che la storia e l’archeologia, che è uno strumento essenziale per ricostruirla, sono più esposte di altre discipline al rischio di essere manipolate più o meno volontariamente per fini politici, avendo per oggetto i percorsi che hanno portato alla società odierna.
Di questo fatto lo studioso moderno deve essere conscio quando utilizza per i suoi studi i lavori di quanti lo hanno preceduto.
Vito Francesco Polcaro, scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica), e membro del Centro per l’astronomia e l’eredità culturale dell’Università di Ferrara
Per saperne di più:
– Patrick Geary, The Myth of Nations: The Medieval Origins of Europe, (Princeton: Princeton University Press, 2002)
– Philip L. Kohl and Clare Fawcett, Archaeology in the Service of the State: Theoretical Considerations,” in Kohl and Fawcett, Nationalism, Politics, and the Practice of Archaeology. (Cambridge: Cambridge University Press, 1995)
– Stephen McCluskey, Nationalism, Politics, and the Recovery of Past Astronomies, Paper presented at the Round Table on “Archaeology, Folklore and the Recovery of Past Astronomies,” 8th Oxford International Conference on Archaeoastronomy / 15th Annual Meeting of SEAC, Klaipeda, Lithuania, 26 July 2007
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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