Partiamo dal fondo. Il capitolo conclusivo dell’ultimo lavoro che Michela Ponzani ha consegnato alle stampe – Donne che resistono. Le Fosse Ardeatine dal massacro alla memoria 1944-2025, Einaudi, pp. 178, € 23 – s’intitola «Ci hanno seppellito ma eravamo semi»: una frase scritta dai ragazzi del collettivo “Join the Resistance” per accompagnare un itinerario lungo i luoghi della strage del 24 marzo 1944. Sì perché, come annuncia il titolo – Donne che resistono – questo libro non è un’indagine storiografica sull’eccidio delle Ardeatine quanto un percorso sentimentale tra le memorie di chi in quell’ecatombe ha perso il proprio marito, il proprio padre, il proprio fratello, un vaglio delle zone più buie e dolorose del ricordo, un riconoscente omaggio alle tante mogli, figlie e nipoti che ieri e oggi conservano intatto l’atroce documento che le Fosse rappresentano – o dovrebbero rappresentare – nella coscienza collettiva del nostro Paese.

Michela Ponzani dialoga con le fonti scritte e con quelle orali, con quelle passate e con quelle presenti senza soluzione di continuità, alla ricerca di una voce collettiva che, mentre rileva l’incomparabile ricordo del singolo, ne coglie però l’indirizzo corale, quello delle centinaia di famigliari delle vittime che, ancor prima di conoscere il numero definitivo dei corpi trucidati, si costituirono in Comitato “per chiedere – come si legge sul sito dell’Anfim – il disseppellimento dei cadaveri sepolti nelle cave ardeatine, battendosi affinché fosse dato un nome e un degno luogo di sepoltura alle salme anziché limitarsi a porre una croce e una stella di David sulla via Ardeatina come proposto dagli Alleati”.
Dai loro sforzi vedrà la luce, nel 1949, il monumento che ricorda l’eccidio, volutamente celebrativo non dei combattenti di una guerra partigiana ma dei martiri di una Nazione, le vittime di un massacro, di una nuova strage degli innocenti. Ponzani, che all’Anfim è di casa e ha frequentato e intervistato decine e decine di famigliari, insiste sul fatto che quello delle Ardeatine non fu – non è – un santuario dei caduti ma un’opera intenzionalmente antiretorica e antimilitaresca, pensata e realizzata non come oggetto ma come percorso della memoria, finalizzato a denunciare in eterno la vile brutalità di un atto di rappresaglia che calpestò qualsiasi diritto internazionale e qualsiasi convenzione bellica.

A cosa dunque resistono le donne narrate in questo volume? Alle pericolose mistificazioni della storia, alle quali Ponzani oppone un’amorevole ricostruzione del dolore di chi alle Ardeatine ha perso tutto. Mogli eternamente innamorate di uomini scomparsi da un giorno all’altro, inghiottiti dal buio della storia, figlie rese orfane dalla crudeltà più efferata, sorelle oltraggiate dalla superbia di uomini senza onore. Ad aprire questa carrellata di volti e di nomi è simbolicamente Lucia Zauli, vedova ventisettenne, e con tre figlie, di Nicola Ugo Stame, tenore e capo partigiano di Bandiera Rossa, già arrestato nel 1939 durante le prove della Turandot. Nel gennaio del 1944 fu rinchiuso dapprima in via Tasso, dove Priebke gli sfondò la cassa toracica col pungo di ferro, e poi a Regina Coeli, da dove verrà prelevato il 24 marzo per finire orrendamente decapitato dal colpo di pistola che gli toglierà la vita.
Donne “forti e fragili” a un tempo, “che al destino di vittime senza voce della storia non hanno voluto sottostare”, preferendo quello di conservatrici del ricordo, di fustigatrici dell’apatia e del disimpegno morale, ma, soprattutto, di testimoni e accusatrici instancabili di chi per quell’eccidio doveva pagare. Donne che hanno avuto il coraggio di entrare nelle aule di tribunale e puntare il dito contro spie, delatori e carnefici: dall’ex questore di Roma Pietro Caruso a Herbert Kappler, principale responsabile della strage; da Eberhard von Mackensen al comandante della piazza di Roma Kurt Mälzer; fino al viscido Erich Priebke, il cui tardivo processo per crimini di guerra, celebrato nella seconda metà degli anni Novanta, non è stato che l’ultimo tassello di una continua e sofferta ricerca di verità e giustizia.

Donne che, forti delle poche reliquie dei loro cari, hanno seguitato per decenni a conservarne le tracce: brandelli di vestiti, un orologio, una medaglia, un bigliettino scritto a mano col sangue, una chiostra di denti o una ciocca di capelli (come quelli del diciannovenne Gastone De Nicolò che divennero improvvisamente bianchi nell’assistere per ore alla barbara uccisione di così tante persone). Quello di Michela Ponzani è quindi anche un viaggio agli inferi della crudeltà, delle torture, delle sevizie che quegli uomini subirono prima di essere uccisi il 24 marzo 1944; una misericordiosa raccolta di voci che, con solenne contegno, per anni hanno serbato, dei propri cari, il racconto straziante delle sofferenze subite: sofferenze assurde, frutto di una guerra terroristica che non sembrava avere altro fine che quello di strappare a morsi la dignità umana per sputarla in terra. “Per le donne rimaste a piangere, sopravvivere è ricordare la vita di chi non c’è più: in una parola, trasformare una strage in una memoria. Un trauma mai elaborato, una ferita aperta che trasforma il lutto in un culto”.
Le vedove delle Fosse Ardeatine hanno perciò strenuamente difeso la peculiarità del loro dolore, salvaguardando l’irriducibilità delle vittime a puro simbolo di martirio per il riscatto della patria; i loro caduti sono stati infatti qualcosa di diverso, vittime sacrificali di uomini in armi indegni di ogni riguardo, di esseri umani regrediti a bestie. Dopo la fortuita scoperta dei cadaveri a opera del salesiano ungherese Luigi Szenik e del chierico Giuseppe Perrinella, nell’estate del 1944 ci vollero intere settimane perché i corpi dei 335 caduti, esaminati dall’anatomopatologo Attilio Ascarelli, tornassero ad avere un nome.

Settimane in cui centinaia di mogli, di madri e di figlie ripeterono quotidianamente il loro pellegrinaggio di dolore in attesa che gli uomini venissero riconosciuti, mentre l’aria tutto intorno s’ammorbava di un odore terribile, e chi entrava nelle cave – che allora cominciarono a essere chiamate “fosse” – doveva indossare una mascherina per non incorrere in febbri da intossicazione da cadavere. Nelle parole di Ascarelli in quelle cave abbandonate “le salme apparivano le une addossate alla altre, ammucchiate, sovrapposte in più strati, mal ricoperte di pozzolana e di terriccio caduto per effetto delle frane […] dare l’esatta descrizione rappresentativa di come si presentavano questi due carnai umani è cosa che io non so esprimere con adeguate parole: il senso di orrore e di pietà che ne ritraeva il visitatore è superiore ad ogni immaginazione. Due enormi, informi cumuli cadaverici, dai quali esalava un insopportabile lezzo di putridume, di grasso rancido e decomposto, che penetrava e permeava gli indumenti tanto che era necessario premunirsi indossando speciali vesti, calzando guanti e speciali stivali, proteggere le vie respiratorie di mascherine di garza imbevute di deodorante”.

Un orribile scempio, insomma. Al quale si univa il becero tentativo postbellico di addossare le colpe del massacro sui gappisti di via Rasella e sulla loro ‘irregolare’ guerra di guerriglia, allontanandole dai tedeschi e dal servilismo criminoso dei repubblichini. “Minimizzare le responsabilità italiane permetteva alle classi dirigenti del dopoguerra di ripensare completamente il rapporto tra regime fascista e storia nazionale”.

Lo sforzo delle donne delle Ardeatine è perciò stato anche un gesto di opposizione a un discorso pubblico che in questi ottant’anni ha tentato, a ondate successive, di mistificare la storia ridimensionando colpe e responsabilità dei carnefici; a una cattiva coscienza che vuole delegittimare il ruolo bellico dei partigiani; a una parte di Paese e di classe politica italiana che ancora oggi giustifica i fascisti assassini scaricando ogni onere sull’alleato germanico (per poi, in altre sedi, difendere pure quest’ultimo).
Il libro di Michela Ponzani è quindi anche un monito a non dimenticare le responsabilità degli italiani “brava gente”, le guerre sporche di Mussolini, la condotta criminale dell’esercito nostrano e di tutta quella folta schiera di collaborazionisti del regime; un’esortazione a denunciare, oggi in particolare, tutte quelle manifestazioni di odio, di intolleranza, di razzismo, di incitazione alla violenza che hanno le loro radici in quel male antico e pericoloso che fu il volgare e assassino fascismo del nostro più o meno recente passato.
Giacomo Verri, scrittore e insegnante
Pubblicato venerdì 27 Giugno 2025
Stampato il 27/06/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/fosse-ardeatine-quando-con-le-donne-non-dimenticare-divenne-un-atto-politico/