Ha fatto bene Mimmo Franzinelli a raccogliere alcuni testi autobiografici del duce che ne documentano la parabola dai suoi anni giovanili fino alla disfatta finale del regime e di sé stesso. Tra questi, alcune interessantissime pagine scritte attorno al 1911 in cui Mussolini racconta la sua infanzia e adolescenza, la formazione politica e le sue vicende tra Italia e Svizzera.

Foto segnaletica di Mussolini nel periodo svizzero (datata 19/06/1903), quando fu arrestato dalla polizia elvetica del Cantone di Berna perché sprovvisto di documento d’identità: Il cartello riporta l’erronea dicitura Mussolini Benedetto

In questi scritti possiamo vedere il giovane rivoluzionario socialista, che scriverà di sentirsi destinato a grandi cose, costruire la propria mitobiografia nel segno di una eccezionalità intuita: “Ho avuto una giovinezza avventurosa e tempestosa. Ho conosciuto il bene e il male della vita. Mi sono fatto una cultura solida e una salda scienza […] sono un irrequieto per natura, un temperamento selvaggio, schivo di popolarità. […] che cosa mi riserverà l’avvenire?”.

Dovremmo provare a leggere queste righe, così come quelle tratte dal diario di guerra, sospendendo l’immagine del futuro duce: se ci riusciremo, vi troveremo il percorso, per certi versi esemplare, di un intellettuale inquieto e autodidatta nell’Italia convulsa del primo 900 e della crisi di sistema provocata dalla Grande Guerra.

Milano, 1915. Con il bastone, Benito Mussolini a una manifestazione interventista

Scorgiamo in questi anni di formazione la genesi di un io mussoliniano che vuole essere a un tempo straordinario e popolare, gregario (su questo ha scritto brani importanti Emilio Gentile). Già da socialista Mussolini elaborava il proprio mito prima di capo rivoluzionario, poi di eretico e battitore libero, infine di duce del fascismo.

Nell’edificazione della propria immagine, una svolta, naturalmente, è costituita dalla presa del potere nell’ottobre del 1922. Da qui, o da qualche anno dopo, inizia la progressiva proiezione della figura di Musssolini in uno spazio di intangibile unicità che caratterizzerà il ventennio.

A tale edificazione del proprio mito contribuiranno, non bisogna dimenticarlo, gerarchi, intellettuali, la Chiesa, il popolo italiano. E infatti fa bene Franzinelli ad antologizzare stralci di un libro di Emil Ludwig, celebre giornalista tedesco del tempo, in cui possiamo vedere il dispiegamento delle “pratiche propagandistiche del duce, sagace costruttore del culto della propria personalità”.

Mussolini e lo scrittore e giornalista Emil Ludwig nella Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia

Il libro-intervista di Ludwig ci fa entrare nell’allestimento dell’autobiografia mussoliniana nel segno del mito e della costruzione pubblica e propagandistica della propria personalità che aveva, va da sé, un riscontro nella società di massa del 900: l’italiano, infatti, accoglie e intensifica a sua volta il mito del duce. Nell’intervista di Ludwig, tradotta in molte lingue, l’autostilizzazione di Mussolini tocca dei vertici di egocentrismo notevoli: il capo solitario, addestrato dalla fame degli anni giovanili, si paragona a Cesare che “riuniva in sé la volontà del guerriero con l’ingegno del saggio”, e da ultimo al capo che plasma le masse come un artista.

Nel 1937, al ritorno dall’Etiopia, di Mussolini che ha restituito all’Italia il suo impero, Bottai ricorderà nel suo diario che “non l’uomo, ma la statua stava dinnanzi a me. Dura, petrosa statua” o, come scrisse un giornalista inglese, “Roma gli tributò il trionfo e lo rese un dio”.

Claretta Petacci legge un libro di Benito Mussolini

Claretta Petacci trascrisse tutte le conversazioni avute con l’amante dal 1937 al 1942, in una di queste del 1938 sosterrà di sentirsi come “un Dio della forza”, cui tutto ruota attorno e che regge i destini della Patria. Colloqui, tra l’altro, dove l’antisemitismo del duce raggiunge il parossismo: “questi schifosi ebrei, bisogna che li distrugga tutti” (11 ottobre 1938). Lamenta anche i pochi anni di vita che gli rimangono: nel novembre del 1939 sente che gli resta poco tempo, vorrebbe vivere fino a 80 anni e portare a compimento la grande impresa “se prima non mi sparano”, scriverà il 2 dicembre del 1942. Insomma, confonde la sua anagrafe con i destini dell’Italia.

Mussolini dice ancora di sé alla Petacci: “Fin tanto che i miei collaboratori non crederanno a questa infallibilità di vedute – datami dal destino – io avrò sempre i dispiaceri che avrò oggi”. Anche Hitler nel 1930 (e non era ancora alla guida della Germania!) proclamava la propria infallibilità in sede di giudizio politico e storico, paragonandola all’infallibilità teologica del Papa, così racconta Joachim Fest nella sua bellissima biografia hitleriana. Come scrive Franzinelli: “un ventennio di piaggeria, all’insegna della parola d’ordine Credere-Obbedire-Combattere, ha convinto Mussolini  della propria superiorità”.

Come è noto la realtà, a partire dai disastri della guerra al 25 aprile ’45 per concludersi con i fatti di Piazzale Loreto, s’incaricò di screditarlo nella sua presunzione; quando il suo astro tramonta, per una serie di scelte sbagliate, il tono delle pagine mussoliniane acquista un alone patetico e malinconico, ma non riuscirà comunque a bucare mai la corazza di egolatria in cui per vent’anni si era ed era stato avvolto: tutti, eccetto lui, erano colpevoli del disastro italiano (l’esercito, gli italiani, la monarchia, il destino…). Isolato nell’iperbolico compiacimento di sé anche nella sventura, Mussolini, dunque, se la prende con tutti tranne che con sé stesso e si consola nell’illusione di una plutarchiana tragedia personale.

12 settembre 1943, l’Operazione quercia: paracadutisti tedeschi della 2. Fallschirmjäger-Division e alcune SS del Sicherheitsdienst liberano Mussolini da Campi Imperatore

Almeno è questo che si ricava dagli ultimi scritti che Franzinelli antologizza: riflessioni della prigionia prima di essere liberato da Campo Imperatore il 12 settembre 1943, confidenze all’amante (telefonate intercettate e trascritte) negli anni spettrali della Repubblica di Salò. E sempre in tali confidenze Mussolini raggiunge autentiche altezze di patetismo e di autocommiserazione: si sente l’uomo più odiato d’Italia. Cosciente di essere ormai completamente subalterno ai nazisti, si abbandona a sfoghi di ingenuità incredibile, chiede di essere lasciato in pace, lamenta la solitudine del capo al tramonto delle sue fortune e il crollo del suo mitologico prestigio (“io ero qualcuno” dirà il 26 febbraio 1944).

1944, Mussolini parla al Lirico e Milano, tempo è passato da quando si sentiva quasi “un dio”

Quello che colpisce, anche nell’ultimo testo antologizzato, ossia il discorso al Lirico di Milano del dicembre 1944, è la totale mancanza di autocritica di Mussolini. Mai un pensiero, una riga di compassione o di partecipazione dedicate alla catastrofe e alle sofferenze che stavano vivendo gli italiani a causa delle sue scelte politiche, mai un dubbio, neanche passeggero, sulla propria condotta, mai una seria e sincera riflessione sulle sue responsabilità storiche. Del resto, come ha scritto Vittorio Alfieri, nelle tirannidi il tiranno “ama la propria esistenza sopra ogni cosa”.