“Oggi ben pochi ricordano i martiri”. Le parole di Gildo Nardini, medico partigiano, sono un’amara verità. Per voluto oblio o per indifferenza si sono seppellite le orme sanguinanti di una generazione travolta e impegnata a resistere al nazifascismo. Per anni nelle scuole non si è neppure nominata la guerra di Liberazione nazionale e solo dopo gli anni Settanta si è timidamente inserito il tema nei programmi. La tv esita a proporre figure e avvenimenti così importanti per la nascita della nostra Repubblica, se si toglie Rai 3 con le puntate di storia e qualche altra eccezione di filmati su La7.

I rigurgiti del fascismo impazzano con nuove organizzazioni e sui social, approfittando di questa ignoranza generale per diffondere il bugiardo negazionismo. In questo clima si battono coraggiosamente in tutta Italia da anni gli istituti di storia della Resistenza e i loro studiosi con volumi, ricerche e pubblicazioni, cercando di contrastare il tentativo di cancellare l’antifascismo. Benvenuto quindi il libro Partigiani del Grappa ad opera di Sonia Residori, storica e bibliotecaria, autrice di vari saggi resistenziali, utile nelle scuole per insegnanti e studenti, appunto per far conoscere ai giovani la Storia che è alle loro spalle e che sembra tanto lontana. Ma quanto è costata in termini di vite umane e sacrifici la libertà di cui oggi possono usufruire! Il testo, preceduto da una narrazione a fumetti di Filippo Simioni destinata ai ragazzi, ricostruisce un drammatico evento del settembre 1944 nel territorio del Grappa.

Partigiani a Crespano del Grappa (Archivio fotografico Anpi)

Dal ’40 l’Italia era in guerra, tra sconfitte e bombardamenti degli alleati, aggressioni di patrie altrui, ma fu dopo l’armistizio dell’8 settembre che si delineò in pieno la grande menzogna della propaganda fascista. L’Italia fu invasa dall’esercito tedesco, da quei “crucchi” che le famiglie del Veneto ben conoscevano dal precedente disastroso conflitto del 1915-18. Ciò che era accaduto ai nonni durante l’occupazione germanica si ripeteva per i nipoti in modo ancor più efferato. Dovettero fronteggiare la violenza delle SS e della Wehrmacht facilitata dai complici fascisti repubblichini, a caccia di partigiani, subire le retate, gli arresti, gli incendi delle case e gli eccidi. Siamo a Bassano e nei paesi della pedemontana.

Bassano del Grappa, processo sommario ai partigiani catturati, 26 settembre 1944 (Archivio fotografico Anpi)

Tra il 25 luglio e l’8 settembre i tedeschi misero in atto il loro piano offensivo. Penetrarono nel territorio, catturando i soldati sbandati e senza guida dopo l’armistizio e il proclama ambiguo di Badoglio, destinandoli ai campi di concentramento in Germania. Mentre i tedeschi installavano i loro comandi nei migliori alberghi della città, molti militari italiani sbarazzatisi delle divise fuggirono sulle colline e in montagna.

Nacquero gruppi di Resistenza capeggiati da militari. La repubblica sociale mussoliniana fu subito a servizio dei tedeschi con le delazioni e i rastrellamenti. Il bando Graziani impose l’arruolamento dei giovani delle classi 1925-26 sancendo la pena di morte per i renitenti. La popolazione del territorio assalita dalla violenza crescente fu posta di fronte a scelte cruciali: subire, collaborare o resistere. Dalla primavera del ’44 l’afflusso in montagna di giovani renitenti o ex soldati disertori fu notevole. Tedeschi e fascisti infierivano nella repressione dei “ribelli”, segnalavano le zone partigiane coi cartelli Achtung banditen.

Eccidio di Bassano del Grappa (wikipedia)

Il massiccio del Grappa era bandengebiet, una zona libera fin dai primi mesi del ’44. Vi si erano rifugiati militari e operavano quattro formazioni partigiane: “Italia libera Archeson” e “Campo Croce”, la brigata Matteotti e la Gramsci, che agivano assaltando le caserme repubblichine e dei carabinieri per requisire armi e sabotavano vie di comunicazione e attrezzature elettriche.

La cronaca rievocativa di Residori è efficace, stringente, quasi filmica. Fa uscire dall’ombra gli avvenimenti che si susseguono restituendoci il clima estremo di quei momenti. Un intero territorio fu sottoposto a inaudite angherie, depredato e colpito da lutti inenarrabili. Non leggiamo solo dati, riviviamo i sentimenti, il coraggio, la paura, l’eroismo e anche le viltà in una catena di vissuto collettivo, una storia locale emblematica di quella generale, culminata in impiccagioni, fucilazioni e deportazioni degli arresi. In queste pagine appare tutto il peso delle vicende storiche sugli innocenti e i loro parenti. Terrore, lagrime e sangue. È materia preziosa per la riflessione e per ulteriori ricerche su dettagli ancora da approfondire. Seguiamo le fasi del rastrellamento.

Partigiani impiccati con al collo il cartello “banditen” (wikipedia)

Tra il 20 e il 21 settembre ’44, nel quadro dei preparativi di ritirata attraverso il Brennero e per sgombrare il territorio dalle forze partigiane, i tedeschi circondarono il massiccio del Grappa con ingenti forze militari coadiuvate da quelle fasciste. I partigiani furono costretti a ritirarsi non potendo fronteggiare un’azione così potente per numero e mezzi.

Esperti del luogo riuscirono in gran parte a sganciarsi e a nascondersi in casolari e rifugi. Fu a quel punto che il comando germanico per riuscire a catturare i fuggiaschi diffuse la notizia che chi si fosse presentato spontaneamente avrebbe avuto condonate le pene o sarebbe stato inviato a lavorare per la Todt.

Sonia Residori (edizionicierrenet.it)

Molti familiari dei partigiani e dei renitenti, ingannati da fascisti locali compaesani, caddero nel tranello. Sperando di salvare i propri ragazzi li convinsero a consegnarsi non immaginando che si trattava di un infame trabocchetto. Infatti i giovani che si arresero furono trucidati, impiccati o fucilati in tutti i paesi della pedemontana e un numero imprecisato inviato nei campi di concentramento tedesco. Le loro salme furono gettate nelle fogne per distruggerne l’identità. Ci vollero anni per riuscirne a identificare le spoglie.

Tra i tanti ritrovo i nomi dei fratelli Manlio e Giuseppe Chirco. Manlio studiava al liceo Foscarini di Venezia, era più grande di me, lo incontravo all’uscita di scuola e salutava me e mia sorella con un sorriso. Pareva una statua greca. Lo avevamo soprannominato “Hermes”. Solo nel ’46 seppi della sua fine atroce. Restò per me come un simbolo della generosità giovanile del ’44 a cui tanto dobbiamo. Non l’ho mai dimenticato.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice