I meccanismi che generano i canoni della letteratura sono insondabili a volte; altre riposano su pregiudizi e concrezioni stratificate, senza spirito critico, dalla critica medesima – scusate il bisticcio; in ogni caso capita a tratti di dover fare opere di bonifica, di ripulitura di prodotti artistici malamente segnati da giudizi negativi o – non so dire se sia meglio o peggio – del tutto ostracizzati e dimenticati. E il nostro Novecento è pieno di casi come questi: un poeta caduto sotto il peso delle etichette e che ancora oggi fatica a risollevarsi è, a esempio, Vincenzo Cardarelli – anima severa, sofferente e sensibile – tenuto in ostaggio, per così dire, fino alla fine dei suoi giorni dal pregiudizio di chi lo additava quale rondista senza contenuti, se è vero che ancora nel 1969 Edoardo Sanguineti, nel presentare la propria crestomazia della Poesia del Novecento, si augurava di poterne riscoprire l’opera ripulita da quell’“etichetta di neoclassicismo” che è stata per il poeta di Tarquinia “poco meno che micidiale”. Se non altro, però, il poeta ebbe il suo momento di gloria tra gli anni Dieci e i Venti.
Non così possiamo dire di un altro scrittore che oggi, invece, si va a celebrare. È Carlo Coccioli (con l’accento sulla prima ‘o’) di cui, quest’anno – il 15 maggio –, è ricorso il centenario della nascita: antifascista, partigiano decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare, e prolifico romanziere, Coccioli ha sempre avuto qualche rogna a entrare in sintonia col canone letterario italiano. Il suo spirito forse non cosmopolita ma ‘altro’ meglio si adattava a certi indirizzi intellettuali stranieri, un inquieto esistenzialismo vicino ai francesi e un neorealismo visionario e magico troppo discosto da ciò che si scriveva da noi, negli anni Cinquanta, e molto più in accordo alla nervosa ed energica fantasia latinoamericana.
Ne ha scritte una quarantina di opere. La prima vide la luce nel 1946, Il migliore e l’Ultimo, uscito da Vallecchi. Fu Curzio Malaparte a scoprire l’autore livornese, il cui padre, di origini tarantine, era sottotenente dell’esercito regio. Malaparte scrisse di lui che fu “una vera rivelazione” e più tardi Carlo Bo cercò di riabilitarlo presso il pubblico italiano, in occasione, nel 1976, della pubblicazione di Davide per i tipi di Rusconi, romanzo davvero singolare, una sorta di autobiografia apocrifa del re d’Israele e una riflessione sulla natura dell’amore per Dio in una chiave affatto differente da quella approntata da secoli di bigotto cattolicesimo. Insomma, Coccioli è stato un outsider della letteratura, della cultura, della riflessione storiografica e della sensibilità artistica. Non trovò posto nelle patrie lettere e dunque presto si trasferì, prima per lavoro, poi per scelta di vita, a Parigi, quindi in Canada e infine in Messico. Fu all’estero che scrisse la maggior parte delle opere e fu presso quel pubblico che trovò la più calorosa accoglienza.
In occasione del centenario, l’editore Lindau (raccogliendo il testimone delle edizioni ‘Piccolo karma’ del nipote dello scrittore) ne ha intrapreso la pubblicazione dell’opera pressoché omnia; 17 titoli in programma da qui ai prossimi due anni: lo scorso 15 maggio sono usciti i primi due volumi, L’erede di Montezuma (ed. originale 1964), scritto in francese e tradotto dallo stesso autore in italiano per Vallecchi – un romanzo dai toni epici che racconta l’arrivo dei conquistadores cogli occhi di chi ha subito il massacro – e Il cielo e la terra (1950), testo profetico di ciò che sarà il Concilio Vaticano II, in cui si affrontano i gangli della metafisica e i problemi morali di chi crede con l’inquietudine dello scettico e dell’emarginato (un giovane omosessuale suicida o una ragazzina indemoniata); tra la fine di maggio e il mese di giugno sono apparsi Uomini in fuga, Budda e il suo glorioso mondo (1989), Le corde dell’arpa (1967), e si proseguirà poi con Davide (di cui s’è già detto), Documento 127 che narra la conversione, se così si può chiamare, all’ebraismo (non ultima tappa del tormentato trasmigrare di Coccioli di fede in fede), e diversi altri titoli compreso il suo più famoso, Piccolo karma del 1987.
Piccolo karma è il titolo della collana Lindau, Piccolo Karma era il nome della casa editrice milanese fondata nel 2011 da Marco Coccioli e Grande karma è invece il titolo di un romanzo-biografia che uscirà l’8 luglio per Bompiani. All’autore, Alessandro Raveggi – tra i maggiori conoscitori italiani di Coccioli, assieme al compianto Tondelli (reciproca, tra i due, era la stima) e a Giulio Mozzi –, ricorriamo oggi per approfondire alcuni aspetti della poliedrica figura di questo piccolo, grande scrittore ‘assente’.
Innanzitutto, Alessandro, raccontaci come sei arrivato a Carlo Coccioli.
A Coccioli sono arrivato per caso e per coincidenze significative assieme. Vivevo a Città del Messico da qualche anno, sarà stato il 2010 o il 2011, e mi aggiravo in una piccola libreria dell’usato di un quartiere piccolo-borghese della megalopoli. All’improvviso, il librario, sentendo da una telefonata che ero italiano, mi venne incontro e mi disse, in spagnolo: “Ma lei, lo conosce, Carlo Coccioli?” Io, con sommo imbarazzo, ammisi che non l’avevo mai sentito. Lui di conseguenza mi mostrò qualche edizione in spagnolo di un autore che, avrei scoperto qualche ora dopo, era tra i più noti e chiacchierati del Messico, almeno fino agli anni Novanta. In quegli anni lavoravo alla Universidad Nacional Autonoma e anche lì, nella mia biblioteca preferita, c’erano un sacco di opere in spagnolo dell’autore. Da lì, grazie a un po’ di curiosità e stimolato dal fatto che Coccioli fosse un autore cosmopolita e toscanissimo assieme, mi sono messo sulle tracce, spesso impervie. Rimanendo quasi impigliato nella sua vita, discostandomene a volte, altre volte allucinandola. Divenne a tratti un’ossessione, interrotta da altri libri che stavo scrivendo, e altri eventi significativi della mia vita lavorativa, compreso il ritorno in Italia. Ma il fantasma di Coccioli era sempre lì, anche nella mia Firenze, la Firenze che lui odiava e amava assieme. Ed è per quello che ho scritto un romanzo su di lui, quasi per liberarmene.
Prima di indagare alcuni tratti della sua opera, prova a dirci in generale quali sono gli ingredienti che hanno reso Coccioli un grande ‘irregolare’ del nostro canone, o addirittura un ‘eretico’.
Be’, innanzitutto fin da giovanissimo la sua formazione fu “eccentrica”, o meglio legata a molti centri: in Libia, dove visse con la famiglia, fino almeno a diciassette anni, fu attratto dalle tre grandi religioni monoteiste che convivevano a Tripoli, la cattolica degli occupanti fascisti, la ebraica del ghetto ebraico e la islamica. Da lì il suo multiculturalismo, da lì la sua attrazione per una religiosità estrema, al limite dell’eresia e del misticismo. Successivamente la sua irregolarità credo sia dovuta a letture miste di tradizioni letterarie, specie francesi, che poco hanno attecchito negli autori del dopoguerra italiano. Tutti, voglio dire, leggevano più Hemingway che Bernanos! Lui invece leggeva in grande scrittori cattolici francesi ma anche Graham Greene, ad esempio. In questo, fu ideale per lui farsi accompagnare da giovane da un mentore particolare, anch’egli eccentrico, anch’egli “scomodo”: Curzio Malaparte. Malaparte lo vedeva come il suo erede ideale e lo aiutò a diventare grande in Francia. In Francia, dove arrivò dopo una straordinaria esperienza partigiana che per lui fu quasi più una lotta spirituale che politica, frequentò Gabriel Marcel e Jean Cocteau, divenne famoso al pari di Camus (basta leggere i giornali e persino i rotocalchi di quegli anni). Ma anche da lì fuggì presto, rinunciando alla fama per via di un amore folle. Un altro ingrediente della sua irregolarità è infatti questa grande irrequietezza che ebbe non solo come scrittore ma anche come uomo e amante, e che lo portò a volte a impazzire per amori violenti. In Messico, trovò una casa provvisoria e abbastanza accogliente. La sua peregrinazione parve solo un po’ affievolirsi – non quella di scrittore, certo! – e si mise a scrivere in tre lingue. Anche il multilinguismo è un chiaro ingrediente di irregolarità in Coccioli. Ed è motivo per cui dovremmo considerare Coccioli un grande contemporaneo: noi scrittori, parlo di quelli nati dopo il 1980 almeno, dobbiamo per forza fare i conti con il multilinguismo.
Coccioli è stato un intellettuale davvero eclettico: lo dimostrano la poliedricità degli orizzonti linguistici, le irrequietezze della fede e direi anche le sue opzioni morali, dalla sfera pubblica a quella privata. Per ognuno di questi tre ambiti, indicaci un testo imprescindibile.
Un testo fondamentale per capire queste tre cose assieme è il bellissimo Le case del lago, un romanzo confessione in cui Coccioli tenta la summa di tutte le sue influenze, creando un testo in cui tutte le religioni che frequentò vengono tenute assieme, così come le lingue (francese, spagnolo e persino inglese, usate nel testo.) Poi ci sono testi necessari per capire il percorso morale di Coccioli come Il cielo e la terra, L’erede di Montezuma e Davide dove Coccioli si misura con questa vera e propria lotta con il divino, che lo fa grande, attraverso romanzo di vite forti ed eroiche. Queste urgenze metafisiche un tempo erano viste molto male, oggi però stanno ritornando in certa letteratura, penso a autori come Moresco e Tonon, tra gli altri, e non possono essere trascurate. Senza per forza dover scadere nello spiritualismo, come ad esempio io non faccio affatto nel mio romanzo.
Antifascismo, lotta partigiana e scoperta dell’omosessualità. Come sono legati assieme questi aspetti?
Ne Il migliore e l’ultimo, uno dei primi romanzi del dopoguerra scritti da un partigiano, il protagonista semiautobiografico Carlo fa coming out e racconta di questa sua attrazione e innamoramento per il giovane partigiano Alberto. Le pagine della loro “luna di miele” in un bosco di scope, durante la guerra, sono una celebrazione molto bella dell’amore omoerotico in tempi come quelli dilaniati di odio, marci di violenza. Coccioli però dichiarò di essere stato antifascista fin da piccolo, in Libia, perché odiava il gregarismo e ogni gerarchia, le fanfare opprimenti del fascismo in Africa, che avevano travolto anche il padre. Fu antifascista, ricordiamolo, da liberale anticomunista: un rosselliniano che aveva un grande terrore del Partito comunista italiano. Tanto che, avendo paura di una Prima Repubblica a trazione Pci, votò monarchia!
Che cosa non funzionò, per Coccioli, nell’Italia del dopoguerra? La libertà per cui aveva combattuto non si era poi dimostrata ‘sufficiente’?
Come ho forse fatto già capire, in Coccioli scelte private e scelte pubbliche vanno sempre di pari passo: se le prime sono impulsive e viscerali, le seconde a volte sono scomode (basta prendere le sue cronache scritte per Il Giorno e La Nazione fino agli anni Ottanta e Novanta). Lui fuggì dall’Italia per inquietudini amorose (sapeva di essere omosessuale ma ebbe un’ultima donna toscana, in una relazione tormentata dalla quale fuggì) e “di carriera”: non sopportava le consorterie italiane, i balletti attorno alla figura di Alberto Moravia e altri – uno degli ingredienti del suo insuccesso è stato proprio aver trattato a male parole quest’ultimo. E poi si era messo sotto l’ala scomodissima di Malaparte! Da lì la scelta di fuggire a Parigi. Poi c’era un vero e proprio terrore per il comunismo sovietico: in una lettera a Malaparte racconta persino di aver sentito voci di proscrizioni ed esecuzioni pubbliche, in caso il Pci avesse vinto le elezioni del 1948. Intendiamoci: questo non significa in lui aver rinnegato il suo impegno antifascista, quando fu uno dei leader più attivi della Brigata Rosselli. Fu fino alla morte un antifascista, ma il suo cuore lo portò altrove.
Così oggi, dopo anni di oblio e di assenze dal panorama culturale italiano, Carlo Coccioli sta ‘risorgendo’, anche grazie al tuo Grande karma. Cosa rende i tempi ora maturi? E quanto di Coccioli, della sua scrittura, della sua visione delle cose è trasmigrato in te?
Io non so dire davvero se i tempi siano maturi per la scrittura di Coccioli. Anche perché certi autori hanno tempi ciclici di ritorno e di oblio. Certo è che quello che si porta dietro Coccioli, il romanzo metafisico, non solo cattolico – penso a autori come Krasznahorkai o Cartarescu – quello con urgenze diciamo “superiori” credo sia il tempo di recuperarlo. E poi ho accennato all’elemento multilinguistico, che in Coccioli è un azzardo e che secondo me dovrebbe esserlo anche per i nostri autori, afrodiscendenti o meno. Tutti viviamo in una costante migrazione, anche se alcuni di noi sono più radicati, altri meno: viviamo in un mondo migrante e solo gli xenofobi hanno paura di accettarlo. Questo lo diceva pure Coccioli, per il quale il viaggio mai si scindeva da una migrazione esistenziale. I lettori di quel piccolo libro strano che è Piccolo karma lo sanno: lì la teoria è quella di una migrazione spirituale per tappe, stando semplicemente dentro una piccola casina in Texas a guardare fuori dalla finestra, scrivendo un minutario, ovvero un diario-di-minuti e non di giorni. Il viaggio multilinguistico di Coccioli, soprattutto, è quello che penso sia entrato in me. Questa esigenza di un testo multilingue che alcuni critici mi hanno fatto notare senza quasi che io lo facessi in modo cosciente, anche nei miei racconti, che mi porta ad un tempo ad usare toscanismi e forzare l’italiano verso lo spagnolo (mia seconda lingua di vita) e l’inglese (la lingua del mio lavoro e della mia vita professionale.) Questo senso di ubiquità – nella lingua ma anche nei contenuti – che mi piacerebbe dare nei miei libri, questo penso di averlo imparato in qualche modo da Carlo Coccioli.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato martedì 30 Giugno 2020
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