Considerazione non secondaria, in effetti. Maus è un’opera a fumetti uscita in due volumi tra il 1986 e il 1991 che racconta, attraverso i disegni di Art Spiegelman, le vicende lancinanti di Vladek, padre dell’autore e sopravvissuto ai campi di sterminio. Nei suoi racconti rivivono gli orrori della guerra, la banalità del male massimamente rappresentata dall’olocausto, ma anche quella “zona grigia”, già così clinicamente descritta da Primo Levi, in cui diventa impossibile una distinzione manichea tra vittime e carnefici.
È un’opera molto complessa, che si potrebbe parzialmente spiegare con un aneddoto risalente al 1992, anno in cui Maus, primo fumetto a vincere il Pulitzer, fu classificato dal New York Times come fictional novel. Un’iniziativa, questa, che indispettì (e a ragion veduta) lo stesso Spiegelman: tredici anni di ricerche delle fonti documentali e una minuziosa raccolta delle testimonianze erano alla base di un racconto che faceva della fedeltà storica il suo pilastro, inducendo l’autore a dichiarare che “fiction indica che il lavoro non è basato su fatti reali, e questo mi provoca un certo fastidio”. Il New York Times non poté fare a meno di constatare la validità delle critiche mosse e spostò Maus di categoria.
L’operazione di Spiegelman parte dalla stigmatizzazione dei “tipi” umani, colti e cristallizzati in modo tanto efficace quanto, a tratti, ambivalente e ironico: il fumettista attribuisce a ciascuna “razza” i tratti somatici di un animale e rappresenta gli ebrei come topi, i nazisti come gatti, i polacchi come maiali. Se le favole di Fedro proponevano un’antropizzazione allegorica degli animali, magnificati nei loro vizi e virtù umane, Maus procede esattamente in direzione contraria: riducendo gli uomini alla stregua di razze animali, rende immediatamente possibile, in modo parossistico, la distinzione etnica perseguita dal Terzo Reich. Evidenzia i rapporti tra nazisti ed ebrei, e lo fa affidandosi anche al binomio gatto/topo, ma senza ridurre tutto a una metafora appiattita e inespressiva e, con un artificio grafico di grande eleganza e impatto, sa rendere il tentativo del protagonista Vladek di confondersi tra i polacchi, indossando una maschera da maiale.
La componente visiva viene, così, in qualche modo, “alleggerita”: la stereotipizzazione dei protagonisti è esasperata, non ci sono tratti somatici da memorizzare per distinguere i personaggi ridotti ad animali e, così, il lettore inizia a familiarizzare con loro proprio grazie ai silenzi, ai gesti, alle nevrosi e alle emozioni.
E, in virtù di tutto ciò che quest’opera dice, ma anche grazie a ciò che tace, bisogna riconoscere che è proprio come diceva il libraio: «Maus non si può non avere».
Letizia Dabramo
Pubblicato venerdì 28 Settembre 2018
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