È uscito il libro “Ci fu chi disse no”, realizzato dalla nostra Associazione ed edito da Bordeaux, con la raccolta degli atti dei convegni realizzati per celebrare i dodici docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime nel 1931. Il volume propone le biografie, gli aspetti intellettuali e professionali, le ragioni che indussero a quel “no” e svolge una riflessione sui modi con i quali la difesa della libertà della ricerca e dell’insegnamento ha concorso alla formazione di una coscienza antifascista, traducendosi poi in disposizioni della Costituzione repubblicana.

I 12 professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascimo: Ernesto Bonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra

Il libro è il frutto di un impegno straordinario, con risultati oltre ogni aspettativa, ottenuto anche grazie ai Comitati Provinciali dell’associazione che si sono prodigati nella realizzazione dei convegni. Il volume suggerisce, oltre un utilizzo al fine dello studio e dell’approfondimento, anche un utilizzo didattico che parte proprio da quel “no”, cioè attività laboratoriali rivolte agli studenti, per comprendere meglio i vari aspetti che hanno caratterizzato la dittatura, le sue imposizioni e la dignità di chi si oppose.

“Ma tu cosa avresti fatto?” Questa è la domanda che spesso mi viene rivolta dagli studenti, a seguito delle attività che realizzo nelle scuole. La domanda è legata allo specifico laboratorio sulla scuola durante il regime fascista, in cui inserisco il giuramento dei docenti universitari del 1931. Per serietà non do una risposta che risulterebbe molto facile dare oggi, e cioè: “no, non avrei giurato”. Una risposta così “scontata” rischierebbe di rimandare agli studenti la troppa facilità di una scelta di allora, in negativo o in positivo, perché nell’oggi, non è più nemmeno riproponibile un giuramento del genere. Inoltre, rappresento una Associazione che ha una collocazione inequivocabile e, quindi, il no di oggi risulterebbe scontato.

(Imagoeconomica, Carlo Lanutti)

La risposta facile non aiuterebbe a costruire quel pensiero che, ancora oggi e sempre di più, deve contribuire a una visione più ampia delle vicende del nostro recente passato ma, sempre di più, chiede di mettere a disposizione elementi di conoscenza per poter sollecitare le giovani generazioni a una riflessione.

In sintesi: non devo essere io a dare la soluzione, cioè che cosa era giusto o non giusto fare allora, ma ragionarlo insieme agli studenti attraverso la condivisione dei documenti, per farli diventare esperienze che tocchino le sensibilità proprie di queste generazioni. Scoprire, cioè, che gli eventi della storia, i fatti e le persone che la incarnarono, possono svelare tratti che si ripresentano nella contemporaneità. Sollecitare in questo modo la conoscenza contribuisce a quel “pensiero critico” che non nasce come imposizione preconcetta, ma come rivalutazione del proprio essere.

Rivolgerci alle generazioni “Z”, cioè a chi è nato fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo, è un dovere, oltre che un impegno. A queste generazioni è necessario mettere a disposizione tutto ciò che può servire a comprendere, perché costruiscano le loro letture, i loro approfondimenti e, dunque, il loro “pensiero critico” perché diventi conoscenza. Con questa modalità mi propongo come adulto che dialoga con loro, ascoltando più che parlando.

L’attività laboratoriale, dunque, ha come scopo quello di “far vestire”, o più semplicemente, provare a far rivivere lo specifico tematico. In virtù di questo, per rispondere alla domanda iniziale e per mantenere fede all’approccio proposto, propongo agli studenti e agli insegnanti di leggere a voce alta il giuramento, di fronte a tutti. Metto a disposizione, quindi, il testo integrale che spesso non si conosce.

Nella maggioranza dei casi trovo imbarazzo e nonostante rassicuri sul fatto che è abolito dalla storia e dalle leggi, trovo comunque, un imbarazzo. Da parte dei docenti gli atteggiamenti sono generalmente contenuti fra: “lo leggo solo perché partecipo all’attività”, “ovviamente non mi rappresenta” a “no, non riesco”. Da queste considerazioni comincia lo sviluppo dell’attività, con una discussione sulla reazione degli insegnanti, la conseguente reazione degli studenti e la condivisione del disagio dell’imbarazzo. Cioè, mettere in relazione l’imbarazzo di oggi e provare a comprendere che cosa poteva significare allora, quando si perdeva lavoro e pensione.

Da parte degli studenti riscontro atteggiamenti diversi, in parte dettati dalla logica della “sfida” fatta di sorrisi e sguardi ironici verso i compagni, in parte dettati da curiosità. Generalmente le reazioni vanno da “che problema c’è?” a “ma anche questo? (indicando quasi “…e al regime fascista…”). Nel secondo caso, di fronte al testo e quindi di fronte alla responsabilità della lettura a voce alta, emerge un imbarazzo. Ovviamente c’è anche chi legge senza imbarazzo e certamente non per affinità; tuttavia, è interessante verificare il silenzio che si registra dopo la lettura a voce alta, quasi si aspettasse un commento distensivo, una giustificazione, oppure una battuta che sdrammatizza. Anche quel silenzio e quell’attesa, producono un imbarazzo.

Questo è il tema: anche oggi imbarazza leggere a voce alta, davanti ad altri, quel testo. Umanamente si è scossi, anche se non vale più, anche se è una attività che non influisce sulla vita dei singoli. Quell’imbarazzo che non è legato alla varietà di possibilità, da cui la difficoltà a fare la scelta migliore, ma quell’imbarazzo che si vive nel momento in cui si è costretti a scegliere un atteggiamento o un comportamento e che, di conseguenza, produce un impedimento, un impaccio al libero e normale svolgersi di una scelta. Da qui uno spunto sul significato umano di quel no, cioè il significato della dignità della persona.

Concentrarsi sull’aspetto umano produce, fra le altre, due tematiche di approfondimento. Un primo tema incisivo – in quanto misurabile anche all’oggi – è il tema della violenza. Violenza che è tratto genetico e fondativo del fascismo. Violenza che il fascismo ha attuato in tutte le sue forme: verbale, psicologica e fisica, fino all’estrema conseguenza. Violenza che la dittatura ha incarnato nell’individuazione del nemico interno ed esterno. Violenza che diventa controllo e repressione del dissenso. Violenza che diventa nazionalismo, razzismo, invasione, guerra. Violenza che è Repubblica sociale con la responsabilità delle stragi e l’ostentazione del corpo dei partigiani. Comprendere quello che è stato, può aiutare a riflettere maggiormente su quello che viviamo. Conoscere di più può aiutare la lettura della drammatica attualità, fatta di gesti e simboli che riproducono pensieri violenti. Di conseguenza, dare risposte vere a negazionismi e strumentalizzazioni che, purtroppo spesso da tanti adulti, vengono usate proprio quando si parla del nostro recente passato.

A ciò si aggiunge che quelle vicende sono sempre più lontane nel tempo. In questo contesto acquista, quindi, maggiore importanza lo studio della storia, di quel passato secondo i criteri del sapere critico, l’analisi dei documenti, della ricostruzione dei contesti e delle cause, della riflessione sulle conseguenze. La storia del fascismo e della lotta contro di esso sono elementi di conoscenza fondamentali per le giovani generazioni protagoniste della società presente e futura, in quanto cittadini consapevoli della repubblica democratica sancita nella Costituzione.

(Imagoeconomica, Leonardo Puccini)

Il secondo tema, che sancisce la netta contrapposizione col passato, e ci esorta a essere responsabili nel presente, è la Costituzione della Repubblica Italiana. La conoscenza e la consapevolezza della storia è la migliore propedeutica per affrontare la Costituzione. Quel “no”, ci proietta direttamente alle libertà sancite in costituzione proprio sul tema della ricerca, dell’insegnamento e, di conseguenza, del ruolo importante che ricopre la cultura intesa proprio come conoscenza del passato.

Alla luce di quel “no”, l’articolo 9 della Costituzione, che sancisce il principio culturale cui lo Stato deve tendere, ci rimanda alla libertà della cultura, in tutte le forme in cui si esprime, e all’autonomia delle strutture che sono dedicate alla promozione della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. A differenza della dittatura, dunque, l’intervento dei pubblici poteri non può intaccare la libertà di chi fa cultura o ricerca, anche perché solo salvaguardando quelle libertà è possibile arrivare al progresso spirituale del Paese verso la promozione dell’uomo, così come sancito dal principio personalistico che abbraccia tutta la Costituzione. Come negare, infatti, che l’attività di ricerca è indispensabile per rinnovare i contenuti, a esempio, dell’insegnamento, per elevare la professionalità dei lavoratori e assicurare una sempre più adeguata sicurezza sociale e del lavoro. A differenza di quanto disposto dal giuramento del 1931, la Costituzione consacra la promozione e lo sviluppo della cultura e della ricerca, evitando che siano soggette a imposizioni del potere politico.

Certo, non è tutto facile. Sappiamo bene che la società in cui viviamo tende sempre più a vivere in un presente continuo e a produrre l’indebolirsi dei fili che connettono le esperienze delle diverse generazioni, per cui la trasmissione memoriale risulta sempre più fragile.

Quel rifiuto, ancora oggi risuona potente, ed è un capitale morale da raccogliere, valorizzare e diffondere. In un momento storico molto diverso da allora, ma preoccupante per il verificarsi di episodi di discriminazione, razzismo, violenza verbale e fisica, istigazione all’odio e il ritorno sulla scena politica e in piazza di movimenti nostalgici, o addirittura dichiaratamente neofascisti, che provano a far presa tra le nuove generazioni nelle scuole e nelle università, quel “no” è attuale.

Come azione concreta, dunque, “umanizzare la storia” può rappresentare una proposta, un metodo, una prospettiva che l’Anpi può offrire alle istituzioni scolastiche. L’uso delle fonti originali ha il vantaggio di mettere al lavoro gli studenti rendendoli direttamente attivi nella costruzione della conoscenza. Solitamente questo approccio fa crescere la motivazione e il coinvolgimento; inoltre mettersi alla prova leggendo senza intermediazioni i documenti dell’epoca significa imparare a esercitare quelle accortezze che sono a fondamento del pensiero critico anche al presente, immersi come siamo in flussi enormi di informazioni non verificate su cui è vitale essere in grado di esercitare un continuo pensiero critico.

Per tornare alla domanda iniziale, “ma tu cosa avresti fatto?, non posso che rispondere onestamente: “Non lo so, non cero. Ma so bene quello che possiamo fare oggi.” “Ci fu chi disse no” è tutto questo.

Paolo Papotti, responsabile Formazione e Progetto Memoria Anpi nazionale