La vita delle staffette partigiane era pericolosa. La staffetta doveva saper “andare in bicicletta, assaltare i camion ai posti di blocco, ricordare, tacere, inventare, non desiderare di conoscere più di quanto deve riferire, fare la faccia da scema, difendersi dagli importuni, ridere del ghiaccio, della neve, della pioggia, del buio, del coprifuoco, ispirare fiducia anche senza parola d’ordine.

Elenca questi compiti in modo incisivo Ida D’Este nel suo bel libro “Croce sulla schiena” al quale vogliamo accostare quello di Federico Maistrello sulla vita di Noris Guizzo “Carmen. Una donna nella Resistenza”.

I due testi ci raccontano due donne partigiane, due personaggi emblematici. Ida, cattolica, staffetta di collegamento nel Veneto, e Noris, comunista, nome di battaglia “Carmen”, staffetta in Piemonte e Val d’Aosta. Molto diverse le loro provenienze e formazioni ideologiche, ma simili il coraggio la determinazione, la dignità, la fierezza. Simboli dell’unità tra forze antifasciste e degli enormi sacrifici che hanno reso possibile la Resistenza in Italia e la Liberazione dal nazifascismo. Sacrifici che hanno visto le donne in primo piano, ma spesso dimenticate e sorvolato il loro prezioso contributo. Per di più la donna, nelle mani dei nemici, non rischiava solo la morte ma era soggetta alle sevizie particolari suggerite dal suo genere. La storiografia contemporanea non aveva finora inquadrato, con gli approfondimenti dovuti, questo sinistro pericolo incombente sulle resistenti.

È dunque un merito dei due libri aver risollevato il tema. L’uno, ristampato per la quarta volta nel centenario della nascita dell’autrice, a cura di Luisa Bellina, promosso dall’associazione “rEsistenze” (memoria e storia delle donne in Veneto) e dall’Iveser, l’altro di Federico Maistrello, prefatrice Lisa Tempesta, edito dall’ Istresco nel quadro di una fertile ricerca sul ruolo delle donne trevigiane nella Resistenza.

Il 30 luglio 1945 Ida D’Este, tornata a casa dalla prigionia, pubblica nel quindicinale veneto del movimento femminile democristiano La voce della donna l’articolo Arrivo al block F. Lo firma non col suo nome, ma con il suo numero di matricola nel campo di concentramento di Bolzano. Da questa memoria iniziale scaturirà il libro (edito poi nel 1953) fatto di capitoli redatti in momenti e date successive che rievocano il suo intero vissuto resistenziale. Tra questi “Una staffetta ricorda” e “Palazzo Giusti” dove Ida racconta le umilianti torture subite una volta arrestata dalla banda Carità e condotta a palazzo Giusti a Padova, luogo di orrori. Vi troviamo descritti con acuta lucidità gli interrogatori e una per una le figure dei suoi aguzzini.

L’adesione di Ida, nome di battaglia “Giovanna”, alla causa della Resistenza nasce dalla sua stessa coerenza cristiana. Colpita dalla visione nel porto di Venezia delle navi coi prigionieri italiani umiliati e sofferenti, si dedica al salvataggio degli oppositori antifascisti, dei prigionieri, degli ebrei, al trasporto di documenti scottanti e di denaro per sostenere le organizzazioni in lotta. Questa giovane donna laureata a Ca’ Foscari con tesi su Blaise Pascal, definita “arcangelo armato” da Giovanni Ponti (dirigente di spicco del Cln Veneto) sarà depositaria e tramite di importanti informazioni tra Cln regionale veneto e i Cln provinciali di Venezia, Padova, Vicenza e Rovigo. Arrestata insieme ad esponenti della Resistenza veneta, tra i quali Ponti e il docente universitario Egidio Meneghetti, finirà nelle grinfie dei peggiori figuri fascisti.

Dopo un “crescendo di sberle, pugni e scosse elettriche”, narra la D’Este nel libro, Carità e i suoi scherani, esasperati dal suo silenzio, la minacciano “Ti spogliamo nuda se non parli”. Ed eseguono. “Con tre strappi improvvisi – racconta – mi tolgono tutta la biancheria. Di scorcio vedo nudo questo mio brutto corpo, che ho sempre tanto odiato (…). Le braccia conserte per nascondere il seno, la testa curva per non vedere nessuno chiudo gli occhi e prego.(…) Curva sotto i colpi delle cinghie, fino a 60 conta monotono uno degli aguzzini, non sento assolutamente nulla. È tale la sofferenza spirituale che non sono sensibile a quella fisica”. Poi verranno gli insulti sguaiati, le minacce di stupro lasciandola in balia dei militi e altre percosse quotidiane. Infine, bastonata e pesta, passerà dalla cella padovana a Trento e a Bolzano nel blocco F del campo di prigionia tedesco. Entra in una catacomba con tre file di loculi stretti, i “castelli”, conosce i pidocchi, il lavoro duro nella galleria della fabbrica di cuscinetti a sfera e tutti i mali dell’esperienza concentrazionaria. “Assieme al numero – racconta – riceviamo un triangolo di tela: rosa i meno gravi, giallo gli ebrei, rosso i politici, i ‘pericolosi’. Voglio il rosso, guardo con invidia chi lo possiede, ammiro sinceramente una ‘pericolosissima’ che ostenta uno speciale disco colorato”.

Nel dopoguerra dopo una parentesi parlamentare la ritroviamo dedita alle cause sociali, a creare di propria iniziativa strutture di accoglimento di ragazze madri e donne uscite dalle ex case-chiuse, subendo per questo una vera e propria campagna di denigrazione da parte di settori del suo stesso mondo di appartenenza.

Parallelo e con conseguenze più strazianti è l’impegno di Noris (Carmen), staffetta comunista e combattente, entrata nelle formazioni partigiane con uguale fede, ma politica. Fede, carattere e generosità le resero possibile di sostenere dopo l’arresto le terribili prove di violenza e tortura, ad opera della stessa banda Carità.

Noris, di famiglia rurale, aveva fatto la sua scelta nel settembre del 1943 unendosi ai partigiani piemontesi e nel ’44, trasferita in Veneto, divenne staffetta nella brigata Mazzini. Viene arrestata e il 19 novembre fa recapitare dal carcere ai compagni una lettera dal tono asciutto e fiero in cui accenna solo di sfuggita alle inimmaginabili torture subite, comunicando invece ogni minimo dettaglio utile, appreso durante la prigionia e i nomi dei traditori Lince, Nina e Max. Ciò che più l’angoscia è il problema del tradimento a cui “è preferibile la morte”. Il suo obbiettivo è negare tutto, resistere per una causa grande e giusta. “Ovunque sia, sono e sarò sempre una compagna”, scrive. Non parla, accenna solo a fatti irrilevanti per trarre in inganno i suoi carnefici, in particolare il tenente torturatore della Gnr (guardia nazionale repubblicana) Michelangelo Mercaldo.

A guerra conclusa si presenta presso la Corte di assise straordinaria di Treviso nei processi per reati di collaborazionismo. Testimonia contro gli uomini che le hanno lasciato segni indelebili sul corpo, ferite irreparabili nell’anima, tormenti per tutta la vita. Fino al 1947 continua a incalzare nei tribunali di Treviso e Udine i delatori e le brigate nere riuscendo ad incriminarne alcuni fino alla condanna a morte (nel caso di Mercaldo non eseguita). Dopo il trasferimento in Argentina la sua esistenza sembra prendere una piega più felice, ma nel 1967, dopo la crisi del matrimonio, forse piegata dalle ombre del passato, si toglie la vita.

L’esempio di queste due donne di diverso colore politico, dai percorsi e destini diversi è rigenerante. L’una festeggia la Liberazione in chiesa indossando ancora la tuta con la croce gialla dei prigionieri, l’altra armata di tutto punto a Treviso, all’interno di Porta san Tommaso insieme ai suoi compagni.

Non si conobbero, ma sembrano fatte della stessa pasta ribelle. Le vediamo unite nell’appuntamento col momento storico decisivo per la nostra libertà.

Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista