In un importante saggio del 1973 Claudio Pavone affrontò, forse per la prima volta, la cosiddetta “continuità dello Stato”, cioè il disinvolto transito nei più diversi apparati dello Stato della neonata Repubblica di molti uomini che avevano ricoperto ruoli importanti durante il regime fascista. Membri di università, esercito, servizi segreti, magistratura, forze dell’ordine passarono nella Repubblica portando con sé una forma mentis fascistizzata del tutto incompatibile con la Costituzione antifascista e democratica. Come scrisse Pavone, “la continuità non è un male in sé, nella dissoluzione del regime era fondamentale che rimanesse uno scheletro di istituzioni, ma nel caso italiano questa continuità fu deleteria perché portava abitudini e opinioni in palese opposizione al nuovo Stato italiano”.

Primo governo De Gasperi, 10 dicembre 1945-1 luglio 1946. Togliatti è ministro di Grazia e Giustizia. Il decreto presidenziale n.4/1946, cioè la cosiddetta amnistia Togliatti, entra in vigore il 22 giugno

La fallimentare epurazione di elementi pesantemente compromessi con il regime e la sciagurata applicazione estensiva della nota amnistia di Togliatti sono all’origine della difficile transizione verso la democrazia: l’eredità autoritaria che ancora si annidava nelle istituzioni repubblicane funzionò come freno e ostacolo. Non è difficile immaginare la delusione di coloro che, dopo aver combattuto per una nuova Italia, si videro davanti, in una tregenda di opportunismo, chi fino a un giorno prima del 25 luglio 1943 era stato parte organica della dittatura mussoliniana. Ricordiamo a questo proposito il protagonista del dimenticato romanzo di Carlo Castellaneta, Notti e nebbie, un commissario di polizia della Rsi “che attende placidamente la sconfitta perché sa che i ‘nuovi padroni’ avranno presto bisogno di gente come lui, secondo quanto è sempre accaduto e sempre accadrà fino a che l’uomo ‘sarà fatto della stessa merda’”.

Lucca, componenti della banda Carità a processo, gioiscono con saluti fascisti alla notizia che sarà applicata anche a loro l’amnistia Togliatti

L’ultimo volume appena pubblicato per la collana laterziana Fact Checking è Il fascismo è finito il 25 Aprile 1945, di Mimmo Franzinelli e, in linea con lo spirito della serie curata da Carlo Greppi, smonta alcuni luoghi comuni storiografici, come quello appunto che il fascismo sia finito insieme alla guerra. Prendiamo il caso della Magistratura: dalle pagine di Franzinelli si comprende che, nonostante fosse stata così zelante durante il regime a perseguitare i dissidenti e a supportare giuridicamente persino le infamanti leggi razziali, passò invece indenne a ogni giusta epurazione. I giudici erano al contempo, infatti, sia i possibili epurati sia gli epuratori. Facciamo qualche nome degli alti magistrati che collaborano intensamente con la dittatura e che nel dopoguerra rimangono all’interno dello Stato: Lorenzo Maroni, Antonio Azara, ma è da ricordare l’incredibile vicenda di Lorenzo Pilotti. Questo giudice, già portavoce della politica estera di Mussolini nel mondo, nel 1941 è nominato presidente della Corte suprema di Lubiana cioè, scrive Franzinelli, “la punta di diamante della repressione antipartigiana”.

10 giugno 1946, a distanza di otto giorni dal voto, la Suprema Corte di Cassazione approva i risultati del referendum istituzionale

Lo ritroviamo in veste di antifascista nella Commissione che deve defascistizzare proprio il ministero degli Esteri e il Consiglio di Stato. Ma si toccano i vertici del grottesco quando Pilotti, rimasto alla Corte suprema di Cassazione, deve ratificare i risultati del referendum Monarchia/Repubblica: con le stesse idee di sempre, si rifiuta di farlo per una intera, una convulsa settimana, solo alla fine della quale arriverà la sua ratifica alla vittoria repubblicana. Un atteggiamento che rischiò “di innescare una gravissima crisi istituzionale ed esporre il Paese al pericolo di una nuova guerra civile tra fautori e avversari della Monarchia”. Eppure, a leggere la voce che wikipedia gli dedica, si rimane basiti: nella ricostruzione della sua carriera il fascismo non è mai nominato e la sua connivenza organica con il regime appare solo nella pagina relativa alla disputa referendaria, ma in modo accidentale e come frutto di “accuse giornalistiche”.

Anche nella Polizia i vertici rimangono tutti al loro posto. Mi pare esemplare il caso di Marcello Guida che, da direttore della colonia penale per i confinati di Ventotene, ritroviamo alla questura di Milano, da dove, dopo l’attentato alla Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969, depista le indagini verso una fantomatica pista anarchica. Insomma, dal fascismo alla strategia della tensione. Guida morirà da pensionato a Trieste nel 1990. Memorabile rimane lo sdegno del presidente Pertini che a Milano, il 25 aprile del 1970, non vorrà ricevere il funzionario ex fascista. Nel volume si tratta anche dei docenti fascisti che incontriamo nuovamente, dopo la guerra, nelle aule universitarie. Possiamo aggiungere, da parte nostra, qualche accenno relativo all’università di Padova, dove l’ateneo non solo contribuì in modo attivo all’applicazione della legislazione antisemita, ma inoltre avviò una sorta di pedagogia razzista elaborando lezioni e orazioni imperniate su concetti vaghi come razza, stirpe, superiorità razziale, avvalendosi di docenti che si prestarono consapevolmente a discutere e a trasmettere concetti privi di senso e scientificità (ma dagli effetti micidiali). Si pensi a Gaetano Pietra, preside della facoltà di Scienze politiche, o alle conferenze razziste del meno noto Marino Gentile, titolare della cattedra di Filosofia teoretica fino al 1976 (che cito perché la presenza fascista nelle istituzioni repubblicane non rimanga confinata solo ai ‘casi eccellenti’), il quale si profondeva in meditazioni sul “valore della razza italiana” che si affermava in Etiopia.

Nelle università italiane, uomini compromessi non casualmente con il regime in molti casi subirono epurazioni ridicole e contraddittorie; in altri casi si tentò di negare il passato, in altri ancora vi fu l’assoluta incapacità di qualsiasi autocritica. Ma nella generalità dei casi, alla fine tutti approdarono indenni alla fase repubblicana degli atenei e ripresero le lezioni come niente fosse. Come scriverà lo storico padovano Angelo Ventura, che si è occupato dei rapporti tra l’ateneo padovano e il regime, “sulle loro cattedre restavano indisturbati, o vi ritornavano dopo breve sospensione, i professori razzisti, e quanti si erano compromessi nella campagna antisemita, conservando posizioni di potere nel mondo accademico”. Naturalmente tra i docenti padovani ci fu chi disse no al fascismo, per ricordare il titolo di una campagna dell’Anpi nazionale, la cui conferenza conclusiva è stata organizzata proprio a Padova nel dicembre dello scorso anno.

Roma, università La Sapienza, 16 marzo 1968, Giorgio Almirante e picchiatori neofascisti sulle scale della facoltà di Giurisprudenza

L’ultimo capitolo del libro, “Uno sguardo al presente”, è un excursus sul neofascismo contemporaneo a partire dal Msi Almirante (che Giorgia Meloni elegge a padre spirituale), fino al recentissimo attacco squadrista alla sede nazionale della Cgil a Roma da parte di Forza Nuova.

Il fascismo storico è morto, ma i semi fascisti dell’autoritarismo, del razzismo e dell’antisemitismo sono in mezzo a noi. Franzinelli accenna anche “al fenomeno ben altrimenti insidioso di amministratori comunali, consiglieri regionali e parlamentari di centrodestra che rivelano un attaccamento viscerale al duce e ai suoi riti”.

No, non è vero che il fascismo è finito il 25 aprile 1945.