Esce nella collana “Il tempo storico”, curata per Neri Pozza da Pier Luigi Vercesi, un grosso e interessante saggio di Marco Cuzzi sulla Milano ai tempi di Salò, quasi una cronaca di ciò che accadde nel capoluogo lombardo nei seicento giorni di governo repubblichino e di occupazione tedesca. Il lavoro poggia su vaste consultazioni d’archivio e su una ricca bibliografia alla quale lo studio di Cuzzi si aggiunge regalandoci un affresco dettagliatissimo di quei terribili mesi.
Si inizia dall’8 settembre col ritratto che di Milano offre Salvatore Quasimodo: “Invano cerchi tra la polvere: / povera mano, la città è morta”, come sta morendo, piano piano, la speranza che l’Asse ancora possa farcela contro gli Alleati. Tuttavia non passano pochi giorni che già al pomeriggio dell’11 si vedono scorrazzare per la città le prime avanguardie dell’invasore, una quarantina di soldati tedeschi del corpo d’élite “Leibstandarte Adolf Hitler”. Il commento è tranciante: “Quaranta soldati per la seconda città del Paese, una metafora del collasso italiano”. Ma, in ogni caso, soldatacci maledetti, gli stessi che di lì a poco compiranno la prima strage di ebrei in Italia sul Lago Maggiore, presso Meina, e che a dicembre si sporcheranno le mani con l’eccidio di Boves.
Sono giorni convulsi: mentre si uccidono le prime SS, qualcuno il 13 settembre affigge un manifesto che informa della liberazione di Mussolini a opera di paracadutisti tedeschi sul Gran Sasso. È il ritorno dei fascisti? Per certi versi sì, ma è un ritorno sui generis: il corpo del fascismo sembra infatti essersi sgretolato in mille schegge. Molti, tra i gerarchi, si sono dispersi, alcuni hanno riparato nel Reich, altri sono espatriati lontano, altri ancora hanno abbandonato la politica o si sono rimessi sotto l’egida del monarca. Marco Cuzzi ricorda un dato: “su dodici segretari del Partito nazionale fascista dal 1921 al 1943, tre sono morti – uno di loro, Ettore Muti, sopravvivrà a sé stesso come primo martire di Salò – e solo cinque (…) aderiranno alla Repubblica sociale”. La Rsi nasce ridimensionata nei numeri – per certuni si tratta di un auspicato ritorno alle origini sansepolcriste –, e la dirigenza del Pfr deve accontentarsi di “pescare nelle seconde o terze file del vecchio Pnf” o di fare affidamento su gruppuscoli di giovani invasati come Carlo Mazzantini che narra in A cercar la bella morte la testarda affiliazione alla legione Tagliamento o Giorgio Albertazzi che ricorda in Un perdente di successo l’adesione a un fascismo finalmente privo degli “orpelli del Ventennio”. È dunque una rottura col vecchio partito, una ripartenza disordinata, all’ombra delle baionette tedesche che, dal modello nazista, mutuava pure e volentieri – come scriveva Ganapini – i simboli funerei, le insegne di morte nonché “la sopraffazione e la cancellazione di ogni diritto”.
La Repubblica ha sede ufficiale a Salò ma è Milano a esserne la capitale morale; per molti ex squadristi qui deve rinascere l’“Idea” originaria, senza più compromessi con la monarchia e con la Chiesa. Le parole d’ordine diventano quindi anticapitalismo, antisemitismo, corporativismo e socializzazione delle amministrazioni aziendali (“Si tratta”, per quest’ultima cosa, “dell’ennesimo sogno rivoluzionario di un fascismo alla ricerca di un consenso che controbilanci il ‘bastone’ repressivo”). Tuttavia, da subito, i sentimenti dei milanesi – non solo gli operai, ma la piccola e media borghesia – sono piuttosto freddi nei confronti di questa minoranza di fascisti incalliti, che peraltro si trovano su posizioni difformi se non apertamente in contrasto l’una con l’altra. Troppi galli nello stesso pollaio: ci sono Renato Ricci a capo dell’Onb, c’è – per poco – Aldo Resega, nominato commissario federale dei Fasci repubblicani milanesi (con Costa e Villani, due moderati, come vice), ma ci sono anche, a far da mine vaganti, Franco Colombo che spinge per abbattere le più docili normalizzazioni a favore di un ritorno al vecchio e spudorato “giampaolismo”, gli uomini della Decima Mas, e più tardi i delinquenti della banda Koch.
Va da sé che gli attriti non tarderanno a sorgere. Diventano accesi, anzi, non appena Colombo mette in piedi la famigerata “Muti” (con molti giovanissimi ex ospiti del riformatorio di Vittuone) e inizia a manifestare aperta intolleranza nei confronti di chi non ha voglia di osare. E infine c’è Parini, scelto espressamente dal duce come podestà di una Milano nella quale è difficile non fare i conti con la borghesia produttiva.
Su tutto, infine, aleggia l’ombra nera dei nazisti, i veri padroni del capoluogo, e in particolare dell’ss-Hauptsturmführer Theodor Emil Saevecke, tristemente conosciuto come “il boia di Milano”. La realtà è che i fascisti hanno perso tutto, o quasi, dal punto di vista decisionale ma possono tornare utili come galvanizzati esecutori degli ordini impartiti dai tedeschi, cui necessita una città tranquilla e disponibile a produrre quanto serve all’industria del Reich. Milano diventa insomma un’enorme preda bellica non solo per le sue fabbriche e gli operai ma pure per i generi alimentari – burro, zucchero, caffè, riso – su cui i comandi germanici mettono le mani senza indugio.
Tuttavia l’autunno del 1943 porta anche i primi sussulti di rivolta: timide – almeno all’inizio – proteste operaie e il formarsi dei GAP; a proposito dei quali, l’amministrazione nazi-fascista e i mezzi di informazione preferiscono per ora tacere – specialmente quando si tratta di attentati – per non increspare l’apparente ordine pubblico. Anzi, per gli operai giunge una serie di deboli promesse sull’aumento dei salari che saranno puntualmente disattese.
La cronaca di Marco Cuzzi si insinua nelle pieghe più intime della quotidianità – che cosa danno nei cinema del capoluogo, quali pochi prodotti si possono trovare nelle botteghe, quanti e quali clienti frequentano le case chiuse – edificando nel lettore un senso d’attesa per ciò che verrà; la narrazione procede per scarti anche molto stretti, rendendo l’idea di quanto i contrasti interni alla Rsi si facciano più tesi: da una parte Resega che desidera “disciplinare” gli squadristi della Muti e dall’altra Colombo che vorrebbe rimuovere l’intera segreteria del partito. Ci pensano però i gappisti che fanno fuori Resega la mattina del 18 dicembre provocando la prima grande reazione fascista: otto condannati a morte all’Arena civica presso il Castello sforzesco. Si capisce che il tempo dei moderati è finito e che la guerra civile è in pieno svolgimento.
In un certo senso anche la geografia di Milano cambia connotati, vie e piazze sono risemantizzate in funzione dell’inquietudine e dell’orrore che esse simboleggiano; c’è l’albergo Regina dove operano i nazisti, c’è il Broletto, al numero 2 di via Rovello, dove i mutini – i principali protagonisti della repressione milanese – si barricano dietro sacchi di sabbia, filo spinato e mitraglie, ci sono le ex scuole Schiapparelli e le cantine Moriggi; e ci sarà, più tardi, la villa Triste della banda Koch o le varie sedi della banda Bossi, dal nome di Ferdinando Bossi, capo dell’Ufficio politico investigativo della Gnr. C’è infine il carcere di San Vittore, già occupato alla sera del 12 settembre da un reparto di SS. Accanto ai delinquenti comuni, le celle si riempiono di oppositori politici, di partigiani e di ebrei; e se questi ultimi saranno macabramente trasferiti al binario 21 della stazione centrale per essere deportati di là dalle Alpi, molti altri – tra “banditi” e gappisti – non ne usciranno più poiché spariti nei meandri bui dei sotterranei adibiti alla tortura (“chiamati la ratèra, la tana dei topi”).
A Milano, dunque, la paura non è solo quella che scende dal cielo sotto forma di bombe, ma anche quella più subdola e strisciante di una serie di veri e propri “clan” di fascisti, l’uno in contrasto con l’altro. “La concorrenza e lo spionaggio reciproco sono diffusissimi”, scrive Marco Cuzzi. “Più che a Milano negli anni Quaranta, sembra di essere a Chicago vent’anni prima”. Risultato? La popolazione vive un’atmosfera di eterna inquietudine se non di autentico terrore.
Ma il tempo passa, inesorabile. Il 1944 è l’anno del processo di Verona e della chiusura col passato; in alcune menti si fa strada un allucinato parallelismo: “Per molti gerarchi e dirigenti locali del PFR questa Repubblica sembra sempre più prossima a quella della Convenzione del 1792: Vittorio Emanuele III come Luigi XVI; i congiurati del 25 luglio come i girondini; gli Alleati come la prima coalizione antifrancese; la linea Gustav e poi la Gotica saranno la nuova Valmy; le repubbliche partigiane e le varie resistenze come la Vandea. E il fucile mitragliatore sarà la nuova ghigliottina”.
Parini, a capo dell’amministrazione civile, recupera risorse per istituire le mense dei poveri e sgomberare le macerie dei bombardamenti, raccolte in quella montagnola poi rinominata Monte Stella, mentre la propaganda si sforza di mantenere viva la fede nel fascismo con una miriade di cartoline, volantini, opuscoli, fumetti e giornali. Tentativo mal riuscito, dacché a marzo 1944 ricominciano più violenti gli scioperi nelle fabbriche (con grandi risultati a livello d’immagine ma non di reali conseguenze), si intensificano gli attentati dei GAP e pure i bombardamenti, con il cosiddetto “ritorno di Pippo” (nomignolo con cui si indicavano gli aerei alleati) e delle “fortezze volanti”.
La primavera del 1944 segna dunque il lento inizio della fine: mentre le autorità si impegnano, quasi comicamente, a dimenticare l’anniversario del 24 maggio – per non offendere l’alleato tedesco – e a ricordare invece, il 2 giugno, la morte di Garibaldi, celebrato come eroe della patria repubblicana, gli Alleati risalgono la penisola e il 4 dello stesso mese liberano Roma, da una parte galvanizzando la Resistenza e portando di lì a poco alla creazione del Corpo volontari della libertà, che avrà la propria sede clandestina a Milano, dall’altra spingendo le autorità di Salò a inasprire la guerra civile. È in questo frangente che si inserisce l’attività dell’“implacabile Giovanni Pesce” il quale riorganizza la struttura gappista in una vera e propria formazione militare.
Anche i fascisti però si danno da fare militarizzando sempre più il partito. Per centralizzare l’azione e dare nuovo impulso alla controguerriglia nascono le Brigate Nere; quella milanese, che si porrà in qualche modo in concorrenza con la Gnr e con i mutini, è la “Resega” (il nome è quello del federale ucciso l’anno prima): con essa e con i fatti di piazzale Loreto viene inaugurata un’estate di sangue, fatta di attentati, rappresaglie, bombardamenti (catastrofico quello di Gorla dell’autunno successivo, che causò la morte di 184 bambini) ed esecuzioni che ancora una volta mostrano quanto “Salò non è una Repubblica, ma una confederazione di gerarchi contrapposti l’uno all’altro”.
Avvincenti e tragicissimi si fanno, nella cronaca di Marco Cuzzi, gli ultimi mesi di guerra, a partire da quel 16 dicembre che vede il ritorno di Mussolini a Milano al teatro lirico: con l’ultimo discorso pubblico tenta di convincere sé stesso e la folla che esista ancora qualche speranza; in fondo “molti seguitano a distinguere Mussolini dai fascisti: lui potrebbe rimettere ordine”. Non sarà ovviamente così poiché gli estremi progetti mussoliniani assumono i contorni di un malato delirio: “Gli ultimi tre mesi di vita della Repubblica del Garda sembrano in effetti un esercizio di immaginazione, un sogno privo di concretezza, lontano dalla realtà”.
Una demagogia sempre più teorica s’impossessa dei legislatori così come si fanno avanti proposte sul futuro di un fascismo ormai ridotto al lumicino; si tenta da una parte un nuovo progetto di socializzazione delle imprese, una Camera dei produttori, “una sorta di parlamento operaio, quasi un soviet in camicia nera”; dall’altra si sogna il ritiro in un’ultima Thule (il cosiddetto Ridotto alpino repubblicano, in Valtellina) dove organizzare un visionario rifiuto dell’avanzata alleata; o, a opera dei più diplomatici (i “pontisti”), si postulano modi e tempi per una impossibile trattativa. Chimere che a Milano, ormai capitale dell’“evanescente Repubblica”, resteranno tali, annullate “dall’ultima feroce stagione della guerra civile e dell’occupazione nazista” che vedrà le operazioni conclusive della cosiddetta Shoah milanese – con le vergognose deportazioni partite dal famigerato Binario 21 –, la riorganizzazione della Resistenza, dopo la pausa forzata del proclama Alexander, e l’avvicinamento al capoluogo delle formazioni partigiane della Valsesia e della Valdossola.
E mentre il duce lascia per sempre il lago di Garda per tornare nella culla del fascismo – è il 18 aprile 1945 –, sognando dapprima un’alleanza militare con gli angloamericani in funzione anticomunista e poi una trattativa con le anime moderate del CLNAI (per mezzo del cardinale Schuster che organizza l’incontro tra Mussolini e una parte dei comandi partigiani in Arcivescovado, il 25 aprile, “mentre la città inizia a vivere le ore dell’insurrezione generale”), Pertini e i leader del Comitato di Liberazione non hanno più dubbi: nessuna trattativa, “la resa deve essere incondizionata e Mussolini va giudicato in Italia”.
Si sa poi quale piega ha preso la storia, e come le parole di Pertini siano state profetiche. Ciò che resta alla fine della lettura di questo affascinante saggio-cronaca è la sensazione che Cuzzi, al di là del suo certosino lavoro di storico, sia riuscito a trasmettere l’atmosfera, le emozioni, la confusione psicologica che precedettero e accompagnarono i seicento giorni di Salò, individuando e restituendo, in qualche modo, la misteriosa coscienza che intride le grandi comunità e che permette alle persone che le compongono di accorgersi “dei grandi cambiamenti che stanno per accadere. Come gli animali che percepiscono l’arrivo di un terremoto prima che questo avvenga”.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato sabato 3 Settembre 2022
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