I libri e gli scritti di chi ha qualche problema con la Shoah, i cosiddetti negazionisti, costituiscono un prolifico e singolare ramo della letteratura fantastica. Se come storici bisogna aver pazienza e smontare una per una le assurdità del negazionismo (purtroppo non è più sufficiente una salutare alzata di spalle in nome del buon senso e della maestà dei fatti), Valentina Pisanty, da semiologa allieva di Umberto Eco, invece, ne ha studiato la retorica e i paralogismi in un libro importante, “L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo”, uscito nel 1998 e ristampato nel 2014: anche il falso ha i suoi meccanismi discorsivi. Una autentica bestia nera, la professoressa Pisanty, per quella piccola ma attiva legione di fanatici.

Come sappiamo il discorso dei negazionisti è autoreferenziale e metodologicamente affetto da un pregiudizio di partenza: nessuna testimonianza dei campi è vera e la Shoah è una invenzione degli ebrei. Da questo presupposto tutto è possibile, come dire: ex falso sequitur quodlibet (“dal falso non può derivare neanche una piccola parte di verità”). Questo si rivela, per esempio, negli scritti del più noto dei negazionisti, Robert Faurisson, un uomo che applica alla storia la sua evidente psicologia disturbata e paranoide. Il negazionismo ha trovato nel web un mezzo formidabile di diffusione ed è tutt’altro che marginale visto che è uno dei ‘fondamentali’ di alcuni pezzi della galassia del neofascismo contemporaneo. Recentemente nella provincia di Padova la presunta fondatrice di un fantomatico ‘partito nazista dei lavoratori italiani’, accusata dalla magistratura di apologia di fascismo e associazione terroristica, affermava che la Shoah è una fandonia e ad Auschwitz c’erano piscine e teatri.

In questo nuovo libro, “I guardiani della memoria”, Valentina Pisanty affronta un’altra questione fondamentale: non il negazionismo, quanto le politiche della memoria della più grande tragedia del XX secolo. La studiosa dell’università di Bergamo si chiede come mai, in un mondo occidentale dove le pratiche del ricordo e della memoria sono diventate ormai più o meno comuni e da cui si spera di ottenere un effetto pedagogico come il ripudio del razzismo, razzismo e antisemitismo, a volte truccati da populismo e sovranismo, siano invece ancora in mezzo a noi, vivi e vegeti. Come spiegare, altrimenti, gli insulti a Liliana Segre? È vero che ogni istituzionalizzazione porta con sé ripetizione e stanchezza, ma c’è qualcosa che non sta funzionando nel nostro esercizio della memoria della Shoah e sembra che al dovere ufficiale del ricordo non segua sempre quell’impegno etico che la disumana meccanica dei campi di sterminio dovrebbe aver insegnato, cioè messa al bando di politiche dell’esclusione, in qualche caso palesemente xenofobe. Un esempio di questo mancato risultato delle politiche della memoria sono, tra gli altri, i vari casi di amministrazioni comunali che – “celebrato” il giorno della memoria e ricordato lo sterminio degli ebrei – il giorno dopo vogliono intitolare una strada al fascista e antisemita Giorgio Almirante.

La Pisanty nota ancora l’eccessivo sfruttamento e la sovraesposizione della figura del testimone che, a sua volta, si è quasi sostituto alla conoscenza storica; il testimone, come è noto e come era noto anche a Primo Levi, non può reggere da solo tutto il peso del nostro legame con la Shoah. L’autrice indaga criticamente tutti i nodi e le contraddizioni del nostro modo di ricordare la Shoah, un ricordare che rimane necessario, naturalmente, sebbene la tesi della Pisanty sia che la ridondanza, la pervasività e l’istituzionalizzazione della memoria abbiano generato una certa stanchezza e diffidenza che potrebbe convertirsi nell’effetto opposto, cioè in forme di antisemitismo.

«L’insistenza martellante sul dovere della memoria (con tutti i suoi corollari, comprese le leggi) ha partecipato dello stesso clima culturale – e forse lo ha involontariamente incoraggiato – da cui scaturiscono le nuove ondate di xenofobia».

Tale tesi, comunque tutta da dimostrare, forse è troppo drastica, ma non priva di una sua verità e di questioni su cui dovremmo saperci interrogare.

Tuttavia, quello che si sottovaluta è il fatto che la memoria, quella memoria che sa diventare conoscenza, al di là delle sue patologie, è una forma di giustizia; perché altrimenti dovremmo leggere Primo Levi o ascoltare la senatrice Segre?