Le ultime parole di donne, quando non bambine, sorelle, figlie, madri, compagne di tutta Europa che sono state deportate, torturate e uccise in un numero imprecisato – oltre alle decine di milioni di morti che la guerra causò – dalla belva nazifascista, diventano un intensissimo libro dal titolo “Portateci nel cuore. Lettere di condannate a morte nella Resistenza europea”, curato da Chiara Meier Colombo, Giovanni Parrella e Ada Perla e pubblicato da 4Punte, casa editrice che prende il nome dai fatidici chiodi a quattro punte che vennero cosparsi sulle strade consolari di Roma come arma di sabotaggio per ostacolare i movimenti degli occupanti nazifascisti.

Un piccolo libro che raccoglie messaggi, testamenti resistenti, gli ultimi pensieri delle ultime ore di vita, lasciati su pezzi di carta o sui muri delle celle e nei luoghi di tortura. Come quelle incise nel gennaio 1944 sul muro della prigione da Paša Savel’eva, 22 anni, pochi minuti prima di essere bruciata dalla Gestapo nel cortile del monastero cattolico di Luck, in Russia. “Si avvicinano neri, terribili minuti! Tutto il mio corpo è mutilato, le mani, le gambe… Ma muoio senza aver parlato. In nome della vita di coloro che verranno dopo di noi, in nome tuo, Patria, ce ne andiamo… Diventa grande, bellissima, Patria mia, addio”. La combattente venne uccisa dopo essere stata torturata per aver organizzato azioni di sabotaggio e fornito documenti falsi e abiti ai militari dispersi insieme ad altri membri del Komsomol, l’organizzazione giovanile sovietica che fungeva da supporto attivo al Partito Comunista.

La lotta partigiana femminile è un tema che solo negli ultimi anni è stato oggetto di studio: dalla fine della guerra, infatti, un silenzio generale ha tentato di normalizzare il ruolo delle donne che avevano sperimentato, di fatto, un’emancipazione dai ruoli tradizionali, liberandosi dai diktat che la volevano solo come angelo del focolare, madre e generatrice di figli per la Patria.

Non si ha un censimento esatto dei contributi femminili alla Resistenza, proprio per il suo carattere di massa: in Italia 35mila donne sono state riconosciute Partigiane e Patriote, ma rappresentano solo il contingente di punta di un vastissimo esercito di collaboratrici e sostenitrici della Lotta. Molte di loro, tuttavia, non chiesero mai la qualifica; cronache e storia ne ignorano persino i nomi.

E “Portateci nel cuore” ne raccoglie le testimonianze non solo dall’Italia ma anche da altri dieci Paesi europei, dando voce per la prima volta a queste donne, per lo più giovanissime, negli ultimi istanti delle loro vite: Austria, Belgio, Cecoslvacchia, Francia, Germania, Grecia, Jugoslavia, Polonia, Romania e Urss.

Tutte accomunate da “migliaia e migliaia di giovani che come me – scriveva Anka Kneževic, studentessa liceale di Podgorica, in Montenegro – hanno sacrificato la vita per la causa comune, per la prosperità dell’intera umanità progressista”. Parole che mostrano la piena consapevolezza che la sorte del singolo in realtà comprende quella della collettività e che diventano un inno di libertà.

Ghetto di Varsavia

Le testimonianze sono introdotte da quella di Settimia Spizzichino, deportata ad Auschwitz , l’unica degli oltre mille deportati della razzia del Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, che fece ritorno.

Pagina dopo pagina, lettera dopo lettera straziante, messaggio dopo messaggio graffiato sui muri delle prigioni, si entra nella storia attraverso le loro storie. Tristi, dilaniate dal dolore ma mai una parola di pentimento da parte di queste donne che mai usarono neppure la parola “coraggio” ed è vivida l’immagine di una forza che nasce dai valori più alti.

Partigiane nel Friuli orientale, estate 1944 (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Un libro che “ci urla di ascoltare – chiosa nella prefazione Tamara Ferretti, presidente dell’Anpi di Ancona, componente della Segreteria nazionale Anpi e responsabile nazionale del Coordinamento donne dell’associazione dei partigiani – ci mette di fronte, ci rende partecipi e responsabili di quella essenzialità, di quella determinazione e di quella umanità che queste Partigiane hanno saputo trasmettere”.

Con un monito: “Non lasciate che una catastrofe simile si ripeta mai più”, scrisse Gela Seksztajn in una lettera in lingua yiddish ritrovata negli archivi del Ghetto di Varsavia a cui la giovane donna di religione ebraica si dedicò prima di essere uccisa nella camera a gas del campo di sterminio di Treblinka.

Febbraio 1943. I nazisti impiccano, dopo averla torturata, la partigiana 18enne serbo-croata Lepa Radić. Siamo nel febbraio 1943, l’Italia è occupante insieme ai tedeschi

Il valore di questa pubblicazione sta anche in questo: ricordarci che non ci siamo liberati dalla guerra e dalle sue atrocità, rappresentando non solo un prezioso contributo alla Memoria ma anche un passaggio di testimone per le nuove generazioni.

Michela Murgia, recentemente scomparsa

“Se posso esprimerti un desiderio: racconta a tutti, a tutti di me. La nostra morte deve essere un faro” diceva la ventinovenne partigiana Libertas von Eulenburg, giustiziata nel dicembre ’42, nelle ultime parole alla madre. Perché “altre germoglieranno dopo la mia morte, migliaia” scriveva Dimitra Tsatsou, 23 anni, fucilata in strada insieme a un numero imprecisato di patrioti e “matriote”, come le avrebbe ricordate Michela Murgia.

Mariangela Di Marco, giornalista